1/ A tu per tu o, comunque, in piccole comunità come quelle familiari, ma non solo. La dura lezione del coronavirus (Primi appunti per il dopo. I). Breve nota di Andrea Lonardo 2/ Appunti per il dopo lockdown: società, chiesa e coronavirus. II parte, di Andrea Lonardo
1/ A tu per tu o, comunque, in piccole comunità come quelle familiari, ma non solo. La dura lezione del coronavirus (Primi appunti per il dopo. I). Breve nota di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo (la seconda nota Primi appunti per il dopo. I e quelle a seguire saranno disponibili a breve). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Carità e giustizia e Catechesi e annuncio.
Il Centro culturale Gli scritti (21/4/2020)
Non è tanto la virtualità a sostenerci nella lotta contro il coronavirus, quanto l’“a tu per tu”. Ciò che ci sta permettendo di resistere è il faccia a faccia dell’uomo e della moglie, dei genitori e dei bambini, dei nonni sostenuti dai figli e dai nipoti o dei nonni che sostengono ancora figli e nipoti.
Così come le piccole comunità, di palazzo o di credenti. Di gente che porta la spesa l’uno all’altro. Di persone che si telefonano, che si scambiano la vita.
Tutto ciò che è di grandi dimensioni non ha retto. Non più i concerti, gli stadi, i centri commerciali, le grandi manifestazioni.
È rimasta la vita, cioè l’“ a tu per tu”. La famiglia e l’amicizia.
Anche chi vive per la carità per i più deboli ha riscoperto questo essere lui e lui solo con l’altro, a sua volta solo. Così come l’attenzione prestata a piccoli gruppi di fratelli, di amici, di persone vicine.
Hanno dovuto per forza rallentare le grandi ONG, i grandi interventi, ma sono rimaste vive le case famiglia, i luoghi dove si è fatto spazio all’incontro personale, dove piccoli nuclei hanno fatto spazio a persone o a famiglie, nell’“a tu per tu”.
È proseguito nei paesi in via di sviluppo quell’aiuto che passava per le comunità locali, per le parrocchie locali, per i preti e le scuole locali, per gente che ha scelto di vivere stabilmente in quei luoghi o che ci vive per nascita, non quello che generalmente viene dall’alto con l’accentuazione dei fondi e delle disponibilità economiche e non del rapporto inter-personale, della presenza stabile sul territorio e nelle comunità.
Nel nostro quartiere di San Lorenzo, dove tutti si conoscono, sono i vicini di palazzo o i parrocchiani, a portare la busta della spesa e le medicine agli anziani. Sono state le suore a continuare a dare i il cibo ai senza fissa dimora che continuano a bussare, sono state le persone stabili dell’ambulatorio Caritas a continuare a tenere i battenti aperti, dinanzi a tanti bisognosi. “A tu per tu”.
Il coronavirus è impietoso, non guarda in faccia a nessuno. Ma chi si guarda in faccia “a tu per tu” combatte e resiste.
2/ Appunti per il dopo lockdown: società, chiesa e coronavirus. II parte, di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Carità e giustizia e Catechesi e annuncio.
Il Centro culturale Gli scritti (22/4/2020)
Cinque questioni:
1/ Le famiglie stanno sostenendo la grande fatica. Quando si dice che l’amore familiare è vera carità, che quell’amore è dare la vita, ciò è perfettamente vero. I genitori non hanno tregua nelle case, quando i figli stanno per due mesi consecutivi chiusi in casa. Richiedono costanti attenzioni, costante sacrificio e pazienza.
Immaginate se fossero stati tutti single e, invece di esserci una persona a fare la spesa per un nucleo di quattro, ce ne fossero state quattro a fare la fila ai supermercati. Avremmo avuto tempi triplicati!
Ed anche il dolore di chi ha dovuto vivere in costante tensione per la mancata armonia della propria famiglia è una riprova della centralità della famiglia. Proprio quel dolore manifesta quanto si debba curare il cammino verso il matrimonio dei giovani, perché imparino ad amare.
Il coronavirus ci dice: “Non consegnate ai figli solo il diktat: studia e trova un lavoro”. Ma anche: “Guarda che l’amore è decisivo tanto quanto il lavoro, la famiglia è decisiva quanto la tua professione. Anche qui ti devi giocare le carte migliori, devi crescere nell’amore, perché costruire la tua casa e la tua famiglia è l’esperienza decisiva della tua vita”.
Nota correlata al punto 1
Un vero socialista, un vero comunista, un vero uomo di sinistra, un vero liberale, un vero difensore dei diritti dovrebbe urlare nelle piazze, dopo il coronavirus: “Basta con l’iniquità dell’IMU che è una delle leggi più ingiuste che abbiamo”. Altro che aggiungere l’IMU alla chiesa, all’ARCIgay, alla Caritas, a Sant’Egidio, ai Centri sociali, a Medici senza frontiere o ad Amnesty International, alla comunità valdese o a quella ebraica, cioè a tutte quelle realtà che non lo pagano!
L’ICI/IMU nacque come una legge per quel solo anno, una legge che tutti sapevano emergenziale – e pertanto ne vennero esonerati tutti quegli enti che utilizzavano alcuni edifici non a scopo di guadagno economico. Ma ora basta: chi ha acquistata una casa per i figli o per un affitto o un negozio per un'attività non deve più subire questa tassa assurda che è il pagare per quell'edificio e una seconda volta per l'affitto che riceve o per i beni che vende in quel negozio.
Non si tratta di avere sussidi, si tratta di avere meno tasse, questo è il vero incentivo per far ripartire il paese. Sussidi per chi è molto povero e meno tasse per chi ha una partita IVA o deve utilizzare i suoi stessi locali per sopravvivere.
Ulteriore nota correlata al punto 1 per quel che riguarda la prassi ecclesiale
Straordinario è stato l’impegno di preti e catechisti per incoraggiare le famiglie a trasmettere la fede in casa, anzi, più semplicemente, a viverla. Nelle case non solo l’intera famiglia ha partecipato insieme alla messa dinanzi allo schermo, ma tanti hanno compiuto la lavanda dei piedi, l’adorazione della croce, la benedizione della mensa a Pasqua e così via. Abbiamo riscoperto così la centralità del Battesimo e del sacramento del Matrimonio, così come forme popolari di vivere la fede, senza alcun laboratorio o attività, bensì molto più semplicemente, vivendo l’anno liturgico.
2/ Incredibile è apparsa, durante il coronavirus, la centralità della messa
A fianco della riscoperta della centralità della famiglia e del Battesimo, è apparsa centrale l’eucarestia. Il punto di forza della compagnia della comunità cristiana intera e non solo familiare si è rivelata ancora una volta decisiva, attraverso la domenica e l’eucarestia. Tutti hanno inventato modalità per permettere almeno di partecipare alla messa da casa, con lettori e cantori che intervenivano in diretta o avendo registrato le letture da casa il giorno prima, tutti intervenivano con preghiere dei fedeli, tutti celebravano insieme in un “concerto” che univa le case e le parrocchie.
Anche i gesti più forti del papa, le sue parole e i suoi silenzi più incisivi, sono apparsi nei momenti celebrativi. Si pensi alla preghiera per la pandemia in piazza San Pietro con l’adorazione e la benedizione eucaristica o al silenzio della via crucis con le meditazioni dal carcere.
La centralità dell’anno liturgico e della liturgia, la centralità della domenica, sono apparsi in maniera impressionante. Tutti hanno percepito che erano quelli i momenti decisivi, dove anche le parole pesavano più che non i normali discorsi o catechesi.
3/ La centralità della parrocchia
In ogni quartiere tutti si sono stretti intorno alla propria parrocchia, con una presenza virtuale alle celebrazioni parrocchiali ben maggiore che se si fossero svolte le liturgie in forma normale. Ai preti che non sono in servizio in parrocchia è stato chiesto di non celebrare in diretta il triduo pasquale, proprio perché esso è riservato alle comunità parrocchiali.
È apparsa così, ancora più che nell’ordinario, la centralità della parrocchia e delle sue celebrazioni. Ma ciò è stato vero non solo dal punto di vista liturgico, bensì anche da quello caritativo e sociale.
In un quartiere più popolare, come quello in cui io vivo, quello di San Lorenzo, è il tessuto parrocchiale e umano che sta reggendo. Tutti sono conosciuti da tutti, le persone si sono rese disponibili per portare il cibo agli anziani, diverse persone hanno telefonato in parrocchia per rendersi disponibili per chi non poteva acquistare farmaci o alimenti. Le suore del quartiere hanno continuato a offrire cibo ai senza fissa dimora con l’aiuto di persone che provvedevano ai viveri.
Il dramma è, invece, in quartieri ultramoderni, dove vivono anziani soli, dove le persone non si conoscono, dove non esiste tessuto relazionale. Ma la parrocchia si è rivelata risorsa e antidoto all’isolamento e all’indifferenza.
Gli anziani si sono “salvati” sia dove le famiglie ne avevano cura (vedi punto 1), sia dove la comunità parrocchiale e/o civile era ampia e coesa.
In effetti, la famiglia e la comunità, la famiglia e la famiglia “allargata” alle diverse generazioni, la famiglia e la tribù sono i due elementi che stanno reggendo in tempo di coronavirus.
Anche qui il dolore dove tali dimensioni mancano non è una sconfessione, ma anzi una conferma di questo. Ascoltando tanti senza fissa dimora è apparso ancor più come essi hanno figli, spose, nonni, ma come il disgregarsi del tessuto familiare e sociale abbia reso la loro esistenza come “distaccata” dal calore delle relazioni primarie, lasciandoli soli in una città anonima, senza solido tessuto familiare e comunitario/ecclesiale.
4/ La mancanza di cultura
È apparso anche un grande limite al vivere sociale laico ed ecclesiale. Le risposte culturali – ed anche le proposte in questa direzione – sono state rarissime. Ci si è limitati alla preghiera e alla carità, facendo quasi passare sotto silenzio la domanda di senso, sul nascere, l’ammalarsi e il morire.
Poche sono state le voci, sia laiche che religiose, che hanno suggerito percorsi per la scuola e l’università che non fossero meramente metodologici, ma che aprissero il cuore al come, nel passato, altre generazioni avessero affrontato la malattia, il lutto, la rigenerazione.
Solo qualche rara voce si è levata ad indicare punti di riferimenti culturali da scandagliare sulla fragilità della condizione umana e sulla sua speranza.
È mancato l’affrontare la questione dal punto di vista culturale, non solo in senso alto ed intellettuale, ma ancor più dal punto di vista popolare. Si è così trascurato di raccontare storie di chi aveva vissuto nella sofferenza, aveva affrontato il lutto, aveva sperato, aveva generato bambini anche in momenti di difficoltà. Si è preferito il piccolo cabotaggio ordinario.
Questo è mancato, fino ad ora, anche all’interno della chiesa, fra preti e cristiani. Importantissime le messe, come si è detto, ma quale altra lettura per comprendere la realtà e per aiutare altri a vederne la complessità e la bellezza, pur nel dolore?
Un cappellano universitario mi ha confidato il desiderio di compiere un’indagine, finito il coronavirus, per chiedere quali libri avessero letto i preti al tempo del virus, quali libri avessero consigliato ai fedeli, cosa avessero scritto o studiato: insomma una vera e propria indagine “culturale”.
5/ La presenza on-line di tanti si è intensificata, sia fuori che dentro la chiesa. Ciò era ovvio, ma c’è stata anche qui una vera gara di carità. Nella nostra parrocchia alcuni più giovani hanno insegnato per telefono agli anziani come poter connettersi per le liturgie o come poter seguire riunioni del loro gruppo di adulti o di anziani via internet.
Nelle diverse voci critiche, come sempre di destra e di sinistra, che si rimbeccano dandosi forza le une e le altre, è apparso la mancata presa di coscienza del fatto che, come affermano da tempo i maestri della nuova comunicazione, il virtuale è reale: certo non alla maniera del reale allo stato “puro”, ma come virtuale che può permettere di incontrare il reale. Esiste un “virtuale” che non è apparenza, ma comunicazione, qualcosa che di fatto è reale e non fake.
Ripenso alla forza comunicativa delle dirette da piazza San Pietro che sono state insieme reali e virtuali, così come lo sono state le tante dirette dalle parrocchie Il virtuale è reale! Anche se differentemente reale! O almeno lo può essere.
Come sempre veramente assurdo è che alcuni giornalisti e studiosi che più usano i mezzi di comunicazione e il virtuale abbiano lanciato filippiche e anatemi contro il virtuale, cioè contro il proprio mestiere, invece di difenderlo! È il classico “sputare nel piatto dove si mangia”, come i docenti che tengono 45 minuti di lezione per dire che le lezioni frontali sono superate; così chi utilizza i mezzi virtuali per dire che il virtuale è dannoso.
Ma certamente è apparsa anche un’incompetenza nell’utilizzo dei media con esagerazioni e approssimazioni all’interno della chiesa che, se hanno creato follower, hanno anche creato distanze e fastidi. Ma tutto questo deve essere volto al bene, non con condanne savonaroliane, bensì come impegno a fare educazione perché anche docenti, catechisti e preti siano più capaci in futuro di portare il loro contributo sui social in maniera più universale e incisiva.
Ha retto il virtuale dove c’era già un rapporto diretto. Le migliaia e migliaia di dirette delle messe dalle parrocchie hanno retto, anzi hanno aumentato gli ascolti, perché c’era chi già conosceva quei preti. Hanno retto le liturgie del papa perché c’era chi già da prima era affezionato al papa. Non ha retto il virtuale solo virtuale, il virtuale che non ha dietro una storia precedente, una conoscenza, sia pur minima, un “a tu per tu” diretto e vero e vivo, che ognuno intuisce potrebbe riprendere anche dopo, o comunque essere lì, vicino, come è il caso delle comunità parrocchiali a cui tutti sono affezionati anche se poi di fatto non frequentano mai: tutti sanno che quella è la casa dei battesimi, dei funerali, delle comunioni, degli amici che la frequentano, dei figli di persone che ci sono care: è il mio “parroco”, anche se, paradossalmente, ne conosco a mala pena il nome, ma abita lì, è parte viva della vita del quartiere.