Il rischio di una chiesa “supermercato” nella catechesi e nella carità. Breve nota di Giovanni Amico
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Carità, giustizia e annunzio.
Il Centro culturale Gli scritti (19/7/2020)
1/ Assistenzialismo o promozione? Il problema della delega
Un vescovo mi fa notare che i giusti rilievi che vengono rivolti alla catechesi possono talvolta essere rivolti alle Caritas parrocchiali.
Si dice spesso che la catechesi vive di una delega: i genitori delegano ai catechisti l’educazione dei figli e spesso questo è proprio vero.
Allo stesso modo la società civile e la politica delegano alle comunità parrocchiali o alle diocesi l’assistenza dei poveri: le parrocchie ci mettono i volontari e i locali, i Comuni e le Regioni il denaro, ma così lo Stato delega ad altri ciò che sarebbe suo compito.
Non esiste né una mensa, né un dormitorio gestiti dallo Stato, tutto è delegato alla Chiesa o alle ONG. E nessuno protesta, ma ormai questo è accettato da tutti, senza che si cerchi di fare un salto di qualità.
Resta fondamentale il ruolo delle Caritas che danno cibo e vestiti, ma così si perde il ruolo profetico di stimolo alla società perché agisca.
2/ Assistenzialismo o promozione? Non un supermercato, bensì un percorso di dignità, come propone splendidamente il Fondo Gesù Divino Lavoratore
Si dice anche che la catechesi rende la parrocchia simile ad un supermercato dove ognuno prende quello che gli serve, ma nessuno si preoccupa se poi le famiglie crescano veramente. Si danno i sacramenti, ma tutto resta sempre uguale.
Anche questo è un rischio delle Caritas parrocchiali: che venga chi chiede cibo, o un pacco viveri, o una coperta, ma nessuno si preoccupa di proporgli un vero cammino di riscoperta della propria dignità con un reinserimento nel mondo del lavoro o degli affetti. Si danno cose, ma poi tutto resta come prima.
Molto importante è per questo l’importante segnale lanciato da papa Francesco e dalla Caritas romana con il Fondo Gesù Divino Lavoratore. Esso supera la logica assistenzialista e propone aiuti economici a quelle persone che si impegneranno nel lavoro – garantendo lo stipendio tramite una sovvenzione al datore di lavoro che per la crisi non avrebbe potuto mantenere il dipendente – o chiedendo che chi riceve l’aiuto si impegni a partecipare ad un corso di formazione al lavoro.
Tale nuovo progetto potrebbe divenire uno stimolo perché i politici cessino di fingere di non accorgersi che in realtà nessuno, né a destra, né a sinistra, sta facendo una vera politica di accoglienza, poiché i poveri sono senza lavoro e chi giunge in Italia non ha alcuna prsopettiva, se non quella di andare a menidcare o a delinquere.
3/ Anziani o giovani nelle Caritas parrocchiali
Ancora, ci si lamenta che i catechisti dell’Iniziazione cristiana siano anziani e che non ci sia inserimento di giovani e ricambio. Lo stesso rischio corrono le Caritas, dove talvolta i volontari sono tutti di una certa età, ancora più anziani dei catechisti, mentre sono pochissimi i giovani che iniziano il servizio.
Quale proposta deve essere fatta allora ai più giovani per iniziare un servizio nelle Caritas parrocchiali e quali debbono essere gli atteggiamenti dei più anziani, che fanno servizio da anni, per permettere tale nuovo ingresso?
Come nel rinnovaento della catechesi si gioca moltissimo con la vocazione di nuovi catechisti, così avviene nelle Caritas parrocchiali: nelle parrocchie dove gli adulti e gli anziani sanno coinvolgere i giovani, tutto cambia. Decisiva è qui la scelta di chi si pone a servizio non per ché stipendiato, ma perché si sente chiamato da Cristo stesso, sia nella catechesi sia nella Caritas.
4/ La questione dei “senza fissa dimora”
Un'altra questione sottovalutata e che complica enormemente il passaggio ad una carità non assistenzialistica – ma la vita è così e va accettata per quello che è - è quella della malattia mentale non in sé, ma in relazione al vivere “in strada”, senza fissa dimora. La maggior parte delle persone che vivono “senza fissa dimora” non sono soltanto poveri, ma, come mostrano tante indagini su di loro, vi sono finiti per aver assommato la povertà, all’assenza di relazioni, alla difficoltà di saper gestire le relazioni.
Questo differenzia il percorso di molti che finiscono a vivere per strada, rispetto a quello di molti migranti di recente arrivo che cercano di lavorare nella raccolta di pomodori o altri prodotti, finendo sotto “caporali”, pur di non restare in strada nelle città senza poter lavorare in alcun modo, data la scarsità di proposte lavorative.
Certo oggi è aumentato il numero di nuovi migranti che vivono in strada e anche alcuni italiani che si sono ritrovati a non poter pagare l’affitto, come ad esempio molti padri separati, vivono oggi senza fissa dimora.
Ma nella maggioranza dei casi chi vive “in strada” ha difficoltà anche di salute mentale.
Una certa difficoltà a vivere le relazioni precede spesso il finire a “vivere per strada”, associato spesso anche all’assunzione di alcool o di droghe. Talvolta, invece, il “disagio mentale” nasce solo dopo, a motivo dell’essere “senza fissa dimora” e rende ancora più difficile il reinserimento.
Il vescovo afferma: “Molte delle persone che vivono in strada, in un’altra epoca, sarebbero stati accolte in case per persone con disturbi mentali e lì avrebbero avuto cibo e casa, non essendo in grado di gestire un alloggio da soli.
Certo è che gli animatori della carità si accorgono come per tanti dei “senza fissa dimora” sia difficilissimo prevedere dei reali percorsi di reinserimento e, conseguentemente, l’approccio non riesca ad essere terapeutico, bensì solo di accompagnamento. Resta bellissimo il non lasciare mai solo nessuno, ma questo spesso si accompagna all’amarezza della consapevolezza di non poter incidere in una trasformazione.
Di un qualche aiuto sarebbe il sostegno a tanti “senza fissa dimora” attraverso la presenza professionale di psichiatri che somministrino anche farmaci necessari alla ricostituzione di un equilibrio neurologico.
Ma questo non lasciare soli è importante e degno, ed è la vicinanza che la società intera, la comunità cristiana e il Comune e lo Stato non dovrebbero far mai mancare, pur non potendo fare spesso altro che questo.
Per una riflessione più ampia su di uno stile di carità con le persone senza fissa dimora, cfr. La triplice questione della carità verso i senza fissa dimora, di Andrea Lonardo.