La pratica della cura come segno di civiltà. Non c’è più un villaggio che si riunisce intorno al malato ma una società che lascia l’individuo solo, con il suo senso di smarrimento, la sua paura inconscia legata all’abbandono e alla perdita dei riferimenti quotidiani, di Giuseppe Melillo
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Giuseppe Melillo pubblicato il 26/3/2020 su The Huffington Post. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Carità e giustizia.
Il Centro culturale Gli scritti (13/7/2020)
“Uno studente chiese all’antropologa Margaret Mead quale riteneva fosse il primo segno di civiltà in una cultura. Lo studente si aspettava che Mead parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra. Ma non fu così.
Mead disse che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito. Spiegò che nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori. Non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere qualcosa o cercare cibo. Sei carne per bestie predatrici che si aggirano intorno a te. Nessun animale sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perché l’osso guarisca.
Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi.
Mead disse che aiutare qualcun altro nelle difficoltà è il punto preciso in cui la civiltà inizia. Noi siamo al nostro meglio quando serviamo gli altri. Essere civili è questo”.
Questa storia attribuita a Margaret Mead la si ritrova da anni su vari blog o forum che oscilla tra fatto avvenuto e leggenda universitaria ma individua il punto esatto del senso di comunità e cura dell’altro.
Comunità e cura descritta tra gli anni 1950 e 1960 da Victor Turner. L’antropologo scozzese fa il resoconto di un rito curativo a cui aveva assistito, praticato dagli Ndembu, famiglia della popolazione Buntu dello Zambia, chiamato Ihamba.
Al rito curativo dello Ihamba partecipava tutto il villaggio in una forma che oggi definiremmo terapia di gruppo, durante il quale i familiari del malato dovevano dichiarare il proprio rancore, i propri pensieri e sentimenti di acrimonia verso il malato. La dichiarazione pubblica delle negatività corrispondeva all’annullamento della malattia stessa.
La sofferenza era individuale ma l’origine del male e la successiva cura dipendevano dai comportamenti sociali, determinati da atteggiamenti e pensieri degli altri membri del villaggio o della famiglia. Un disordine sociale che si manifestava come malattia del singolo e a cui il singolo non poteva reagire senza il supporto della comunità.
Ogni cultura ha messo in campo i propri strumenti di cura attraverso guaritori, sciamani, sacerdoti, masciare e ognuno con le conoscenze e i paradigmi del proprio tempo. Le credenze e le conoscenze cui ci si aggrappava sono state soppiantate dal paradigma biomedico dei dati e dalla scienza e i luoghi di cura sono oggi l’ospedale e i presidi medico sanitari di solito costruiti alle periferie dei nuclei urbani.
La cura, così come l’origine di alcuni mali, fisici o psichici (oggi indicheremmo l’inquinamento o la solitudine), di ogni singolo individuo è determinata dall’altro e dalla comunità e nessuna cura può determinarsi in maniera autonoma.
Il paradigma odierno riconosce nel malato un portatore di disordine sociale e il malato diviene immediatamente “soggetto altro”, allontanato dalla comunità a cui apparteneva fino a qualche momento prima. Viene isolato dalla comunità, medicalizzato e raramente curato in famiglia.
Non c’è più un villaggio che si riunisce intorno al malato ma una società che lascia l’individuo solo, con il suo senso di smarrimento, la sua paura inconscia legata all’abbandono e alla perdita dei riferimenti quotidiani.
Una società che cura la malattia con attenzione prettamente chimica e farmacologica.
Se il primo segno di civiltà in una cultura è stato, come forse indicava Margaret Mead, aiutare qualcun altro nelle difficoltà, allora la salvaguardia di questa civiltà è nella cura della comunità e nella pratica quotidiana della cura dell’individuo in ogni suo aspetto, nella ricostruzione di legami emotivi e relazionali, che si viva in un villaggio o in una città.
E in questo momento storico diventa necessario avere una visione con dimensione universale e di futuro, una visione che non si riduca a pensieri alla stregua di carità e assistenza. Una solidarietà e condivisione che superi la sfera dell’individuo, o di gruppi di individui, e che si evolva come pilastro anche giuridico non negoziabile.
Questa pratica di salvaguardia ci aiuterà a individuare una diversa prospettiva del significato di civiltà dove la cura assume la funzione di dono e reciprocità. Dove la cura di sé, dell’ambiente, degli altri diventa una produzione necessaria che nessuna pandemia può sospendere.