Africa. Il Mali stretto dalla tenaglia degli islamisti, di Mario Giro
Riprendiamo sul nostro sito da Avvenire una lettera di Mario Giro, già viceministro degli Esteri pubblicata il 14/7/2020. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Islam.
Il Centro culturale Gli scritti (5/8/2020)
Caro direttore,
il Mali è nella tormenta. Oltre al terrorismo jihadista al nord ora c’è anche la crisi politica nella capitale Bamako. Difficilmente il presidente Ibrahim Boubakar Keita (Ibk) riuscirà a mantenersi al potere senza vistose concessioni: le manifestazioni di piazza si moltiplicano senza sosta. Nell’ultima i manifestanti hanno occupato la tv nazionale che ha sospeso le trasmissioni, e addirittura devastato il Parlamento.
La polizia, finora rimasta in disparte, è intervenuta e ci sono stati alcuni morti. L’ordine di attaccare gli edifici pubblici era stato dato ai manifestanti dal numero due del raggruppamento politico fondato dall’imam Dicko, un popolare leader musulmano. Una volta alleato di Ibk, Dicko ora mostra un volto rigorista, chiede l’introduzione della sharia e il dialogo coi jihadisti pur dichiarandosi non violento.
Approfittando del fatto che il maggior oppositore maliano, Soumaila Cissé, è stato rapito dai jihadisti nel marzo scorso, l’imam Dicko è rimasto l’unico oppositore di rilievo nel panorama politico nazionale, ottenendo de facto una funzione di leader.
La popolazione, stanca per la corruzione e le continue sconfitte del proprio esercito nella guerra al nord, trova in questo imam l’ultimo possibile riferimento in una situazione aggravata dal Covid-19 e dalle sue conseguenze economiche. In Mali già due volte sono state le manifestazioni di piazza a provocare un cambiamento di regime: quelle contro il dittatore Moussa Traoré, sulla spinta dei movimenti democratici degli anni Novanta che segnarono il passaggio al multipartitismo, e quelle contro Amadou Toumani Touré nel 2012. In entrambi i casi fu la piazza a volere il cambio e per questo Ibk è seriamente in pericolo. Ciò non significa che un eventuale cambio al vertice basti per fare uscire il Paese dal caos in cui si trova. Mahmoud Dicko è un personaggio dai contorni misteriosi e chiacchierati.
Da musulmano wahabita nel 2009 si era opposto al nuovo codice della famiglia che apriva ai diritti delle donne, così come nel 2019 aveva fatto censurare un manuale scolastico che citava semplicemente l’omosessualità e aveva ottenuto le dimissioni del primo ministro. Anche il suo voltafaccia nei confronti con Ibk, del quale sostenne la rielezione nel 2018, e la decisione di trattare con i jihadisti del nord, lasciano molti interrogativi aperti.
Ciononostante è molto rispettato dal popolo, in un paese al 95% musulmano, anche per la sua fama di incorruttibilità e per il fatto di aver diretto il consiglio degli ulema per oltre 10 anni. Dal canto suo Ibk ha molte colpe: brogli alle presidenziali del 2018 e alle legislative di quest’anno; incarcerazioni di oppositori che ora lo lasciano senza interlocutori; nessun accordo con Soumailà Cissé quando ciò era possibile; cattive relazioni con gli alleati francesi dei quali critica l’ingerenza pur appoggiandosi su di loro; incapace di ascolto con opposizione, media e popolo. Anche se l’attuale coalizione delle opposizioni è un ammasso eterogeneo in cui svetta solo la figura dell’imam rigorista, Ibk potrebbe essere estromesso dal potere come i suoi predecessori. E allo stato delle cose ciò non farebbe che aumentare il caos.
Gli osservatori di ciò che accade nel Sahel sanno che il Mali è il Paese chiave attorno a cui si svolge dal 2012 la guerra al terrorismo jihadista. Malgrado ciò l’esercito maliano ha sempre dato cattiva prova di sé e resiste solo per l’appoggio dei suoi alleati: in primis i francesi a cui si sono aggiunti negli anni americani, tedeschi e altri europei, in prospettiva anche spagnoli e italiani.
Oltre alle operazioni Serval prima e Barkhane oggi (circa 5mila militari inviati da Parigi) si aggiunge la nuova operazione Takouba (spada, in lingua tuareg) che vedrà coinvolte forze speciali di vari Paesi della Ue (estoni, cechi e svedesi sono già sul posto). Poi ci sono i 15mila caschi blu Onu della Minusma e altri 5mila dei paesi limitrofi organizzate nel G5 Sahel. Seicento tedeschi sono già operativi in area e un centinaio di militari italiani sono in Niger in attesa di ordini. Tale spiegamento di forze non è tuttavia riuscito ad ottenere la fine delle ribellioni tuareg a cui si sono abilmente affiliati i jihadisti, dirottandone gli scopi fin da principio. Così oggi la fragile democrazia maliana è presa in una tenaglia impossibile: da una parte il jihadismo, dall’altra il rigorismo salafita. Stiamo per assistere alla nascita del primo 'Stato islamico' del Sahel?