1/ «Nel governo tutti dovranno rispondere dell’apocalisse di Beirut». Un’intervista a Camille Eid di Caterina Giojelli 2/ Almeno tre miliardi di dollari di danni L’Araba Fenice colpita al cuore E il conto della ricostruzione già pesa sul fragile equilibrio, di Camille Eid
1/ «Nel governo tutti dovranno rispondere dell’apocalisse di Beirut». Un’intervista a Camille Eid di Caterina Giojelli
Riprendiamo sul nostro sito dal sito della rivista Tempi un’intervista a Camille Eid di Caterina Giojelli pubblicata il 5/8/2020. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Per la pace.
Il Centro culturale Gli scritti (10/8/2020)
Beirut, nave rovesciata nel porto dopo l'esplosione
Sono già stati raccolti i cadaveri di cento persone, 4 mila i feriti mentre la gente lancia appelli su tutti i social pubblicando le foto di amici e parenti ancora dispersi. Distrutto l’ospedale governativo, così come il deposito di medicine del ministero della sanità, distrutte le razioni alimentari, farina, grano, tutto. Vengono lanciati sos dalle imbarcazioni, case e palazzi crollati intrappolano un numero infinito di persone. Gli ospedali sono pieni, la Croce rossa fa appello a donare «tutti i tipi di sangue» e non sa più dove portare i feriti, «mai, nemmeno durante gli anni bui della guerra civile, avevo assistito a un’apocalisse del genere. Mia cugina è stata dimessa stamattina, sono scoppiate le finestre delle abitazioni nel raggio di dieci chilometri, auto e conducenti sono saltati in aria, la forza dell’onda d’urto è stata inaudita». È una giornata di fuoco per Camille Eid, giornalista e scrittore libanese, collaboratore di Avvenire e voce di una Beirut ancora fumante e dilaniata dalle esplosioni avvenute ieri, alle 18.15, nel porto della città, «proprio durante i due giorni di pausa tra i due lockdown stabiliti dal governo. Il primo, di cinque giorni, ha coinciso con la festa islamica del sacrificio. L’inizio del secondo, per fronteggiare la seconda ondata di Covid, era programmato per giovedì. In altre parole martedì e mercoledì si sarebbe lavorato, ieri quindi c’era molta gente in giro, a piedi e in auto».
Perché prima ancora dell’incidente si è pensato subito a un attentato di Israele?
Perché alcuni “testimoni” affermavano di avere visto aerei israeliani sorvolare la zona di Beirut e le montagne libanesi. Niente di nuovo, accade da vari mesi. Poi qualcuno ha parlato di un missile sparato da un caccia, da qui l’ipotesi, mai accreditata, dell’attentato israeliano. Una versione tuttavia nelle ultime sta tornando a circolare su siti e giornali stranieri alimentata da Hezbollah.
La prima versione ufficiale parlava di “fuochi d’artificio esplosi”. Solo dopo si è parlato di sostanze chimiche.
Il governo non conosce vergogna, il boato si è udito fino a Tiro e Cipro, il porto era stato raso al suolo, la gente sanguinava per chilometri, un’enorme nube avvolgeva la capitale e la prima voce “ufficiale” è stata quella del ministro della salute che parlava di materiale pirotecnico infiammabile. A queste folli dichiarazioni sono seguite quelle del direttore generale della pubblica sicurezza: è stato lui a parlare di deflagrazione di un carico nitrato di sodio e poi di ammonio sequestrato “un anno fa” e tenuto in magazzino. Poi si è scoperto che il sequestro era avvenuto nel 2013 e che il “carico” era pari a 2.750 tonnellate di sostanze altamente esplosive.
Come è possibile che fossero immagazzinate in porto?
Un porto tra l’altro adiacente alle aree urbane e residenziali della città come quello di Genova: 2.750 tonnellate sequestrate a una nave moldava e stoccate per quasi sette anni senza misure di sicurezza. Ora è stata istituita una commissione di inchiesta, incaricata di stendere un primo rapporto entro cinque giorni e fare chiarezza sulla natura e il luogo dell’esplosione. Vedremo cosa scriveranno.
Cosa temi che possano scoprire?
A pochi giorni dal verdetto dell’Aja sull’omicidio di Rafic Hariri (che dovrebbe condannare membri di Hezbollah e del governo siriano, ndr), se venisse fuori che a esplodere è stato del “materiale sensibile” immagazzinato da Hezbollah (nulla vieta che ci si serva anche del porto per importare armi o munizioni) o che tali sostanze servono alla fabbricazione di missili, in Libano scoppierà l’inferno. Dopo di che, tutti abbiamo seguito la dinamica dell’esplosione, preceduta da un incendio a piccoli scoppi; accidentale o doloso, qualunque sia la natura di quel primo incendio e cosa l’abbia innescato, le ripercussioni saranno enormi. E non parlo solo di conseguenze economiche.
Chi sono i primi responsabili?
Parlerei di irresponsabili, più che altro, la lista è lunga e inizia col direttore della dogana e chi ha ordinato il sequestro del materiale. Si parla di un controllo avvenuto in questi depositi sei mesi fa: tutti quindi sapevano cosa c’era in porto e nessuno può scaricare la responsabilità, tutti dovranno rispondere. Mancava solo questa terribile tragedia al Libano, stremato dal crollo record della valuta nazionale, dalla crescita esponenziale dell’inflazione, dal lockdown e dall’emergenza sanitaria del Covid. La popolazione è sul lastrico, la metà dei libanesi vive sotto la soglia della povertà, il paese andava verso il baratro ben prima dell’esplosione. Un sistema al collasso che oggi conta i suoi morti e non sa dove curare i feriti: ne hanno portati oltre cinquecento stanotte nell’ospedale della mia zona a Beirut, centinaia in quello americano dove a causa della crisi sono appena stati licenziati in tronco 850 fra dipendenti e infermieri. La città non aveva mai vissuto un giorno di sangue, morti e feriti paragonabile a questo nemmeno durante la guerra, col governatore in lacrime al porto che urlava «è come Hiroshima».
Vivi in Italia, a chi hai telefonato appena saputo cosa stava accadendo?
Subito a mio fratello, vive a 40 chilometri dal porto ma la gravità della situazione era chiara a chiunque. Poi è iniziato il giro dei familiari in città e la conta dei danni; mia cugina è stata dimessa stamattina, dopo essere stata ferita come moltissimi cittadini dallo scoppio delle finestre, il vetro le è letteralmente crollato sulla testa. Ad ogni minuto però la tragedia si sta facendo se possibile ancora più severa: cresce il numero dei feriti, dei morti carbonizzati nelle auto, si moltiplicano gli appelli sui social per i dispersi e tutti denunciano l’aria irrespirabile. Nessuno sa cosa provocheranno i veleni rilasciati nell’atmosfera e abbandonare la città, come da invito del ministro della salute, è per molti impossibile.
Cosa deve succedere ora a Beirut?
Il premier Hassan Diab ha dichiarato una giornata di lutto nazionale, è stato chiesto lo stato di emergenza e il controllo passerà ora all’esercito, nell’ottica di evitare in primis il ritorno delle rivolte in piazza. Ma se a chi governa è rimasto un briciolo di dignità e rispetto per la popolazione, devono dimettersi tutti. Un deputato lo ha già fatto, ma devono andarsene tutti. Molti aiuti internazionali sono stati predisposti subito per il Libano, oltre a inviare un distaccamento di sicurezza civile la Francia ha promesso diverse tonnellate di materiale sanitario. Dopo la distruzione del porto di Beirut, che convogliava l’80 per cento dei traffici, il popolo ha un bisogno disperato di tutto. Quello che è fondamentale è che non una briciola di questi aiuti, di qualunque natura siano, passi dalle mani del governo. Si esortino le singole ambasciate a organizzarsi con le ong di riferimento perché gli aiuti arrivino direttamente alla popolazione, senza passare da un sistema caratterizzato da corruzione e clientelismo. Senza passare da chi, nell’indifferenza generale, ha trascinato il Libano verso il baratro. Il prossimo 1 settembre il paese doveva festeggiare i cent’anni della sua nascita. Speriamo di non trovarci a celebrare la sua morte.
2/ Almeno tre miliardi di dollari di danni L’Araba Fenice colpita al cuore E il conto della ricostruzione già pesa sul fragile equilibrio, di Camille Eid
Riprendiamo sul nostro sito da Avvenire un articolo di Camille Eid pubblicato il 6/8/2020. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (10/8/2020)
Una catastrofe nel vero senso della parola. Quantomeno su questo giudizio i libanesi sono unanimi, anche se poi divergono sulle cause che hanno portato alla completa distruzione del loro maggior scalo marittimo. La prima stima dei danni parla di una somma compresa tra i tre e i cinque miliardi di dollari, una cifra enorme per un Paese che non è riuscito, lo scorso marzo, a pagare 1,2 miliardi di debito. E che cerca di economizzare su tutto per preservare la ridottissima riserva della Banca centrale, stimata attorno ai 18 miliardi.
Dai tempi più antichi, raramente il porto di Beirut ha dovuto fermarsi. Una volta, nel febbraio del 1912 quando la flotta italiana ha bombardato la città (provocando 66 vittime civili) per affondare due navi ottomane. Un’altra, durane la guerra civile (1975- 1990) quando il porto ha dovuto ora ridurre ora interrompere le sue attività, trovandosi sulla linea verde che divideva la capitale in due settori.
Fino a martedì, attraverso lo scalo libanese – che accoglieva tra 130 e 260 navi al mese – passava la maggior parte delle importazioni libanesi e l’80 per cento del grano. Ora, il traffico sarà tutto convogliato verso altri porti secondari, come Tripoli e Sidone, i quali non possiedono le stesse capienze. Le conseguenze su un’economia già al collasso si faranno presto sentire sulla popolazione.
Il primo pensiero va alla sicurezza alimentare. Il timore immediato è che lo Stato decida di ridurre il pacchetto dei 300 prodotti di base, principalmente dei generi alimentari, sussidiato da un circa un mese dalla Banca centrale, con l’obiettivo di compensare le perdite subite. Un eventuale taglio rischia di scatenare nuove proteste di piazza che non avranno più alcuna remora ad abbandonare il loro aspetto pacifico.
L’impatto sarà doppio per quei 300mila cittadini costretti a trovare rifugio in altre case, nonostante l’assistenza governativa promessa.
Ma ci saranno anche risvolti politici, soprattutto a livello dello status e del rapporto di Hezbollah con le altre componenti. Non solo in relazione alle voci che parlano di uno stoccaggio di “materiale sensibile” all’interno del porto, ma anche all’atteso verdetto sull’assassinio di Rafiq Hariri, rinviato ieri dal Tribunale internazionale al 18 agosto.
Il leader del movimento sciita, Hassan Nasrallah, ha rinunciato all’ultimo al suo discorso, già in programma ieri, sostituito con un generico quanto patetico appello all’unità nazionale. Hezbollah ignora quindi, o finge di ignorare, che è esattamente la sua politica di schieramento regionale a impedire al Libano di ricompattarsi.
Peggio, ha privato il Libano di tanti suoi tradizionali amici, arabi e occidentali, accelerando il crollo economico del Paese. La comunità internazionale corsa ieri ad offrire aiuti e medicine al Libano è piuttosto mossa da motivazioni umanitarie e non intende transigere sulle condizioni fissate per ogni ulteriore aiuto: l’introduzione di vere riforme contro la corruzione dilagante e una politica estera libanese fedele alla vocazione storica del Paese, cioè di ponte tra le culture.
Da qui, l’appello del patriarca maronita alla creazione di un «fondo internazionale» per la gestione degli aiuti, nonché le richieste di formare una commissione d’inchiesta araba o internazionale sul disastro, rappresentano un atto di sfiducia nei confronti di governanti libanesi che danno ogni giorno nuove prove delle proprie incompetenze.
Ma il tempo stringe e i cambiamenti non si vedono ancora. Il Libano che si apprestava a celebrare, il prossimo primo settembre, il centenario della sua nascita sembra incamminarsi verso il baratro.