1/ Una parrocchia è una parrocchia. Non si tratta di sfigurarla, ma di dedicare alcuni fra i migliori preti e laici ad altri compiti. Ecco quali: riflessioni di teologia pastorale in tempo di Covid, di Andrea Lonardo 2/ «I laici in parrocchia? Missionari nel quotidiano, non finti parroci». Il teologo don Asolan riflette sull'Istruzione vaticana sulla parrocchia. «Non basta riadattare le strutture o aggiungere attività. C’è bisogno di “attrazione”. No alle comunità liquide». Un’intervista a Paolo Asolan di Giacomo Gambassi
1/ Una parrocchia è una parrocchia. Non si tratta di sfigurarla, ma di dedicare alcuni fra i migliori preti e laici ad altri compiti. Ecco quali: riflessioni di teologia pastorale in tempo di Covid, di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Teologia pastorale.
Il Centro culturale Gli scritti (26/7/2020)
N.B. Le note che seguono sono redatte nella consapevolezza della povertà e della pochezza delle parole con cui sono scritte. Fanno riferimento a questioni concrete presenti in Roma e nella chiesa italiana, ma con l’unico scopo di porre questioni senza pretendere di risolverle, né pretendendo che altri le risolvano. Tutto è difficile, tanto più in tempi di coronavirus, senza che alcuno sappia dire – neanche gli scienziati – come potremo vivere il prossimo anno. Le domande che qui si pongono non intendono assolutamente essere irriverenti, quanto contribuire a discutere come in un ospedale da campo su temi ardui, facendo anche tesoro della Scuola di teologia pastorale dei Laterani: come potrebbe configurarsi un dialogo fruttuoso fra le parrocchie e gli ambienti pastorali dove vivono i romani quando escono dal loro territorio parrocchiale, ad esempio per le superiori o l’università, come per specifici itinerari formativi cristiani?
Questo articolo è stato scritto pochi giorni prima che uscisse la nuova Istruzione “La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa” e, pertanto, non è stato possibile tenerne conto. Ne dà conto, invece, l’intervista che segue.
1/ Nelle diverse diocesi la grande questione è la trasformazione della parrocchia o l’elaborazione di una pastorale che non sia incentrata solo sulla parrocchia?
Il paradosso delle moderne riflessioni sulla parrocchia è che la si dichiara superata, ma, al contempo, si pretende che essa cambi, perché il suo cambiamento sarebbe decisivo!
Si esige troppo da lei, insomma. Se è, infatti, superata, come potrebbe rispondere alle nuove esigenze dell’evangelizzazione? E se invece non lo è, perché deve essere radicalmente ripensata? Infatti, se non fosse superata - ed Evangelii Gaudium non la ritiene superata[1] - il suo principale compito potrebbe essere non quello di cambiare radicalmente, ma anzi di rinnovarsi, permanendo però nei suoi tratti essenziali, proprio perché essa ha un compito preciso. Sarebbero invece da individuare vie non parrocchiali per realizzare ciò che una comunità parrocchiale non è in grado di fare.
Con le note che seguono si vuole porre esattamente questa questione. Si tratta solo di “trasformare” la parrocchia guardando al nuovo contesto, oppure si tratta di modificarla radicalmente, mutandone i tratti essenziali, oppure si tratta piuttosto di cambiare una pastorale che guarda alla parrocchia come alla sua unica risorsa e non si preoccupa di una pastorale d’ambiente o cittadina?
2/ Per una pastorale non più incentrata solo sulle parrocchie
«Non è affatto scontato che si debba ritornare a fare tutto ciò che facevamo prima». Così il cardinal vicario nella lettera inviata al clero l’11 maggio 2020. Questo messaggio liberante ben si addice al tempo del Covid 19 che sta obbligando tutti a domandarsi cosa sia essenziale, cosa sia superfluo e cosa sia talmente necessario da meritare un investimento mai ancora progettato.
Per porre correttamente questa domanda ritengo sia necessario non cadere nell’errore di identificare l’azione della chiesa con l’azione delle parrocchie. Sergio Lanza e la scuola di teologia pastorale del Laterano hanno insistito e insistono moltissimo su questo. L’azione della chiesa comprende non solo la Liturgia, la Catechesi e la Carità, ma anche la scuola, l’università, la politica, la famiglia, la vacanza, la sofferenza come la gioia e così via.
È ora di abbandonare una pastorale incentrata solo su ciò che fanno le parrocchie. Le parrocchie, infatti, hanno funzionato bene anche in tempi di coronavirus, sono state fra le pochissime realtà all’altezza della situazione. Il loro compito è legato al territorio, è legata all’accoglienza e al sostegno di tutti, di ogni età, di ogni classe sociale. Per forza di cosa debbono essere “multitasking” e dedicarsi a tante diverse attenzioni, altrimenti non sarebbero parrocchie. La loro forza sta esattamente in questo essere sufficientemente indifferenziate. Pretendere che siano qualcosa di diverso vorrebbe dire semplicemente distruggere le parrocchie, che invece reggono benissimo allo scorrere del tempo: tante altre forme di presenza ecclesiale nel territorio parrocchiale via via ipotizzate a sostituirle sono miseramente crollate, mentre la parrocchia è ancora lì, sempre presente e umanizzante.
Quello che è mancato nel tempo del Coronavirus è stata, invece, una presenza ecclesiale ad altri livelli. Anzi il tempo di crisi ha messo ancor più in rilievo ciò che manca abitualmente nella vita ecclesiale, anche nel tempo “ordinario”, indipendentemente dal virus.
3/ Una nuova scelta pastorale della scuola per servire gli adolescenti
È mancata e manca la capacità di accompagnare gli adolescenti e i giovani, che vivono proiettati nella scuola e nell’università: è da troppo tempo che la chiesa si disinteressa della scuola e della formazione delle nuove generazioni.
Non solo è mancato e manca un apporto della chiesa, ma è l’intera società ad essere in crisi nel campo educativo. I preti hanno abbandonato la scuola dai tempi del nuovo Concordato e la scuola boccheggia. Non solo per la DAD, ma anche in presenza.
Ecco allora una possibile prospettiva. Non tanto “cambiare” le parrocchie, che certamente possono essere migliorate, ma che, per altri aspetti, debbono restare quello che sono. Quanto piuttosto, integrare il lavoro parrocchiale dedicando preti giovani e sapienti – insieme ai migliori laici che abbiamo - al mondo della scuola.
Andrebbero assegnate loro delle cattedre di religione in alcuni licei e istituti, ma anche invitandoli ad assumere cattedre di altre materie su concorso e, al contempo, iniziare un lavoro formativo con i giovani stessi al di fuori della scuola.
Il mondo degli adolescenti è apparso in tempi di Covid 19 per quello che è: totalmente abbandonato dalla chiesa e dal mondo laico, mentre merita una grande attenzione.
È fra l’altro quello in cui si forma il nuovo mondo, è l’età nella quale l’entusiasmo delle nuove generazioni cerca spunti e proposte.
Ecco cosa abbandonare. Non abbandonare le parrocchie o la catechesi. Ma permettere ad alcuni preti di abbandonare le parrocchie per dedicarsi ad una pastorale diocesana della scuola.
Le parrocchie non sono tutte in grado di fare pastorale degli adolescenti da sole, anche se con eccezioni importanti. Bisogna avere il coraggio di chiedere ad alcuni preti giovani e sapienti di dedicarsi insieme a questo compito.
Il Sinodo che si è occupato dei giovani ha dato indicazioni precise in materia.
N.B. aggiunto il 27/7/2020
Ad esempio, l'esperienza del Punto giovani, nata a Riccione e cresciuta poi a Rimini, prevede che una diocesi acquisti una casa e la affidi a preti e laici che, in accordo con la scuola, propongano ad una classe di un liceo o delle superiori di vivere una settimana di vita fraterna, studiando, pregando e discutendo insieme. Tale proposta non è parrocchiale, bensì è gestita dalla diocesi in accordo con chi vive nella scuola.
I Dieci Comandamenti o il servizio del SOG di Assisi non sono cammini parrocchiali, bensì diocesani o addirittura nazionali, che rimandano poi alle parrocchie.
4/ La rilevanza della dimensione culturale per incontrare gli snodi decisivi della città
Lo stesso dicasi per l’elaborazione del pensiero e della cultura. Anche qui è mancata una presenza ecclesiale, poiché la maggior parte del clero si è dedicata alle liturgie, alla preghiera e alla carità.
Di nuovo, vale la pena sottolineare che questo è un bene. È la liturgia che accresce la comunione nella chiesa e che è sempre anche annunzio. Ma è mancata, invece, una presenza di preti e laici che aiutassero a leggere il tempo di crisi. Che lanciassero parole e stili di comportamento praticabili al di fuori della liturgia.
Un cappellano universitario mi ha fatto questa proposta: “Perché non chiediamo ai preti quali libri hanno letto in tempo di Covid e quali libri hanno consigliato di leggere ai loro parrocchiani?”. In maniera da renderci conto se la fede passa anche per un approfondimento personale e, ancora, se la chiesa promuove un approfondimento della cultura attuale, degli autori decisivi, degli snodi del pensiero.
Anche qui la questione non riguarda solo la chiesa: il mondo laico è apparso in evidente difficoltà e pochissimo pensatori hanno aiutato il paese a vivere la crisi. Anche qui non si tratta tanto di chiedere chissà cosa alle parrocchie. Si tratta piuttosto di generare dei Centri culturali nei diversi settori della città, con preti e laici che vi si dedichino, perché quest’aspetto decisivo non resti scoperto. Ma prima ancora si tratta di valorizzare la dimensione culturale della fede, perché essa è vera carità. Tanti sono rimasti in attesa di parole che aiutassero a trovare coraggio, a prendere decisioni, ad approfittare del momento e sono rimasti a bocca asciutta. Tanti sono scivolati nella tristezza, perché non c’era chi sapesse aiutare a ritrovare forza e luce. Pochissimi, anche nel mondo laico, hanno pronunciato parole significative sulla vita e sulla morte, sulla debolezza dell’uomo e sulla brevità della vita, ma, al contempo, sulla preziosità di questa vita così fragile.
Ma si pensi anche, al di là dell’emergenza Covid 19, all’identità della città di Roma, al rapporto fra centro e periferie. Pochissimi lavorano a ricostruire un’idea di Roma che faccia sentire tutti parte di una storia comune. Certo le parrocchie possono fare qualcosa per questo, ma servono altre realtà che elaborino un cammino in questa direzione: per fare questo, bisogna distaccare delle forze che se ne occupino.
Anche negli istituti di scienze religiose e nelle facoltà teologiche pochissimi sono i preti e le suore romane che insegnano, consci della peculiare identità della città. Abbandonare qualcosa di ciò che è abituale, non vuol dire tanto sfigurare la parrocchia, quanto permettere ad alcuni presbiteri di dedicarsi a questo impegno, permettendo di studiare in vista di precisi incarichi futuri.
5/ Le parrocchie e il tessuto della città, con qualche esemplificazione romana
Ma non c’è solo la dinamica che deve esistere fra parrocchie e visione del territorio più ampio e anzi cittadino, non c’è solo la dinamica di un nuovo rapporto fra parrocchie e pastorale degli ambiti che deve essere posta in luce.
C’è anche una dialettica fra ciò che avviene nei singoli quartieri parrocchiali e le proposte cittadine. Le parrocchie hanno il compito - che svolgono in genere egregiamente - della presenza capillare sul territorio e per questo (lo ripetiamo) sono state fra le poche realtà vive e significative durante il virus.
La comunità cristiana di Roma ed anzi la chiesa italiana hanno, però, maturato in questi anni esperienze ricchissime che vanno oltre la parrocchia, che hanno un orizzonte diverso.
Penso innanzitutto al SOG (Servizio Orientamento Giovani dei frati minori) di Assisi. Non c’è parrocchia che non abbia giovani che non vi abbiano preso parte, su proposta della parrocchia stessa o senza che la parrocchia ne sapesse nulla.
Lo stesso deve dirsi dei percorsi di Giovani verso Assisi dei conventuali.
Penso anche ai Dieci Comandamenti di don Fabio Rosini. Non c’è parrocchia romana che non abbia un discreto numero di giovani che li abbia seguiti e che non abbiano poi dato la disponibilità a proseguire il cammino e ad impegnarsi nel servizio.
Si pensi ai Cinque passi della Chiesa nuova, che ormai da anni sono seguiti da tanti giovani di Roma.
Ricordo un prete che tanti anni fa mi disse: “Guarda che non è a tavolino che si elaborano nuove iniziative ecclesiale. È lo Spirito che le suscita e tu le devi assecondare”.
Credo che lo Spirito ci abbia fatto rinchiudere nelle case per riscoprire i valori essenziali delle parrocchie, ma anche per farci accorgere che le parrocchie da sole non bastano. Dobbiamo incoraggiare realtà come le due che ho citato e che compiono un lavoro a più ampio raggio di quello parrocchiale.
Si noti bene: non in antitesi. La parrocchia incarna il principio territoriale, è la casa di tutti nel quartiere, invece le altre realtà riescono ad unire persone di quartieri diversi a partire da esigenze cittadine.
Per questo, sarebbero da studiare scelte precise per un maggior raccordo. Penso ai Sette segni o ai Laboratori della fede che seguono i Dieci comandamenti e che potrebbero essere affidati ad alcune parrocchie, ad esempio una per ogni settore, dove vi sono preti che già guidano il camino dei Dieci Comandamenti, perché i giovani che li seguono così numerosi e con tanta passione si inseriscano stabilmente nelle comunità parrocchiali e proseguano lì il cammino già iniziato: insomma, perché non affidare i Sette segni o i Laboratori della Fede ad alcune parrocchie, ben scelte nei diversi settori, perché tali Laboratori non si svolgano a livello centrale, ma nei diversi settori e così i giovani si inseriscano in quella parrocchia, cominciando a celebrare lì l’eucarestia domenicale ed inserendosi nel servizio?
Certo, i giovani potrebbero al contempo continuare a vedersi tutti insieme in alcuni momenti peculiari dell’anno, una volta terminati i Dieci comandamenti. Ma i Sette segni e i Laboratori potrebbero essere vissuti non solo da gruppi suddivisi senza alcuna distinzione specifica, ma tramite gruppi territoriali, già ancorati a determinate parrocchie, radunando tutti quelli di quella zona di Roma.
Alcuni potrebbero anche essere divisi per Università, con cappellani universitari che li inseriscano nelle dinamiche dell’università.
Ma si potrebbe pensare anche ad un Laboratorio della Fede seguito da uno degli assistenti del Seminario Maggiore: uno dei preti che ha seguito i Dieci Comandamenti potrebbe animare un Laboratorio della fede, con il concorso dei seminaristi che, a loro volta, li abbiano seguiti.
Don Fabio sarebbe così più libero di dedicarsi al nuovo gruppo che ogni due anni si forma per seguire l’itinerario dei Comandamenti, mentre il secondo step potrebbe far riferimento a lui per la mediazione di parrocchie ben individuate.
2/ «I laici in parrocchia? Missionari nel quotidiano, non finti parroci». Il teologo don Asolan riflette sull'Istruzione vaticana sulla parrocchia. «Non basta riadattare le strutture o aggiungere attività. C’è bisogno di “attrazione”. No alle comunità liquide». Un’intervista a Paolo Asolan di Giacomo Gambassi
Riprendiamo sul nostro sito da Avvenire un’intervista a Paolo Asolan di Giacomo Gambassi pubblicata il 24/7/2020. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Teologia pastorale.
Il Centro culturale Gli scritti (26/7/2020)
«Quando si parla di parrocchia, non basta affidarsi alla logica dell’adattamento o della correzione. C’è bisogno di ripensare genialmente il rapporto della Chiesa con un territorio geografico e umano per favorire l’incontro autentico con le persone». Don Paolo Asolan è preside del Pontificio Istituto pastorale “Redemptor Hominis” voluto da Pio XII e collegato alla Pontificia Università Lateranense di Roma. Fra le mani ha l’Istruzione vaticana sulla “Conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa” curata dalla Congregazione per il clero. E si sofferma proprio su quella conversione sollecitata a più riprese da papa Francesco. «Ciò che ha funzionato per secoli non è più attrattivo oggi: è sotto gli occhi di tutti – afferma il docente di teologia pastorale –. Perché, se la gente ha bisogno di pregare, va in un santuario o, se vuole mettersi in ricerca dell’assoluto, decide di affrontare il Cammino di Santiago? Forse la parrocchia non fa più quello che deve fare. Ma, come ci insegna Cristo, una toppa strappata da un vestito nuovo non sarà mai adeguata in uno vecchio. Questo per dire che serve un profondo cambiamento di approccio e di mentalità».
L’Istruzione mette in guardia da azzardi che rischiano di snaturare i connotati della parrocchia. Come quello di affidare la guida a un laico, quasi potesse essere contemplato un “parroco laico”. E il testo vieta che un diacono, un consacrato o un laico sia definito «co-parroco», «pastore», «cappellano», «coordinatore», «responsabile parrocchiale». Al massimo, e in casi straordinari, può essere chiamato alla «partecipazione all’esercizio della cura pastorale », mai alla guida. «Il documento – spiega lo studioso – intende ribadire i caratteri costitutivi della comunità cristiana a fronte di sperimentazioni che, ad esempio, prevedono laici o équipe a capo di una parrocchia. Anche in questo caso spicca l’intento di arrangiare: il laicato viene adattato a un ruolo che non gli compete».
Altrettanto superata è la visione che riduce i compiti della comunità a un «trinomio ormai obsoleto», sostiene don Asolan: evangelizzazione, liturgia e carità. «Non sono tre ambiti d’impegno ecclesiale ma dimensioni che attraversano tutto quanto compie la Chiesa», chiarisce il docente. E prosegue: «Invitare a essere parrocchie missionarie non vuol dire considerare la missione un ulteriore campo di azione che quasi si aggiunge ad altri. Significare dare nuova forma al volto della comunità. Perciò la vera conversione chiede alla parrocchia di entrare nella vita di tutti i giorni, dove si affrontano le questioni del lavoro, dell’amore, dell’educazione e non semplicemente di strutturare diversamente ciò che è stato finora fatto».
Nell’Istruzione si raccomanda di sviluppare una vera e propria «arte della vicinanza». Allora un ruolo fondamentale viene svolto dai laici, non certo intesi come surrogati del prete. «Laici cristiani che già vivono immersi nella società e che di fatto sono già in missione permanente. Si tratta, quindi, di permettere che uno stile di vita che viene dal Vangelo sia supportato dalla comunità. Così da superare anche il rischio del clericalismo secondo il quale la pastorale è quella che fa il parroco», avverte don Asolan.
Punto di riferimento per imprimere uno slancio missionario è l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, magna charta del pontificato di Francesco. «È indispensabile che si realizzi concretamente l’incontro fra la fede e la realtà, trovando nuovi criteri di azione pastorale. Non basta riorganizzare: altrimenti si continuerà a ragionare in termini di servizi alla gente». Vale anche per le unità pastorali. «Non possono essere una soluzione quando vengono ispirate dalla diminuzione del clero – sostiene lo studioso –. Se sono pensate per offrire “prestazioni” ma non creano comunità, funzionano solo nell’immediato. Né è possibile limitarsi a innestare nuove attività o nuove figure ministeriali».
Ha i suoi lati negativi anche l’idea di una parrocchia che non abbia confini, dove il legame sia condizionato dalla mobilità o dalle relazioni sociali. Quasi si prospetti una parrocchia “liquida” in una società liquida. «Vado dove mi conviene, dicono in molti. In Nord Europa ci sono ormai parrocchie per i soli giovani, altre dedicate alle iniziative culturali. Ma ancora prevale il criterio dei servizi o del sentimento – sottolinea il pastoralista –. Siccome mi piace come predica un certo sacerdote, mi reco in quella parrocchia; siccome lì si fa catechismo in un determinato modo, allora la preferisco. Scelgo per comodità, non per senso di appartenenza».
La Chiesa italiana aveva anticipato la svolta missionaria della parrocchia. «È stato soprattutto con il Convegno ecclesiale nazionale di Verona del 2006 che nella Penisola si erano proposti orientamenti differenti – racconta don Asolan –. L’incontro aveva avuto al centro la testimonianza a partire da dove l’uomo vive. E indicava cinque ambiti: l’affettività; la tradizione; la fragilità; il lavoro e la festa; la cittadinanza. Ambiti che volevano esortare la Chiesa a non restare chiusa fra le mura parrocchiali. Ora si tratta di integrarli con l’Evangelii gaudium e con il discorso programmatico di Francesco alla Chiesa italiana durante il Convegno ecclesiale di Firenze del 2015. Come dice papa Bergoglio, se ci fermiamo alle strutture, le risposte saranno sempre parziali. Invece la parrocchia è chiamata a instaurare relazioni autentiche, reali, incarnate fra i cristiani e la vita: questo crea cultura, domanda, adesione e, come ripete il Papa, soprattutto attrazione».
Note al testo
[1] EG 28: « La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere «la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie». Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi.».