Farcela con la paura. Vita spirituale al tempo del coronavirus. Seconda lettera, di Gabriele Vecchione
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Riprendiamo sul nostro sito un testo di Gabriele Vecchione. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Maestri nello Spirito e Adolescenti e giovani.
Il Centro culturale Gli scritti (11/3/2020)
… per liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita
(Eb 2, 14-15)
Nel film Vi presento Joe Black il protagonista Bill Parrish (Anthony Hopkins) è inseguito tutto il giorno da una voce che gli dice: «Sì». La sera l’angelo della morte, impersonificato in Joe Black (Brad Pitt), si appalesa nella biblioteca di Bill e gli spiega: «Sì è la risposta alla tua domanda… La domanda che ti vai ponendo con crescente regolarità, ansimando nelle partite di pallamano, quando hai rincorso l’aereo per Nuova Delhi, quando ti sei sollevato sul letto stanotte e quando ti sei accasciato a terra stamattina. La domanda che sta in fondo alla tua gola, che ti soffoca il sangue, ti va al cervello e ti risuona nelle orecchie continuamente ogni volta che te la poni». Bill gli chiede: «Sto per morire?». «Sì».
La paura è in un angolo del cuore dove riecheggia senza soluzione di continuità la domanda: “Sto per morire?”. Oppure (anche peggio): “Qualcuna delle persone che amo sta morendo?”. Il contagio del coronavirus urla questa domanda dentro di noi. Soprattutto se le persone che amiamo sono distanti da noi, chiuse in una casa che non è la nostra.
La domanda ci è insopportabile: dobbiamo rassicurarci, fare e far fare visite mediche, prendere il telefono, vedere l’orario dell’ultimo accesso su WhatsApp oppure chiamare e fare infinite raccomandazioni. Tiriamo un sospiro di sollievo nel sentire ancora la voce, nel vedere ancora il volto di chi amiamo. Ma poi torna ancora la paura: l’appuntamento con la fine è solo rimandato. La paura è la percezione di un pericolo.
È un’emozione che di per sé ci protegge e che ha la sua saggezza. Il problema è che spesso il pericolo è solo immaginato, è sventagliato come un fantasma, è come l’uomo nero con cui abbiamo torturato psichicamente i bambini. Così spesso razionalizziamo la paura (“non accadrà”, “accade sempre agli altri”).
Ma a causa sua ci immobilizziamo come statue, decidendo di non fare scelte, quindi di non vivere; oppure ci distraiamo con delle dipendenze a buon mercato, con le corse al potere o con l’accumulo di soldi e di cariche. Diventiamo temerari, sviluppando una contro-dipendenza dalla paura. Cerchiamo di controllare tutto. Il massiccio uso di disinfettanti antibatterici di questi giorni dice molto di questo nostro tentativo di dominare un reale che non obbedisce ad alcuna regola razionale. Ma ognuna di queste strategie difensive paradossalmente rende la paura quasi onnipotente.
E così rischiamo di aver paura dell’amore, perché l’amore cerca proprio ciò che è nudo, ciò che è vulnerabile: non c’è un rapporto di amore in cui, prima o poi, non si vedano da vicino le proprie e le altrui
debolezze. Nell’amore noi perdiamo il controllo della situazione, veniamo condotti dove non sappiamo, perdiamo le sicurezze che abbiamo faticosamente raggiunto, ci esponiamo addirittura al rischio di perdere la persona che amiamo.
Abbiamo paura di soffrire. È l’ultima paura degli apostoli, la paura che li fa fuggire dalla croce, la paura che solo la Pentecoste può placare. È la nostra paura di questi giorni, in cui un virus ci ricorda alcune elementari verità della nostra esistenza: che siamo fragili, che – non volendolo – possiamo far del male alle persone che più amiamo, che siamo delimitati da variabili non manipolabili.
Abbiamo paura di rimanere soli e di sprofondare nella tristezza. Abbiamo paura che il nostro corpo, i nostri peccati o i nostri fallimenti ci abbiano reso inamabili. Forse abbiamo anche paura di Dio e della sua volontà, immaginata irta e piena di prove, permissioni del male, umiliazioni del nostro desiderio e via discorrendo.
Cosa fa il Signore Gesù con le nostre paure?
Nessun esonero magico e neanche un’infinita rassicurazione, come quelle che forse attendiamo dai nostri discernimenti lungagnoni. Lui entra dentro le nostre paure e le vive sulla croce. Slavoj Žižek ha scritto: «Il sacrificio di Cristo ci rende liberi perché… quando abbiamo paura di qualcosa (la paura della morte è la paura ultima, che ci rende schiavi), un vero amico ci dirà qualcosa come: “Non aver paura, guarda, io farò proprio ciò che tu temi e lo farò gratuitamente – non perché devo, ma perché viene dal mio amore per te: io non ho paura!”». Lui vive le nostre paure prima di noi perché anche noi possiamo attraversarle e uscirne liberi e più vivi che mai. Non c’è altra strada che vivere le proprie paure per superarle (o gestirle da persone riconciliate).
C’è di più. Non solo fa quello che noi temiamo, ma fa quello che hanno sempre fatto con me, quando da bambino avevo paura dei cani. Qualche adulto accarezzava il cane prima di me e poi afferrava la mia mano e, senza lasciarla, mi invitava a fare altrettanto.
Toccare le proprie paure è come sfidare a duello un abisso; forse è quanto stiamo evitando di fare da anni o da decenni. Nel cammino spirituale – se è veramente tale – è il Signore stesso che ci prende per mano e ci fa accarezzare le nostre paure per liberarci dal loro strapotere.