La triplice questione della carità verso i senza fissa dimora, di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Nuove schiavitù.
Il Centro culturale Gli scritti (5/8/2020)
Il numero crescente di persone senza fissa dimora in alcune zone di Roma deve interrogare e richiede un grande senso di carità e, insieme, una riflessione intelligente, poiché una carità senza intelligenza non riesce ad aiutare concretamente le persone in difficoltà e può demoralizzare anche chi cerca di aiutarle.
1/ Una progettualità possibile
Serve innanzitutto una progettualità, anche se, come si vedrà immediatamente, mentre una progettualità con i migranti è possibile e anzi necessaria, con i senza fissa dimora potrà servire solo per una percentuale ridotta di persone.
Per progettualità intendiamo un intervento di carità che miri innanzitutto a inserire per la prima volta o reinserire la persona nel mondo del lavoro, di modo che possa mantenersi, anche se poveramente, con i propri mezzi e possa così accedere ad una “dimora fissa”, essendo in grado non solo di pagare un affitto, ma anche di saper gestire una propria residenza, per quanto piccola.
Giungere ad una possibile e praticabile proposta lavorativa, preceduta anche da eventuali corsi di formazione, appartiene all’ordine delle progettualità, perché solo tale prospettiva aiuta la persona a sentirsi degna e responsabile di altri, capace di un proprio apporto alla società.
2/ Una progettualità quasi impossibile, mentre resta possibile la fraternità
Tale progettualità è però difficilissima in questo caso, perché la maggior parte delle persone che vivono senza fissa dimora non hanno questo come primo ed unico problema, ma la loro situazione è spesso legata ad un disagio mentale pregresso o sorto dopo anni e anni di vita per strada, spessissimo reso ancora più pesante dall’assunzione di alcool o di stupefacenti.
Tale condizione appare anche dal burn out o dalla rassegnazione di numerosi operatori credenti o laici che sanno ormai di non essere più in grado di recare un grande aiuto ai senza fissa dimora in termini progettuali. Dopo tanti progetti andato a vuoto, con l’intervento di psichiatri, di esperti di tossicologia, con proposte varie di inserimento in comunità o di ritorno nelle proprie famiglie di origine, tutti andati a male, sanno di avere ormai ancora pochissime possibilità per portare a termine con i loro assistiti un pieno reinserimento in una condizione di vita nuovamente “con una fissa dimora”.
In moltissimi casi, allora, scompare la progettualità, che è invece la condizione sine qua non dell’accoglienza di un giovane migrante, e la carità si deve trasformare in una “vicinanza” di amore che rinuncia a progetti.
L’unica progettualità possibile è, per alcuni, quella di comunità più piccole, di cui si dovrebbe fare carico anche lo stato, ad esempio mettendo a disposizione i cortili di alcune delle numerose caserme inutilizzate presenti in città, dove persone senza fissa dimora possano dormire maggiormente al sicuro all’aperto, in numeri più piccoli dei grandi ammassi che si creano senza una gestione della cosa.
La carità e il volontariato hanno qui il loro spazio nell’amicizia, nella frequentazione, nel dialogo costante con i senza fissa dimora. Ne posso testimoniare la rilevanza a partire dal gruppo della parrocchia di San Tommaso Moro che ogni settimana visita le persone di largo Passamonti senza apportare, per scelta, alcun tipo di cibo o di aiuto concreto o di somma di denaro, ma semplicemente per stare insieme, per tessere relazioni: l’esperienza ha mostrato loro che proprio l’andare a mani vuote, senza niente di concreto da offrire, apre uno spazio ad una fraternità vera che è apprezzata più della continua offerta di cose materiali alla fin fine ripetitive e inutili.
Questa amicizia è decisiva, restituisce dignità e, ogni tanto, si muta anche in piccoli interventi di miglioramento materiale della vita di chi vive in quella “comunità di strada”, a partire da richieste concrete che vengono da chi dorme in quelle roulottes.
Anche la proposta di El Hogar de Cristo appare possibile e, anzi, buonissima (vedi su questo un mio precedente testo El Hogar de Cristo: una famiglia e non una carità assistenzialistica, in Argentina, una grande nazione: appunti di gauchos, dittatori, immigrati e villas miseria e ora anche di papi (I parte), di Andrea Lonardo). Lì non si offre da mangiare, se non a chi viene almeno un’ora prima a stare insieme. La proposta si struttura non come una mensa, ma come una comunità di amicizia.
Oggi a Roma nessuno muore di fame, perché sono tantissime le strutture cristiane e laiche che forniscono cibo: quello che manca è il calore della relazione umana e El Hogar de Cristo si preoccupa in primo luogo di questo, sapendo che altre ipotesi vengono solo dopo.
3/ Anche la prevenzione è vera carità
Decisivo si rivela poi il lavoro di prevenzione. Non basta agire sulle persone che ormai hanno pochissime possibilità di reinserimento, si tratta ancor prima di sostenere i giovani, perché non si ritrovino a non avere altra alternativa che la vita per strada.
Qui appare decisivo innanzitutto il sostegno alle famiglie. La maggior parte dei senza fissa dimora ha alle spalle delle famiglie - e come potrebbe essere altrimenti se non si può che nascere da un padre e da una madre – che già al momento della nascita o successivamente hanno “fallito” nel loro compito. A volte non per propria responsabilità – vedi il caso della morte di un genitore o della perdita del lavoro –, altre volte perché non sono state in grado di reggere il disagio mentale o il “fallimento” del loro figlio.
Più le famiglie si disgregano, più il tessuto sociale diventa debole e più persone si ritroveranno a vivere per strada.
La cura sociale delle famiglie, il sostegno ad esse, la stima culturale e sociale della missione dei padri e delle madri, ma anche dei nonni e dei fratelli, è la scelta decisiva, l’unica vera alternativa di prevenzione al vivere “senza fissa dimora”.
Ma, legato a questo, sta la passione per la scuola e per la fede. Dove le famiglie “falliscono” a volte è un docente a scuola o una comunità parrocchiale che riesce a farsi carico di un giovane in difficoltà.
Se la società non cura con passione la scuola e la catechesi, tutto diventa più complicato e un giovane in difficoltà non ha che la famiglia a cui appoggiarsi.
Questa nuova prospettiva nella quale gli operatori delle emergenze e quelli della vita ordinaria e preventiva divengono due facce dell’unica medaglia della carità che sempre soccorre e sempre previene, diviene l’unica sensata e, nel lungo periodo, l’unica feconda e misericordiosa.
4/ Le micro-fratture nel vissuto personale, nell’analisi della Caritas di Roma
Per uno sguardo a storie che lasciano intuire come si giunga a vivere per strada e per alcune testimonianze sul dramma crescente della solitudine che poi diviene disagio, vale la pena leggere ciò che scrivono chi vive a contatto con i senza fissa dimora e le diverse associazioni che se ne occupano.
La Caritas di Roma in un suo studio (http://www.caritasroma.it/wp-content/uploads/2018/11/Persone%20Senza%20Dimora%20WEB%20DEF_16%20nov.pdf) suggerisce, fra le diverse nuove prospettive sulla questione, quella cosiddetta “qualitativa”, che non si limita a enumerare i diversi dati statistici, ma tenta un approccio qualitativo al problema. In particolare è prezioso il «modello interpretativo dell’accumulo di microfratture biografiche, elaborato all’inizio degli anni Novanta. Le microfratture sono lesioni quasi invisibili dell’esistenza che interessano sia la personalità che il contesto sociale e che si ripercuotono a un livello profondo del vissuto. Non per forza si tratta di eventi oggettivabili nella realtà ma di quotidiani slittamenti di senso, di esperienze fallimentari che hanno la forza destrutturante di mettere in discussione e allentare il legame sociale: «se per lungo tempo, infatti, di fronte a condizioni di povertà estrema si è cercato di individuare eventi traumatici che indicassero profonde fratture all’interno delle “traiettorie biografiche” dei soggetti, ricerche condotte recentemente hanno messo in luce, invece, che l’impoverimento si produce piuttosto secondo micro variazioni lente e diffuse, che difficilmente sono percepite sia dall’esterno che dai soggetti stessi» (FRANCESCONI, 2003, p. 36). È difficile quindi intercettare queste microfratture perché spesso si tratta di piccole privazioni quotidiane che assumono la loro pervasività solo nel lungo periodo e in modo graduale, spesso non percepite o non riconosciute nemmeno da chi le vive in prima persona. Sta proprio qui, per la gran parte delle situazioni di accompagnamento sociale, la difficoltà di ricondurre lo stato di deprivazione estrema a prospettive di fuoriuscita dal disagio: nell’impossibilità di identificare una causa univoca e scatenante dei percorsi di impoverimento estremo nella vita delle persone senza dimora e, di conseguenza, di agire su di essa. […] Caritas Roma constata quotidianamente sul campo le implicazioni immateriali della deprivazione estrema, che sono strettamente legate a fattori ed eventi critici cui è riconducibile: provenienza da contesti familiari violenti; percorsi di affidamento falliti; separazioni, divorzi; perdita o precarietà del lavoro; disabilità fisiche; malattie; disturbi psichiatrici; abuso di sostanze, nuove dipendenze; fallimento del progetto migratorio; esperienze di istituzionalizzazione. La prospettiva delle microfratture quindi – sebbene non generalizzabile come del resto ogni approccio qualitativo – consente di riconnettere la dimensione individuale a quella sociale aprendo interessanti percorsi interpretativi: «focalizzarsi sull’analisi delle microfratture nello studio dei processi di impoverimento significa essere convinti che l’attuale società sia sempre contraddistinta da stati di malessere che per lungo periodo possono rimanere latenti, intimi ed interni alla personalità dei singoli soggetti, e seguire logiche certamente poco conosciute e difficilmente individuabili» (Ibid., p. 37)».
Una questione che balza agli occhi è che almeno 1/5 delle persone senza fissa dimora risulta, secondo gli studi Caritas, sofferente di un disagio mentale (ma probabilmente il numero delle persone che annoverano un disagio mentale fra le cause delle microfratture che hanno subito è molto più alto). Così lo studio della Caritas di Roma:
«Un aspetto critico delle persone senza dimora è la salute mentale. I dati della Struttura Complessa di Medicina preventiva delle migrazioni presso il San Gallicano a Roma (INMP, 2015) documentano che, nel periodo 2007-2014, su circa 5.000 persone senza dimora italiane e straniere visitate, 1.048 hanno ricevuto una diagnosi di disturbo psichiatrico, secondo quanto riportato nel grafico.
Disturbi psichiatrici documentati all'ospedale San Gallicano tra il 2007 e il 2014
Disturbi dell'umore 295
Dipendenze da alcol e droga 294
Disturbi legati all'ansia 183
Schizofrenia e disturbi psicotici 88
Disturbi dell'adattamento 77
Disturbi di personalità 58
Disturbi cognitivi 21
Altri disturbi 32.
I dati provenienti dall’Ambulatorio di Caritas Roma di Via Marsala, anni 2005- 2011, attestano un 17% di diagnosi riguardanti disturbi psichiatrici o prescrizioni psicoterapiche per traumi legati alla migrazione (CARITAS ROMA, 2011): una percentuale comunque significativa, che tra l’altro non include i casi con sintomatologie aspecifiche e la tipologia di esami o visite specialistiche richieste, tra cui rientravano anche prescrizioni per visite psichiatriche. È estremamente delicato improntare un rapporto terapeutico con le persone senza dimora che presentano disturbi psichici: le loro condizioni di vita, infatti, influiscono sia sulla possibilità di assumere i farmaci prescritti sia sulla gravità dei sintomi, delineando spesso prognosi non positive. Inoltre, la vita in strada e la povertà estrema possono di per sé concorrere all’insorgenza di disturbi psichiatrici, dipendenze, disturbi di personalità. L’accesso ai Centri di Salute Mentale (CSM) d’altra parte, sempre secondo i dati forniti dall’INMP, è del tutto insufficiente a garantire il benessere sociale e sanitario dei pazienti senza dimora: solo lo 0,9% ha usufruito, per diverse ragioni, di tali servizi sanitari. […] La consapevolezza da porre sempre in evidenza è la stretta interconnessione tra esclusione sociale e sofferenza psichiatrica, reindirizzando gli sforzi di inclusione verso la presa in carico di fragilità presenti su molteplici livelli. Spesso, infatti, spazi di accoglienza non adeguati a questo tipo di sofferenza possono non facilitare la presa in carico, almeno nelle fasi di acuzie, laddove si richieda invece un intervento quanto più immediato e specialistico. La tossicodipendenza e l’alcolismo sono altre patologie ricorrenti, che spesso complicano le condizioni cliniche pregresse o causano patologie secondarie: l’alcolismo, ad esempio, oltre ad essere di per sé un disturbo psichiatrico (dipendenza da sostanza) può comportare lo sviluppo di cirrosi epatiche oppure di pancreatiti, a loro volta corresponsabili dell’insorgenza del diabete mellito e di altre complicazioni. A lungo andare, infine, tossicodipendenza e alcolismo possono portare a disturbi mentali anche gravi in doppia diagnosi (schizofrenia, disturbi di personalità, ecc.)».
5/ Un giornalista fra i senza fissa dimora a piazza dei Siculi
Prezioso, anche se triste, è l’esperienza di momenti condivisi con i senza fissa dimora da giornalisti che hanno cercato di capire da vicino la situazione. Giuseppe Rizzo ne ha parlato in Nella città invisibile dei senzatetto, su Internazionale del 9 settembre 2019 (quindi precedente al Covid).
Così racconta Rizzo: «Steso ai piedi di una delle quattro panchine della piazza, metà a terra e metà su un’aiuola, Godstime è uno dei senza dimora che dorme qui, a un chilometro dalla stazione Termini, nel quartiere di San Lorenzo. È un ragazzo sui trent’anni arrivato dalla Nigeria qualche tempo fa, soffre di disturbi mentali e si alza quasi solo per fare i suoi bisogni. L’inverno l’ha passato rannicchiato nel vano di una porta che affaccia su via dei Salentini. Una notte della scorsa primavera, come un fantasma arrivato da chissà quale epoca e mondo, ha svegliato il quartiere con le sue urla. Alla fine gli hanno fatto un trattamento sanitario obbligatorio e lo hanno portato in ospedale. Dopo una settimana è ricomparso e ha preso posto in uno degli angoli della piazza. Tempo fa un operatore della sala operativa sociale (sos) del comune di Roma mi ha detto che ogni volta che passa di qui gli sembra di trovarsi di fronte a un reparto psichiatrico a cielo aperto. Quello vero, ospitato in uno dei padiglioni dell’ospedale Umberto I, si trova a poche centinaia di metri e ha venti posti letto, come previsto dalla legge 180 del 1978 per evitare le sofferenze dell’ammasso dei vecchi manicomi. Nel giro di un paio di chilometri le persone che vivono per strada e che soffrono di malattie psichiatriche sono tante quanto quelle ricoverate all’Umberto I, se non di più».
Rizzo spiega come, a differenza del sentire comune, è l’estate il periodo più difficile per i senza fissa dimora:
«Il pensiero comune è che sia l’inverno la stagione più terribile per i senzatetto. Ci si immagina che gelo e pioggia possano spezzare un cuore: ed è vero, ma solo a metà. L’estate, se possibile, può essere ancora più feroce. I centri d’aiuto rallentano le loro attività, i volontari diminuiscono il loro impegno e le persone spesso restano sole, torturate e sfinite dal caldo, dalle malattie e dall’impotenza. È per capire le conseguenze di tutto questo che ho spiegato a Omar – un ragazzo che vive per strada e che conosco da anni – di voler passare una notte e un giorno per le strade di Roma e gli ho chiesto di accompagnarmi. Il suo nome, così come alcuni dettagli della sua storia, sono stati cambiati».
«Omar ha steso la sua coperta – grigia, sottile, nera nei punti in cui le sigarette l’hanno bruciata – e sopra ci ha messo il sacco a pelo. Alto quasi due metri, camicia azzurra a maniche corte, jeans neri e sneakers bianche, porta sul viso gli indizi delle sue origini: gli occhi sono chiari, come quelli del padre tedesco; la pelle è olivastra, come quella della madre marocchina. I due si sono lasciati quando lui era ancora piccolo e il dolore per quella separazione non lo ha mai lasciato, così come quello per la morte del padre. All’epoca aveva diciotto anni e studiava all’istituto francese di Palma di Maiorca, città dove i genitori si erano trasferiti prima di divorziare. Da allora, Omar dice che il suo cuore è in preda a dolori e torture, causati da persone che lo perseguitano. Ne sente le voci e le offese. Ogni giorno lotta perché non prendano il sopravvento. In due occasioni ha provato a uccidersi. “Era un periodo tremendo, ero a Tangeri, mi sentivo solo, abbandonato da tutti”, mi ha detto una volta. Da allora ha vissuto dei periodi in clinica, altri dagli zii in Germania, altri ancora per strada a Madrid e a Parigi, e da quattro anni è a Roma. Lo scorso aprile è andato al policlinico Umberto I per farsi ricoverare, accompagnato dallo psichiatra Andrea Figà Talamanca e da alcuni operatori della sos. Il fatto che ci abbia messo piede volontariamente è stato allo stesso tempo una misura della sua disperazione e un tentativo di placarla. Ha fatto una doccia dopo più di un anno, ha tagliato barba e capelli, e ogni settimana incontra Talamanca al centro di salute mentale di via Palestro. Ha una rete di persone di cui si fida – volontari della Comunità di Sant’Egidio, operatori della sos, abitanti di San Lorenzo – e oggi sulle sue labbra compaiono sempre più spesso un sorriso e una dolcezza di cui prima si poteva solo sospettare».
Rizzo racconta del suo tentativo di trovare un alloggio nella notte, per saggiare la consistenza degli aiuti reali esistenti messi in atto dallo Stato e dalle diverse organizzazioni:
«Chiamo la sala operativa sociale per capire se ci sono posti dove poter dormire. Lo scorso 23 luglio la sindaca di Roma Virginia Raggi ha scritto su Facebook che ce ne sarebbero stati di nuovi: “Abbiamo predisposto un Piano Caldo che assicura servizi e assistenza ai soggetti più fragili come persone senza dimora e famiglie in difficoltà. Anzitutto abbiamo ampliato di 280 unità i posti complessivi per l’accoglienza diurna e notturna, che si sommano ai 1.075 ordinari”. Al numero verde della sos risponde una ragazza. Le spiego che per dei problemi a casa sono andato via e che non vorrei dormire per strada. “Capisco”, dice, “purtroppo a quest’ora è difficile che trovi un posto, è tardi, le strutture hanno già fatto l’accoglienza, la cosa migliore è andare domani all’help center e spiegare lì la tua situazione”. Sono le undici di sera, è tardi: la cosa migliore per stasera arriva domani. […] Alle dieci [del mattino] raggiungiamo l’help center in via Marsala, a qualche centinaio di metri da piazza dei Siculi. Davanti all’ingresso ci sono tre persone che dormono sopra a tre vecchi materassi. Dentro ci fanno sedere e poi un operatore dietro a un computer chiede, senza mai alzare lo sguardo dallo schermo: “Italiani o stranieri?”. Italiani e stranieri. “Cosa vi serve?”. Chiedo se ci siano posti dove poter mangiare e strutture dove poter dormire. Lui torna con lo sguardo al monitor: “Alla Caritas, dovete andare alla Caritas”. Chiedo se lì ci siano posti dove poter dormire. “Devi chiedere a loro, ti sapranno dire loro”. Si alza, ci porta fuori e ci indica un portone. “Andate lì”, dice. E se ne torna dentro prima ancora di poterlo salutare. “Sempre è così la strada”, dice Omar, “chiedi una cosa semplice, e mai ti rispondono”».
Terribile è che la struttura del Comune non abbia niente altro da dire che: “Andate alla Caritas” e che, d’altro canto, si dia per scontato da parte della città che vada bene così!
Rizzo passa allora alla Caritas per chiedere un posto letto per la notte successiva:
«Alla Caritas, prima di farci entrare una signora vuole sapere chi siamo e di cosa abbiamo bisogno. Un italiano e uno straniero. Abbiamo bisogno di sapere se qualcuno ci possa aiutare in giorni in cui il caldo è tremendo e la città si è svuotata anche di volontari e persone che danno una mano. “Posti per dormire dubito che ce ne siano, comunque ora entrate e fate il colloquio”, dice. Omar saluta e se ne va. “Sono in piazza”, dice. La signora dell’accoglienza prova a trattenerlo ma prima ancora di poterlo convincere, Omar ha già attraversato la strada. “Mi dispiace”, dice la signora, “tu siediti che ora parli con l’operatrice e gli spieghi tutto”. Passa un quarto d’ora, fotocopiano la mia patente, mi fanno firmare un foglio per il rispetto della privacy e poi mi accompagnano dall’operatrice. È giovane, accogliente e sola in una stanza con diverse scrivanie vuote. “Allora, cos’è successo?”, chiede. Le dico che sono andato via da casa perché le cose andavano male. “Male come?”, chiede. Le dico che non voglio parlarne. “Mi dispiace, ma qualcosa devi dirmela, se no come faccio ad aiutarti”. Le dico che la scorsa notte ho dormito per strada e che non vorrei tornarci. “Lo capisco, ma come ci sei finito?”. Insiste, ma senza essere spiacevole. Nel silenzio che segue, sulla sua faccia si disegna un’ombra di sconforto. “Come faccio ad aiutarti, così?”, chiede. “Con un posto per dormire?”, dico. “No”, dice, “siete in tanti e le strutture sono piene”. Un posto dove potersi riparare dal caldo durante il giorno, una mensa? “Le mense ci sono, ma non ti posso fare la tessera se non mi dici qualcosa di te”. Insiste, non è mai sgradevole, ma non è neanche d’aiuto. È complicato trovarsi sulla sua sedia. Aiutare le persone non è una cosa così semplice come si crede. Negli anni ho parlato con un sacco di operatrici e operatori, e tutti raccontano storie simili: a volte ci si indurisce per la fatica o per autodifesa, altre ci si deprime in preda all’impotenza, più spesso si è pagati male e ci si chiede se sia stata la scelta giusta quella di andare a svuotare il mare con un cucchiaino. Il colloquio con l’assistente sociale negli uffici della Caritas dura in tutto dieci minuti ed è un fallimento per entrambi. Quando lo racconto a Omar, si limita a scuotere la testa. “Andiamo a Colle Oppio”, dice, “c’è una mensa, lì non fanno domande”».
Ben diverso è l’atteggiamento della Caritas, rispetto all’Help Center comunale, ma la mancanza di posti è endemica e la tristezza di un incontro in cui anche chi aiuta ha la consapevolezza di poter fare poco è evidente.
Il cibo è quello che non viene negato a nessuno. Anche qui non è lo Stato, ma la Caritas e altre associazioni a farsene carico.
Ma, nel frattempo, emergono tutte le altre problematiche che chiunque frequenta i senza fissa dimora conosce bene:
«Omar stende la sua copertina grigia sull’erba secca. A pochi metri da noi due ragazzi dormono sopra a un materasso matrimoniale, coperti da giacche e altri vestiti. Un altro è steso su una panchina. Poco più in là uno è in mutande e si sta lavando con dell’acqua presa da una bacinella. “Sono nigeriani”, dice Omar, “alcuni di loro a volte mi hanno venduto dell’erba, ma hanno anche altro”. Un cervello non è più accessibile del centro della terra. Quello di chi vive per strada è spesso sotto assedio. Seguiamo con lo sguardo un ragazzo che entra da viale del Monte Oppio e si dirige verso i nigeriani. Uno di loro – camicia a scacchi rosso e nera, jeans stretti e infradito – gli si avvicina e in inglese gli chiede di cosa ha bisogno. “Erba”, dice l’altro in italiano. Zaino in spalla, cuffiette nelle orecchie, indossa dei pantaloncini e una maglietta grigia su cui il sudore ha disegnato dei cerchi. Il nigeriano sembra non capire e lui ripete: “Erba, weeds”. Il nigeriano chiede quanta e lui domanda: “Quanta ne viene con dieci euro?”. La risposta è un grammo, ma non lo convince. “Fammi vedere quanto è un grammo e decido”. Il nigeriano dice di aspettarlo su una panchina a qualche metro da dove siamo seduti con Omar. Va dai suoi amici, prende una busta e torna con l’erba. “Va bene”, dice l’italiano, gli allunga i soldi e se ne va».
Anche la storia di Salah è a suo modo emblematica: in Italia non c’è lavoro, se non con la malavita, e l’unica possibilità è spostarsi in Francia:
«Dice di chiamarsi Salah e di avere cinquant’anni. “Sono nato e cresciuto a Marrakech ma sono venuto in Italia nel 2007”. Fa una pausa, poi aggiunge: “In aereo, con visto e tutto quanto”. Ha lavorato come imbianchino ma ha anche una licenza da commerciante. “Per vendere cose in spiaggia, sai, salvagenti, vestiti, ma non l’ho mai fatto”. Da qualche anno lavora più in Francia che in Italia. “Sto a Parigi, ho dei parenti lì, e girano più soldi”. A Roma torna quando deve rinnovare il permesso di soggiorno, e allora chiede ospitalità ad alcuni amici. “Ora non sono a casa. Stanno tutto il giorno al mare, a Ostia, fanno i posteggiatori, se non li arrestano”. Per ricambiare l’ospitalità gli prepara qualcosa per cena. Non è sempre stato così fortunato. Nel 2010 ha dormito un mese e mezzo alla stazione Termini perché non c’era nessuno che poteva ospitarlo. “Ma allora si poteva andare lungo i binari e dormire riparati, oggi con i tornelli non si può più passare”. Salah finisce il merluzzo e poi si versa da bere da una brocca. “Ne vuoi anche tu? Bisogna bere, il caldo è terribile”, dice. È l’una e mezza, ci sono 31 gradi e un’umidità del 67 per cento. Prima di salutarlo, gli chiedo cosa farà per il resto della giornata. “Niente”, dice, “che posso fare? È tutto chiuso, ho chiesto in giro se c’è lavoro, ma non ce n’è, non c’è niente da fare, né un posto dove andare”».
Rizzo torna poi nella sua narrazione al tema del disagio mentale:
«Godstime scaccia qualcosa davanti a sé, poi si calma, poi torna ad agitare le mani davanti agli occhi, come se volesse cancellare una zanzara, un fantasma o un mostro. Un cervello non è più accessibile del centro della Terra. Quello di chi vive per strada è spesso sotto assedio. In tanti casi la privazione di sonno, le dipendenze, la fame e la depressione hanno conseguenze che alcuni ricercatori statunitensi hanno definito “devastanti”. Molti sono fragili già prima di finire per strada, ma una volta perso tutto diventano invisibili. Di fronte a loro lo stato italiano arriva, si ferma e implode. I reparti psichiatrici degli ospedali non li accettano perché possono occuparsi solo delle urgenze. I centri di salute mentale sono delle strutture ambulatoriali che non prevedono unità di strada. Volontari e operatori dei centri per senza dimora non hanno la formazione per affrontare questo tipo di problemi. Tutto è lasciato alla buona volontà, quando c’è. Nel 2018 lo psichiatra del dipartimento di salute mentale di Roma 1 Giuseppe Riefolo e la psicoterapeuta Silvia Raimondi hanno raccontato cos’hanno fatto per arginare “l’elevato numero di fallimenti degli interventi operati sulla popolazione dei senza fissa dimora”. I fallimenti, secondo Riefolo e Raimondi, sono dovuti principalmente al fatto che il tema è affrontato solo con gli strumenti dell’emergenza. “Nella migliore delle ipotesi si tenta di prescrivere o somministrare una terapia farmacologica”, ma le difficoltà sono tante, visto che nei centri di salute mentale non ci sono farmaci per le urgenze e “i pazienti non hanno le condizioni minime per mantenere la necessaria continuità e adesione alla cura”. Per superare questo approccio, i due hanno costruito una rete, coinvolgendo associazioni, volontari e professionisti di altri settori. Alla fine, sono riusciti a tirare via dalla strada molte persone. Tuttavia, il progetto è finito senza che qualcuno, all’azienda sanitaria locale, al comune, alla regione, si prendesse la briga di farlo proprio e finanziarlo. A corto di soldi, idee, progettualità, le amministrazioni da un lato continuano a varare piani caldo e freddo che non funzionano, dall’altro trattano come minacce le persone che dicono di voler aiutare».
Conclude con tristezza Rizzo:
«Il fatto è che i problemi che l’estate mette a nudo non scompaiono con le prime brezze di settembre; quelli che l’inverno rende più drammatici, con le morti in strada per il freddo, non si sciolgono con le prime luci di aprile; e cacciare le persone da una città all’altra non serve a niente. A meno che per lotta alla povertà non si intenda lotta ai poveri. Omar è seduto a terra, la schiena appoggiata al muro dell’hotel Ateneo. Mi metto accanto a lui e gli chiedo se ha mangiato. “No”, dice, “volevo un kebab ma non hanno preso i dollari che mi hanno lasciato stanotte”. Sono le ultime parole che ci diciamo. Poi, per un po’, in silenzio, senza niente da fare o un posto dove poter andare, osserviamo in silenzio piazza dei Siculi».