Restare a casa. Vita spirituale al tempo del coronavirus: prima lettera, di Gabriele Vecchione
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Riprendiamo sul nostro sito un testo di Gabriele Vecchione. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Maestri nello Spirito e Adolescenti e giovani.
Il Centro culturale Gli scritti (10/3/2020)
Un fratello si recò a Scete dal padre Mosè per chiedergli una parola. L’anziano gli disse: “Va’, rimani nella tua cella, e la tua cella ti insegnerà ogni cosa”.
(Vita e detti dei padri del deserto)
Anestesisti, epidemiologici, infettivologi, ministri, politici, attori e persone dello show-business ci stanno supplicando di rimanere a casa e di non uscire. Dobbiamo senz’altro farlo per evitare la diffusione del virus.
È difficile, però, restare a casa. È come se dal nostro interno si sprigionasse una forza centrifuga che da sola ci comanda di afferrare le chiavi di casa e andare altrove. Immagino le difficoltà che i genitori stanno avendo con i figli bambini o adolescenti nel tenerli tra la mura domestiche.
Perché è così difficile?
I padri del deserto chiamerebbero questa forza centrifuga akedìa (accidia). Non si tratta banalmente della pigrizia, ma – come dice Giovanni Cassiano – di un’ansietà del cuore.
La pigrizia è piuttosto una conseguenza dell’accidia: spesso è a causa dell’ansietà che non riusciamo a portare a termine le attività intraprese. Si tratta di un’insoddisfazione latente, di una leggera infelicità, di un’irrequietezza subdola che sfugge alla possibilità di essere descritta. È un pensiero carico di affettività che offusca l’intelletto. È un conflitto aperto con il tempo e con lo spazio.
L’accidioso è un passatista, rievoca gli anni trascorsi come l’età dell’oro; viceversa è un futurista utopico, immagina che il futuro gli riserverà le cose migliori. Passato o futuro, purché non abiti il presente.
Similmente l’accidioso ha un rapporto conflittuale con lo spazio. Evagrio Pontico lo descrive così: “L’occhio dell’accidioso fissa costantemente le finestre e la sua mente si immagina visitatori”.
L’accidioso pensa che altrove stia succedendo qualcosa di meraviglioso. Pensa che, qualora dovesse succedergli qualcosa di meraviglioso (e ne dubita perché spesso l’accidia porta l’invidia con sé), certamente non gli succederebbe nel luogo in cui sta.
Sta in un posto e non vorrebbe starci. È uno stress interno, l’accidia disintegra da dentro. Evagrio sintetizza così: “Chi è accidioso detesta le cose che ci sono e detesta quelle che non ci sono”.
Nel film Revolutionary road i protagonisti (Leonardo di Caprio e Kate Winslet), per ovviare alla loro crisi matrimoniale, prima pensano di trasferirsi a Parigi, poi di fare un altro figlio. Ovviamente queste due cose non risolveranno affatto la loro crisi. L’ansietà non dipende dalle circostanze in cui si è.
L’accidia colpisce i monaci dalle 10 alle 14, quando hanno già lavorato un po’ e si fermano un momento per riposare. E quando l’accidia attacca, noi (che monaci non siamo, ma che veniamo ugualmente attaccati) immaginiamo di dover cambiare casa, lavoro, amicizie, compagnie.
Una malinconia investe tutto quello che si ha: il proprio coniuge, i propri figli, i propri mobili, le proprie letture. Il fatto di fermarsi fa arrivare nella propria mente preoccupazioni per la propria salute fisica, fa riemergere tutte le proprie antiche paure, fa rimuginare su tutte le ingiustizie che si sono dovute subire o che si crede di aver subito.
Dato che frequentare un accidioso è noioso come vedere La corazzata Potemkin durante Italia-Inghilterra, l’accidioso si trasforma in un attivista sfrenato. Ci sono persone che fanno di tutto – anche il volontariato – pur di non stare a contatto con sé stessi!
Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che limita la nostra libertà di movimento può diventare un’ottima opportunità per conoscere la propria accidia e diventarne (un po’ più) liberi. Non è naturale abitare secum, ma per la vita spirituale è semplicemente essenziale.
Quali sono i rimedi dell’accidia?
Il primo è quello di rimanere nella propria cella, nella propria casa. L’accidia si frantuma con la pazienza, che è la capacità di saper soffrire.
Il secondo è l’apertura del cuore, cioè la manifestazione di tutti i pensieri a una persona che sia in grado di ascoltare, di non giudicare ed eventualmente di saper dire una parola spirituale (o quantomeno sensata). Rimanere a casa, se parliamo della vita coniugale, può non necessariamente significare andare dall’avvocato e fare istanza di separazione, se si impara a parlare.
Parlare in prima persona, usando il pronome personale io, smettendo di dire: “ma tu… ma tu…”. Imparando a dire: “Io non mi sento ascoltato” e non: “Tu non mi ascolti”. Smettere di presumere di sapere quello che l’altro sta vivendo; smettere di classificarlo in uno schema dal quale non può uscire. Prendendosi la responsabilità di una comunicazione egocentrata, senza usare il de-responsabilizzante tu. Facendo domande invece di emettere sentenze; condividendo stati d’animo anziché aspettarsi di essere capiti.
Il terzo è quello di trovare qualche occupazione lodevole: leggere, scrivere, fare dei lavori manuali, occupando la psiche con delle passioni costruttive e non consegnando armi e bagagli alla fantasia. Che Teresa d’Avila definiva “la pazza di casa”.
Il quarto rimedio è il pentimento per i propri peccati. Evagrio diceva: “Pesante è la tristezza e insopportabile l’accidia, ma le lacrime rivolte a Dio sono più potenti di entrambe”. Le lacrime sono il riconoscimento di aver paura delle proprie mancanze, di aver sbagliato, del bisogno di salvezza. Se noi gli confessiamo la nostra debolezza, Dio certamente ci aiuterà.
Il quinto rimedio è il dominio di sé stessi, che si acquisisce con il digiuno. Ancora Evagrio: “Chi domina lo stomaco diminuisce le passioni”. Chi viene a capo dei propri bisogni non se ne lascia dominare.
Le mura domestiche ci insegneranno tantissime cose.