Cadevan le bombe come neve, di Roberto Cetera
Riprendiamo sul nostro sito da L’Osservatore Romano un articolo di Roberto Cetera pubblicato il 18/7/2020. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Novecento: fascismo e nazismo, resistenza e liberazione.
Il Centro culturale Gli scritti (21/7/2020)
Augusta Tubotti e Pierina Toccaceli
Questo il video con la loro testimonianza:
Cadono piccoli batuffoli di polline sul giardino, lì dove «Cadevan le bombe come neve». Fa molto caldo, come quella mattina di luglio. Quella dannata mattina. Qualche bambino calcia svogliato la palla verso la porta del campetto dell’oratorio, e indugia sotto lo schizzo dell’impianto di irrigazione. Poco più in là un gruppetto vociante di anziani prende il fresco sotto un albero di canfora. In una buffa inversione di ruoli appaiono più vivaci e “caciaroni” dei ragazzini lì accanto. Li accumuna tutti un bel parlare romanesco di altri tempi, che nulla azzecca con il romanaccio imbastardito dei giorni nostri. Giuseppe, ben più giovane, cerca di tenere a bada questa dolce esuberanza e ci viene incontro ad accoglierci sorridente al cancello di San Tommaso Moro, una delle due parrocchie del quartiere San Lorenzo. Giuseppe Romiti, 64 anni, è il responsabile del gruppo parrocchiale degli adulti. E ci spiega subito il perché di tanta euforia. Con il parroco, don Andrea, ha avuto la brillante idea di produrre un video, che proprio stasera 19 luglio verrà proiettato nell’ampio giardino di fronte alla chiesa.
San Lorenzo è oggi un quartiere abitato soprattutto da giovani universitari, e spesso risalta alle cronache per una movida turbolenta. Negli anni ’70 era soprattutto il fortino della sinistra giovanile estrema. Ma prima ancora era un pezzo importante della Roma più genuina e popolare. Un quartiere nato a fine ’800 come edilizia popolare destinata soprattutto ai ferrovieri: a metà strada tra la stazione passeggeri di Termini e lo scalo delle merci e la dogana. Per questa sua composizione sociale è sempre stato riconosciuto come un quartiere “rosso”: i “sanlorenzini” furono gli unici nel 1922 a tentare di sbarrare la via alla marcia su Roma, e per questo furono ferocemente colpiti dalla rappresaglia guidata da Italo Balbo.
Ma fu soprattutto la contiguità ai due scali ferroviari a segnare per sempre la storia del quartiere. Nel pieno della seconda guerra mondiale, nel 1943, infatti, gli americani ritennero che la distruzione dello scalo merci avrebbe bloccato i rifornimenti di materiale bellico proveniente dalle industrie del nord Italia e dalla Germania verso le truppe che cercavano di resistere alla risalita della penisola dei militari alleati.
Fu così che un sabato mattina, il 19 luglio, oltre 600 aerei, le “ fortezze volanti”, attaccarono la capitale, scaricando oltre 4.000 bombe. Fu una carneficina per gli abitanti dei quartieri vicini allo scalo, San Lorenzo appunto, ma anche Prenestino, Casilino, Labicano e Tuscolano. Circa 3.000 romani rimasero sotto le macerie, e undicimila furono i feriti. Anche una buona parte del cimitero del Verano, accanto alla basilica di San Lorenzo, venne distrutta. Una ferita nel cuore della città, che non si è mai completamente cicatrizzata. Così come nel cuore dei romani è sempre viva l’immagine iconica e tragica di Papa Pio XII uscito dal Vaticano e accorso sul piazzale di San Lorenzo a benedire le vittime, e confortare i sopravvissuti. La tragedia, come è noto, ebbe due immediate e importanti conseguenze: la dichiarazione di Roma “città aperta “ da parte del Pontefice e, solo sei giorni più tardi, la caduta e l’arresto di Benito Mussolini , decretata dal Gran Consiglio del fascismo nella notte del 25 luglio.
A tener viva la memoria della profonda ferita è il parco di fronte alla parrocchia, dedicato ai caduti del 19 luglio, con i nomi iscritti di tutte le vittime, e anche la scelta di non riedificare alcuni dei palazzi bombardati: muri ciechi e buche che sembrano fantasmi architettonici. Ma ormai 77 anni dopo, tanti testimoni di quel tragico sabato mattina ci hanno lasciato, e da qui la buona idea di Giuseppe e del parroco Lonardo, di registrare in un video i ricordi degli ultimi sopravvissuti.
Pierina Toccaceli ha superato da un po’ il traguardo dei 90 anni, ma la sua memoria è ancora molto vivida. Era una giovane ragazza in quel terribile 1943. «Noi ragazze eravamo proprio qui dove ora c’è la parrocchia. Allora era la cappella di un convento di suore, a Villa Mercede, dove fermava un trenino sulla via Tiburtina che arrivava da Tivoli. Le suore “francesi” le chiamavamo. Erano molto brave nell’educare alle buone maniere le giovani signorine come noi. Noi non capivamo bene ancora cosa stesse succedendo alla fine degli anni ’30, eravamo ancora piccole e infarcite della propaganda fascista. Mi ricordo quando nel maggio del 1938, ci “impacchettarono”, in divisa e festanti, per andare ad applaudire Hitler ai Fori imperiali in visita a Roma. Io nel 1943 lavoravo già. In Vaticano, in un ufficio, voluto dal Papa, che si occupava di ricercare i soldati dispersi sul fronte russo e di aiutare le famiglie. Quella mattina sentimmo le sirene e vedemmo in lontananza il cielo pieno di aerei. Poi il rumore delle esplosioni e colonne di fumo che si alzavano. A occhio si capiva che si trattava della zona est della città. Mi venne un groppo in gola, la mia famiglia era lì a San Lorenzo. Scappai di corsa dall’ufficio e riuscii a salire su un tram che ancora circolava e poi di corsa a piedi col cuore a mille. La gente intorno a me: sentivo che gridava “San Lorenzo. San Lorenzo” per indicare dove erano cadute le bombe. Noi abitavamo a via dei Sabelli, nel cuore del quartiere. Raggiunsi finalmente casa che era per fortuna ancora in piedi e i miei erano tutti salvi. Ma tutto intorno era solo morte e distruzione. Un’immagine che mi porto dietro ancora oggi e non scorderò mai. La notte dormimmo in un rifugio e il giorno dopo scappammo via da Roma, in Abruzzo».
Nel bar di fronte alla parrocchia, prima di entrare, avevamo incontrato un vecchietto arzillo, Edmondo, anche per lui la memoria ha continuato a vivere su quelle immagini «Lavoravo a piazza Vittorio, oltre la ferrovia. Appena finito il bombardamento corsi verso casa, ero in ansia per i miei fratelli più piccoli. Vidi qualcosa che non posso dimenticare: da piazzale Tiburtino lungo la Tiburtina fino al piazzale del Verano erano messi in fila i cadaveri degli estratti dalle macerie, perché i parenti potessero riconoscerli».
Augusta Tubotti era invece proprio piccolina «ma alcune immagini mi sono rimaste impresse. Quella innanzitutto di papà che mi prende in braccio e mi tiene stretta mentre scappiamo. E poi il trambusto, le urla. Non potevo capire che stesse succedendo ma vedevo paura e avevo paura. Mio papà era il responsabile della sicurezza del nostro palazzo, come si usava attribuire a quei tempi. E mi ricordo che in quelle ore tragiche oltre che a noi, dovette dare aiuto alle persone fragili, i ciechi, i disabili che vivevano nel condominio per portarli nel rifugio antiaereo».
«Abbiamo voluto registrare queste voci — riprende Giuseppe — perché anche domani e dopodomani si continui a ricordare. Soprattutto i giovani. Qui ci sono oggi tanti studenti fuori sede che neanche conoscono questa storia, oppure solo per sentito dire o per aver ascoltato la canzone di De Gregori “San Lorenzo (19 luglio 1943)”. Noi vogliamo che invece “passi” tutto l’orrore della guerra, perché chi non l’ha vissuta non può capire appieno».
«Il video che proietteremo stasera a tutto il quartiere non ha commenti — conclude don Andrea — ma solo le parole di questi nostri parrocchiani superstiti. Io credo fermamente che una comunità non si costruisca solo sulla condivisione di un credo religioso ma anche nella comunione di vita e di memoria».
Senza perdere il legame con le tragedie di oggi: il video si conclude con due immagini in sovrapposizione. Quella di Papa Pio XII a braccia aperte verso il cielo a San Lorenzo il 19 luglio del 1943, e quella di Papa Francesco in preghiera da solo sotto la pioggia a San Pietro la sera del 27 marzo del 2020.