1/ Il caso di Santa Sofia: il tabù della religione nel mondo della cultura. Domande di Andrea Lonardo 2/ «Santa Sofia moschea? L’Europa abbandona noi cristiani e poi si stupisce». Intervista al vicario apostolico dell’Anatolia, monsignor Paolo Bizzeti
1/ Il caso di Santa Sofia: il tabù della religione nel mondo della cultura. Domande di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Islam.
Il Centro culturale Gli scritti (26/7/2020)
La prima preghiera in Santa Sofia
con la spada di Maometto II in mano
“La religione non c’entra niente”, “Il problema è politico”, È Erdoğan che cerca il consenso dei nazionalisti e accresce così i suoi voti”, oppure, all’opposto: “L’Islam non è una religione, è solo politica”.
Così si sono rivolti a me non solo persone che poco sanno, ma anche docenti affermati, librai e persone di cultura.
Questa dimensione culturale a me interessa, mentre non mi interessa utilizzare l’argomento per combattere una determinata religione.
Quello che mi interessa è che siamo diventati analfabeti in tema di religione, non essendo stati aiutati ormai da decenni a valutare l’atteggiamento da tenere dinanzi alle diverse filosofie e alle diverse religioni, per la confusione di approcci e metodologie che si è creata.
C’è stato un tempo in cui la religione era sempre e comunque “l’oppio dei popoli”, una sovrastruttura che nascondeva i veri rapporti di forza che erano quelli economici. In quella visione tutte le religioni erano male[1].
Poi Gramsci ha insegnato che la cultura non era una dimensione meramente apparente, ma determinava i rapporti di potere e incideva nel gioco politico.
Si è poi tornati alla condanna di tutti i monoteismi, per passare poi in tempi successivi alla condanna del cristianesimo e all’apprezzamento degli altri monoteismi - diversificando così i monoteismi, alcuni buoni e quello cristiano negativo -, per non essere accusati di “fobie” varie ed eventuali.
Ovviamente ognuna di queste posizioni ha il suo rovescio di medaglia. Se nella mente di un autore la religione non ha alcun influsso nella vita di un popolo oppure è solamente positiva e senza pecche, ecco che ovviamente la politica la fa da padrone: se c'è una questione, la colpa è tutta del leader di turno.
Ma questo è dare troppa responsabilità alla politica. Il rischio è che il discorso divenga così anti-storico e anti-scientifico con l'attribuire tutto al leader attuale di un paese e dimenticare il background sociale, la storia di un popolo, la lettura che esso ha del suo passato.
Se, invece, si ha un'idea negativa di una religione, come avviene nel caso del cristianesimo, ecco che ad essa vengono attribuite le colpe dei costumi dl paese e si ritiene che anche la leadership politica possa "sfruttare", senza essere l'unica colpevole, il portato oppressivo della religione.
D'altro canto, la critica argomentata e spesso seria al cristianesimo è patrimonio delle diverse nostre università – ho in mente fra gli ultimi studi le importanti acquisizioni del Dizionario dell’Inquisizione della Normale di Pisa, così come gli studi documentatissimi di Adriano Prosperi o di Vincenzo Lavenia sull’ideologia della guerra in occidente. Ma, in fondo, tutte le pubblicazioni sulla storia e sulla storia della chiesa vista con occhi europei sono fortemente critiche – e talvolta a ragione – con il cristianesimo.
In questa ottica siamo stati abituati a considerare che la religione cristiana, i suoi ministri (vescovi, preti, ordini religiosi), i luoghi di culto, la formazione religiosa in casa, le usanze religiose, la catechesi, svolgono un ruolo determinante in ogni campo sociale, dall’emancipazione della donna allo sviluppo di un pensiero critico, dall’elaborazione di costumi e mentalità al vissuto familiare e politico, con strascichi dei costumi culturali, sociali, sessuali, familiari delle nazioni a causa di un background che ha offerto una lettura corretta o distorta del passato.
Invece, dinanzi alle masse islamiche, siano esse turche, come iraniane o saudite – ma lo stesso vale per la Somalia o l’Indonesia - si proclama una posizione opposta: “La religione non c’entra niente”.
È impressionante la schizofrenia di tale atteggiamento che vede in occidente ovunque il ruolo negativo della religione, mentre in altri contesti la ritiene assolutamente insignificante: “In Turchia la religione non c’entra niente!”, “In Arabia Saudita la religione non c’entra niente!”, “Nella crescita di una mentalità libera in Pakistan o in Afghanistan la religione non c’entra niente”.
In questi contesti solo la politica, solo Erdoğan o la monarchia saudita, sarebbero decisivi, mentre inesistente sarebbe il ruolo dei ministri di culto, delle pubblicazioni a stampa, delle tradizioni religiose, degli ulema, dei muftì, dell’uso distorto della storia, della mancanza di una “purificazione della memoria”.
Io ritengo che questo sia vero razzismo e vera offesa all’Islam – lo dico con parole forti, ma con grande amore ai miei amici intellettuali e docenti universitari. La cultura occidentale ama a tal punto i ministri della Chiesa cattolica, i suoi riti, i suoi scritti, le sue tradizioni, che li ritiene decisivi, nel bene e nel male, a riguardo dell’evoluzione della mentalità, della visione della sessualità, del gender, della libertà culturale.
Perché abbiamo, invece, un tale disprezzo dei ministri di culto di altre religioni e delle loro tradizioni cultuali e sociali da ritenerli insignificanti e attribuire in quel caso tutto alla sola politica?
La politica non dipende, infatti, almeno in parte, anche dal costume sociale, da fattori determinati della storia, dal passato, dalla religione, dagli strascichi di visioni ancora diffuse al presente, da riti, consuetudini, tradizioni, dai visioni della vita, dell’intercultura, della libertà, dei diritti?
La religione determina una pre-comprensione, prepara un background, facilita certi atteggiamenti oppure non ha alcun influsso? Non debbono essere proprio i ministri di culto, gli insegnanti, i libri di testo - anche essi e in prima fila - a fornire una diversa versione della società, della storia passata con le sue violenze, della libertà religiosa e della maturazione di una coscienza critica, proprio dinanzi alla politica?
Oggi il mondo intero ci grida che tutta la cultura occidentale deve fare mea culpa sul razzismo e sulle discriminazioni e nessun ministro di culto musulmano e nessuna università islamica debbono aiutare la propria popolazione ad una “purificazione della memoria”?
Tutti abbiamo visto il Presidente degli affari di culto presiedere la prima preghiera pubblica in Santa Sofia con la spada di Mehmet II il conquistatore in mano. In Santa Sofia, già quando era Museo, campeggiava l’iscrizione con l’hadith di Maometto che aveva profetizzato la presa di Costantinopoli, motivo per il quale già gli arabi, a cavallo fra settimo e ottavo secolo, aveva assediato per anni la capitale bizantina pur senza riuscire a prenderla come avrebbero poi fatto i turchi. Erdoğan ha recitato in apertura della preghiera due passi dal Corano, scegliendoli sia dalla Sura Al-Fatihah sia dalla Sura Al-Baqarah. Gli stessi, sembra, scelti da Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli.
Certo che di questi fatti è responsabile la politica. Ma solo della politica è la responsabilità? Il mondo religioso turco non ha alcuna responsabilità in proposito? Per i nostri intellettuali il mondo religioso è inutile e non può contribuire ad una diversa rilettura del passato? Per i nostri intellettuali il mondo religioso è così colluso con il potere e così ignorante e violento da non avere niente da ridire?
Molti dei commentatori non si accorgono che anche le reazioni dei musulmani d’Italia non sono così dissimili da quelli dei religiosi turchi: se si leggono, ad esempio, gli articoli del sito La luce News dei Fratelli musulmani d’Italia - lo stesso che ha ospitato la prima intervista a Silvia Aisha Romano - non c’è nemmeno un accenno ad eventuali atti violenti ingiusti compiuti nella storia dell’Islam turco riguardo a Costantinopoli: tutto è scritto per ricordare le violenze crociate del 1204 come ingiuste, mentre si afferma con tranquillità che, poiché Costantinopoli rifiutò di arrendersi e resistette in un assedio di 53 giorni, il saccheggio e la distruzione delle chiese avvenne secondo la regola.
Così recita il commento pubblicato in questi giorni:
«La possibilità che Muhammad Al-Fatih diede a Costantino XI fu l’opportunità di rimanere sul suo trono a governare la sua terra, in cambio di fedeltà e pagamento delle tasse nei confronti dell’impero ottomano [N.B. de Gli scritti: Ovviamente mai Costantino avrebbe governato quella città dopo la resa, poiché essa doveva essere la nuova capitale delle milizie turche - e non si capisce perché l’articolista non lo dica -, mentre è vero che, con il pagamento della tassa degli infedeli, i cristiani costantinopolitani avrebbero avuto salva la vita], ma Costantino rifiutò. E quindi valeva la regola del “chi perde, perde tutto, chi vince, si prende tutto” […]. Muhammad Al-Fatih e gli ottomani, dopo 53 giorni di assedio, il 29 Maggio del 1453 entrarono nella città. Vincendo, secondo le regole del tempo, avevano diritto a prendersi tutto, luoghi di culto compresi. Si dice che nella città trovarono 13 chiese (altre versioni dicono 4) [N.B. de Gli scritti: Le Chiese di Costantinopoli erano invece numerosissime, come è ovvio!], ognuna di queste fu destinata ad un uso diverso. Alcune di queste furono date ai cristiani cattolici del luogo, altre furono convertite in sinagoghe per gli ebrei e altre ancora in moschee. Per Aya Sofia Mehmet II si comportò diversamente: invece di prendere Aya Sofia e farne quello che desiderava, a differenza delle altre chiese, decise di acquistarla [N.B. de Gli scritti: Ma da dove vengono ricavate tali affermazioni anti-storiche?]»[2].
Cosa pensano gli intellettuali italiani di affermazioni come queste? Si rendono conto della formazione a-storica e anti-storica che affermazioni come queste veicolano? Si rendono contro di come non vi sia alcuna “purificazione della memoria” in simili presentazioni pseudo-storiche?
È tutta colpa della politica o la religione e la cultura hanno un ruolo da svolgere nel ricostruire il passato, così come avviene in occidente? Il clero islamico ha un ruolo? Sono meno intelligenti dei preti italiani per cui sono birilli dei politici, mentre il clero cattolico è sempre stato protagonista nel bene e nel male della storia d’Italia e anzi del mondo?
Perché autori del calibro di quelli già citati, che studiano l’ideologia della guerra in occidente in relazione alla Chiesa, non aprono una sezione di studi sull’ideologia della guerra presso l’Islam, per fornire mezzi ai giovani studiosi turchi analoghi a quelli che fornisce agli studenti italiani? Avrebbero così la capacità di leggere quel brano sulla presa di Costantinopoli scritto oggi da uno dei siti più influenti e accreditati degli islamici in Italia – lo ripetiamo, è il sito che ha intervistato Silvia-Aisha Romano - per cogliervi immediatamente come siano vive ancora oggi le modalità che guidarono l’idea della jihad, ancora mai “smontata” e criticata in vista di una purificazione della memoria. È evidente nelle parole citate la prospettiva interpretativa, sostenuta da una certa idea del diritto: quando si intende conquistare una città, si offre la resa, e, se questa non è accettata, si ha il nemico in balia delle proprie armi, per il saccheggio e la schiavitù, perché così prevede il “diritto”.
Arrivo a dire che mi interessa meno la sorte di Santa Sofia rispetto alla questione culturale del nostro sguardo europeo sulla religione. O meglio: mi interessa Santa Sofia perché permette di cogliere quale ruolo viene attribuito dagli intellettuali alla storia e alla religione! La religione è o non è significativa?
Mi interessa meno la sorte di Santa Sofia della questione culturale interna alle nazioni musulmane. Quale idea della conquista di Costantinopoli viene loro insegnata. Quella del sito La luce news dei Fratelli musulmani? Oppure gli storici islamici hanno elaborato, aiutati dai nostri storici, una diversa idea dell’ideologia della guerra allora vigente?
Lo ripeto: mi interessa Santa Sofia perché permette di cogliere quale ruolo viene attribuito dagli intellettuali alla storia e alla religione. La religione è o non è significativa? Prima del fatto storico dell’odierna riconversione in moschea di una chiesa già trasformata in moschea, mi interessa cosa voglia dire “purificare la memoria” di quella conquista dal punto di vista culturale, analizzando l’ideologia della guerra allora in atto.
Perché? Perché io credo nel valore della cultura e dell’educazione del cuore e non solo nella politica. Anzi ritengo che senza un lavoro sulle coscienze, la politica sarà fatta sempre e solo dai tiranni. Mi interessa la “purificazione della memoria” del cristianesimo come dell’Islam.
Solo i preti cattolici sono intelligenti e possono capire cosa è una “purificazione della memoria”, mentre, per gli intellettuali occidentali, il mondo religioso islamico è così da disprezzare da non ritenerlo capace di una tale cosa?
Ecco il tabù religioso degli intellettuali occidentali: essi stimano il clero cattolico al punto da ritenerlo responsabile di influssi profondi, mentre non tengono in nessun conto il clero musulmano, la cultura musulmana, le tradizioni islamiche: non mostrano di averne alcuna stima, poiché non gli affidano nemmeno il compito di una rilettura critica del passato. Tutto è politica, “La religione non c’entra niente”, “Voi siete inutili, conta solo Erdoğan”.
Io ritengo, invece, che il mondo musulmano vada stimato e che, proprio per questo, lo si possa trattare con la stessa maturità e franchezza con cui è stato trattato il portato cristiano in occidente, cogliendone lo splendore e le pecche, i gesti di carità e le violenze: il mondo islamico e i suoi dirigenti non sono peggiori dei preti ed è ora che l’intellighenzia occidentale se ne accorga ed inizi a trattarli al pari dei preti e del laicato cattolico.
Che questo lavoro culturale sia necessario lo mostra non solo il caso di Santa Sofia, ma, ben più di essa, tutta la questione della libertà religiosa del paese, dove, come dovrebbe essere noto a tutti – ma lo è alla nostra intellighenzia? – ai cristiani non è concessa libertà di predicare, né di azione pastorale, non è concesso costruire alcuna nuova chiesa e, anzi, quando un musulmano si avvicina alla chiesa in vista del battesimo, corre il rischio della stessa vita: ortodossi, armeni, caldei e cattolici, oltre che i diversi gruppi protestanti, vivono una vita libera solo fino ad un certo punto. Su questo, potete leggere l’intervista che segue, ad uno dei tre vescovi cattolici in Turchia.
2/ «Santa Sofia moschea? L’Europa abbandona noi cristiani e poi si stupisce». Intervista al vicario apostolico dell’Anatolia, monsignor Paolo Bizzeti: «L’Occidente parla tanto ma non si batte mai per la reciprocità. È da anni che Erdogan voleva trasformare Santa Sofia. Tanti cristiani qui non hanno neanche una sala dove pregare». Un’intervista a Paolo Bizzeti di Leone Grotti
Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un’intervista a mons. Paolo Bizzeti, pubblicata il 16/7/2020. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Islam.
Il Centro culturale Gli scritti (26/7/2020)
Sono passati dieci anni da quando monsignor Luigi Padovese è stato assassinato a Iskenderun. Era il 3 giugno 2010, il vicario apostolico dell’Anatolia fu sgozzato in casa dal suo autista, Murat Altun. La sua testimonianza di fede e il suo martirio sono tra le ragioni che hanno spinto monsignor Paolo Bizzeti a proseguire la sua opera accettando la nomina del 2015 di papa Francesco a nuovo vicario apostolico dell’Anatolia. «Padovese, come anche don Andrea Santoro, hanno dato la vita per la Turchia. La loro testimonianza parla ancora ai nostri cristiani», dichiara il gesuita a tempi.it. La missione di monsignor Bizzeti non è certo più semplice di quella di Padovese e la recente trasformazione della basilica, poi museo, di Santa Sofia in moschea ne è la prova. «Solo voi in Europa siete rimasti stupiti dalla decisione del presidente Recep Tayyip Erdogan: la sua volontà era chiara da anni».
Monsignor Bizzeti, come ha reagito alla mossa del presidente turco?
Per chi vive in Turchia, non è una sorpresa. La linea di Erdogan è dichiarata da anni e coerente con la sua visione politico-religiosa. Forse in Occidente molte persone non si rendono conto della realtà di questo paese. Soprattutto l’Europa si è fatta di lui e del suo partito in passato un’idea poco realistica.
«Penso a Santa Sofia e sono molto addolorato», ha detto papa Francesco domenica all’Angelus in Piazza San Pietro.
Non posso che condividere il suo dolore, che è anche la posizione espressa da molte altre personalità religiose e istituzioni.
Che cosa rappresenta per lei e per i cristiani turchi Santa Sofia?
Santa Sofia è diventata un simbolo per tutti. È chiaro che quando un cristiano pensa a Santa Sofia, pensa prima di tutta a una chiesa cristiana, che è stata cattedrale della Chiesa ortodossa bizantina e costantinopolitana. Un musulmano sunnita penserà ad essa prima di tutto come moschea. È un monumento straordinario e unico, dalla storia complessa ed è proprio questo che lo rende così interessante.
Santa Sofia è stata esaltata come esempio della possibile convivenza e del dialogo tra cristiani e musulmani. Ora non sarà più così?
Il presidente Erdogan ha detto che sarà aperta a tutti, che i cristiani potranno entrare e che i suoi mosaici verranno rispettati. Tuttavia, diventando una moschea, si dovrà entrare levandosi le scarpe, le donne dovranno velarsi, ci saranno accessi separati per le donne e per gli uomini. È chiaro che cambia fisionomia, rispetto a un museo la prospettiva è diversa, così come diversi saranno l’uso e l’approccio d’ora in poi.
Non è l’unica chiesa che in Turchia è stata trasformata in moschea.
Esattamente, anche la piccola Santa Sofia, la chiesa dei Santi Sergio e Bacco, a Istanbul e Santa Sofia a Trebisonda sono state trasformate in moschea. Diciamo che l’Europa si sveglia e si stupisce a scoppio ritardato.
Perché?
Perché la politica del presidente Erdogan, che viene definita neo-ottomana, è lineare e coerente, anche se non gradita a tutti – lo si vede in tanti campi nel Mediterraneo. E del resto qui il 70 per cento della popolazione è favorevole alla trasformazione in moschea di Santa Sofia. Il problema però non è tanto la politica del presidente o del suo partito. Il punto è domandarci: che cosa vogliamo noi europei?
Spesso si invoca la necessaria reciprocità per quanto riguarda i luoghi di culto.
Certo, se ne parla tanto, ma che cosa si fa concretamente per ottenerla? In Turchia ci sono 1.100 aziende italiane: significa che gli affari li facciamo e che siamo in grado di chiedere e ottenere reciprocità in certi campi, quando vogliamo. Ma che cosa fa l’Italia perché la legittima reciprocità sui luoghi di culto diventi realtà?
L’Europa è disinteressata alle sorti dei cristiani in Turchia?
È evidente. Alcuni politici usano la religione solo per i loro scopi. C’è chi sventola i rosari in piazza ma poi non fa niente per la libertà religiosa. Così come non si può sbandierare la riconquista di Santa Sofia, non bisogna neanche agitare i rosari in piazza. Il fondamentalismo identitario e l’uso distorto della religione attirano molte persone, qui come in Europa. Ma le religioni devono servire per la pace e la convivenza, non per la contrapposizione. Questa è la linea del Papa, della Chiesa e del Vangelo.
Quali sono oggi le difficoltà dei cristiani in Turchia?
Rispetto al passato godiamo di maggiore riconoscimento. Sotto la tanto declamata laicità kemalista in realtà era quasi impossibile avere un visto di permesso di soggiorno per un prete cattolico. Oggi grazie a Dio non ci sono queste difficoltà. Al momento, però, la situazione è estremamente dura per le migliaia di rifugiati cristiani, che hanno perso tutto a causa di Cristo e che si trovano abbandonati. Non possono partecipare a incontri religiosi e riunioni perché la polizia spesso non dà loro il permesso di uscire dalle città dove si trovano. E non possono avere, non dico una chiesa, ma neanche una cappella, una sala dove pregare. I cristiani occidentali dovrebbero occuparsi di questi fratelli e sorelle.
Ha provato a risolvere il problema con le autorità turche?
Purtroppo qui siamo ancora fermi al Trattato di Losanna del 1923, che andrebbe rivisto dato che ormai è passato quasi un secolo. Ma chi è interessato a rivederlo per garantire a tutte le espressioni della fede cristiana un riconoscimento giuridico e pari opportunità? In Europa si possono costruire moschee, perché qui non si deve permettere la costruzione di chiese? L’Occidente fa grandi dichiarazioni, ma di queste cose non si occupa e temo che tra una settimana si dimenticherà anche di Santa Sofia.
La comunità cristiana turca è piccola, ma ha avuto un ruolo fondamentale nella storia del cristianesimo. Qual è la sua missione oggi?
Siamo una piccolissima minoranza. I cristiani, in totale, sono uno zero virgola della popolazione, i cattolici ancora meno. Ma questo non è un problema: all’inizio forse i cristiani erano ancora meno. Le prime comunità però erano piene di Spirito Santo, entusiasmo per il Vangelo, i cristiani erano pronti a dare la vita e la loro formazione era basata sulla parola di Dio. Oggi i nostri problemi sono gli stessi dell’Europa: i cristiani spesso vivono a compartimenti stagni e la loro fede non incide nella vita quotidiana. Ma davanti abbiamo un compito importante, quello della nuova evangelizzazione, come disse san Giovanni Paolo II e come hanno ribadito Benedetto e Francesco. La nostra sfida oggi è formare innanzitutto cristiani solidi nella fede, che siano capaci di testimoniare la novità di Gesù Cristo.
Di che cosa ha bisogno la Chiesa in Turchia?
Per fare una missione ci vogliono operatori pastorali, presbiteri, suore e laici. Io li sto cercando per mare e per terra, ma ci sono pochissime persone disponibili. E spesso anche alcuni ordini religiosi non aiutano. Faccio un esempio: una donna nata in Turchia si è fatta suora, è cresciuta in una delle nostre comunità, è entrata in una congregazione religiosa ed è rimasta in Italia diciassette anni. Noi abbiamo chiesto che tornasse perché svolgesse la missione nella sua terra. È venuta, ma dopo un po’ è stata richiamata in Italia perché le hanno detto che c’era bisogno in Italia. Ora, io non metto in dubbio che sia così, ma in Italia di suore ce ne sono ancora tante, qui invece ne abbiamo cento volte più bisogno, perché senza di lei la religiosa più vicina è a 700 chilometri di distanza.
Che cosa dice della Chiesa in Occidente questo esempio?
Il cristianesimo occidentale ha perso la cognizione della missione e delle proporzioni. Noi abbiamo migliaia di cristiani senza una sola persona che si occupi di loro. Nessuno si salva da solo e bisogna tornare a capire che la cattolicità è un elemento discriminante della Chiesa. Se non ci occupiamo dei cristiani nei luoghi in cui soffrono di più, presto il cristianesimo finirà anche in Italia, perché un cristianesimo che si ripiega su se stesso non vive, non può durare. I cristiani devono andare fino ai confini della terra, lo ha detto il Signore. Questo non vale solo per la Chiesa latina, ma per tutte.
I cristiani in Medio Oriente sono minoranza, ora a causa di guerre e persecuzioni in tanti stanno scappando in Occidente, mettendo a rischio la sopravvivenza delle comunità locali.
Penso che tanti che sono scappati in Occidente dovrebbero tornare. È facile vivere la fede negli Stati Uniti, in Canada, in Australia o in Europa. Qui per generazioni i cristiani hanno versato il sangue e dato la vita. Ora abbiamo tanti cristiani rifugiati che vorrebbero venire in Europa, che però chiude loro le porte. Ci sono giovani, famiglie: sono una forza viva cui dobbiamo dare la possibilità di vivere la fede.
Sono passati 10 anni dalla morte del suo predecessore, monsignor Luigi Padovese: come la sua testimonianza influenza la sua vita e quella dei cristiani turchi?
Senza la testimonianza di monsignor Padovese o quella di don Andrea Santoro, che mi hanno colpito molto, io non avrei accettato l’incarico del Papa vista la mia età (avevo 67 anni a quel momento) e tutte le difficoltà. Avevamo organizzato un convegno e una grande celebrazione per il decennale, ma abbiamo dovuto rimandarla a causa del coronavirus. Abbiamo però pubblicato in turco una raccolta delle sue lettere pastorali e di alcune omelie. La sua memoria è viva ed è un dono: lui, come tanti altri, ha dato la vita per questo paese e per il Vangelo. E il punto non è solo che ha versato il sangue, per tutta la vita ha cercato di forgiare un cristianesimo che vivesse in armonia con le altre fedi. Io cerco di seguire le sue orme. Noi amiamo la Turchia.
Note al testo
[1] È l’approccio di Imagine di John Lennon, oggi inaccettabile per i multiculturalisti; cfr. su questo Imagine. Oggi sarebbe impopolare scrivere una canzone così intollerante contro musulmani, ebrei, induisti, come quella che scrisse John Lennon nel 1971. Breve nota di Andrea Lonardo. Cfr. anche “Imagine no religion too”? Il ruolo degli intellettuali occidentali dinanzi al terrorismo islamistico, di Andrea Lonardo.
[2] Citazione da Aya Sofia: da Mehmet II a Erdogan, rileggere la Storia per capirne le ragioni, di Abde Elbakki Rtaib, del 19/7/2020.