Un padre dinanzi al matrimonio della figlia: il racconto dell’autore di Peppone e don Camillo. “Un autore in cerca di sei personaggi”, di Giovannino Guareschi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 01 /09 /2010 - 17:06 pm | Permalink | Homepage
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Ringraziando Alberto e Carlotta Guareschi della gentile concessione, mettiamo a disposizione sul nostro sito l’articolo che Giovannino Guareschi scrisse in occasione del matrimonio della figlia Carlotta su Oggi n. 25, 1965. Il testo è stato poi ripubblicato in "Vita con Gio'", BUR. Il Copyright è di Alberto e Carlotta Guareschi. Il sito ufficiale su Giovannino Guareschi è www.giovanninoguareschi.com.

Il Centro culturale Gli scritti (1/9/2010)

Un povero scribacchino s’arrabatta per creare dei personaggi da usare nelle sue storie ed ecco che, quando li ha trovati, questi personaggi a uno a uno lo abbandonano.

Io ne avevo trovati sei: don Camillo e Peppone per le storie, diciamo, esterne, tipo esportazione. Albertino, la Pasionaria, Margherita e il cane Amleto per le storie interne, tipo famiglia.

Amleto è stato il primo a lasciarmi: in modo banale, finendo i suoi giorni sotto un autocarro. Il secondo è stato Albertino, in modo ancora più banale, diventando, cioè, capofamiglia.

Adesso anche la Pasionaria ha abbandonato la mia piccola azienda passando dal settore letterario al settore lattiero-caseario.

Dite che la colpa è mia perché avrei dovuto bloccare Albertino e la Pasionaria al momento giusto non permettendo loro di invecchiare e mantenendoli sugli otto o dieci anni? In tale modo – direte sempre voi – anche Margherita sarebbe rimasta automaticamente giovane.

In verità non era una cosa difficile, perché i personaggi d’uno scrittore non sono che burattini sempre uguali che recitano commedie sempre diverse.

D’accordo. Ma era difficile, se non impossibile, mantenere giovane il burattinaio.

Così i miei personaggi sono invecchiati assieme a me e non mi restano che don Camillo e Peppone i quali, datisi al cinema, cercano ancora di essere se stessi, ma faticano maledettamente perché la situazione è cambiata parecchio dal 1946 a oggi e, per riuscire ancora a combinare qualcosa, debbono emigrare, andando a lavorare all’estero. In Russia oggi, con don Camillo travestito da compagno. Forse in America, domani, ammesso che Peppone riesca a entrare in America travestito da prete e riesca a risolvere la faccenda dei baffi.

E ora scusatemi se uso il passato remoto per raccontare avvenimenti di pochi giorni fa. Un po’ lo faccio per allontanare nel tempo una storia molto patetica ma che non mi è piaciuta. Un po’ lo faccio perché continuo a stimare più De Amicis che i letterati d’oggi.

Vi dirò, dunque, che, quando mi trovai improvvisamente al fianco la Pasionaria tutta addobbata di bianco, io non mi emozionai eccessivamente. Anche quando mi inoltrai nella chiesa ero tranquillo perché ricordavo il giorno lontanissimo della mia rivoluzione d’ottobre, quando accompagnai per la prima volta a scuola la Pasionaria.

Ricordavo ciò che provai allora pensando che la Pasionaria sarebbe uscita dalla mia vita per entrare nella vita dello Stato. Sarebbe diventata un mattone nel muro di milioni di mattoni e il sopruso necessario mi riempiva il cuore di amarezza.

Oramai le squadre si erano composte, le mamme e i padri si erano ritirati in mezzo al piazzale e i bambini erano rimasti soli, addossati al muro della scuola. Mancava solo la Pasionaria e io allentai le dita. In quel momento le porte si aprirono e i bambini incominciarono a entrare.

Un tassì era fermo all’angolo: lo raggiunsi di corsa e, spalancato lo sportello, mi buttai dentro come un sacco di patate.

La macchina partì di gran carriera, navigò per le strade di Milano e puntò verso la periferia. E, quando fu davanti all’acqua azzurra dell’Idroscalo, la macchina si fermò e noi scendemmo.

Dico «scendemmo» perché la Pasionaria era con me. La Pasionaria era col ribelle.

I viali attorno al laghetto erano pieni di sole e deserti e ci divertimmo parecchio. Ma io pensavo che, a casa, ci aspettava lo Stato: Margherita. Questo mi amareggiò un po’ il divertimento. Ma, quando a mezzogiorno rincasammo, Margherita domandò alla Pasionaria com’era andata, e la Pasionaria rispose che era andato tutto bene, che la signora maestra era brava, eccetera eccetera. Poi mi guardò strizzandomi l’occhio perché era stabilito che lei avrebbe dovuto dire questo e quest’altro: con una strizzatina d’occhio era finita la mia rivoluzione d’ottobre.

Era, se non sbaglio, l’ottobre del 1949 e io, mentre dando il braccio alla Pasionaria mi inoltravo nella chiesa verso l’altare pieno di variopinti fiori di campo e di ancora giovani spighe di frumento, ripensavo a quel giorno lontano e il mio vecchio cuore era ancora pieno di speranza.

Non mi eccitai neppure quando vidi la giovinetta inginocchiata davanti all’altare assieme al tizio il cui nome figurava nelle partecipazioni di nozze a lato di quello della Pasionaria.

Non mi preoccupai quando il parroco domandò al giovinotto se gli andava di sposare la Pasionaria e quello, senza esitare, rispose di sì. Certo che gli andava di sposarla. Chiunque avrebbe risposto di sì. E, mentre il parroco domandava alla Pasionaria se accettava come marito il giovanotto, io non potei trattenermi dal sorridere con un po’ di cattiveria: “Adesso” pensai “lei gli risponde chiaro e tondo: ‘No, resto con mio babbo!’. Poi si alza, usciamo assieme, saltiamo sulla macchina che è lì fuori che aspetta e andiamo a fare una bella gita in riva al Po divertendoci come il famoso primo giorno di scuola del ‘49”.

Invece rispose di sì. Sottovoce, per non farmi dispiacere, perché io ero lì a due passi, dietro di lei.

Ma disse «sì».

Colpa dell’emozione, evidentemente. Era la prima volta che si trovava in una situazione del genere.

Margherita, che stava al mio fianco, sospirò:

«Anche a me è capitato così. Non si ragiona in quei momenti».

Sperai nel buon senso del parroco che, allora, era ancora amico mio.

«Adesso» dissi a Margherita «don Rossi le dice: “Ma no! Ci pensi! Non sia così precipitosa. Riparliamone fra tre o quattro anni!”.»

Invece il dannato parroco, che io non saluterò mai più, la prese subito in parola e stabilì perentorio che i due erano marito e moglie.

Margherita mi guardò perplessa.

«Non è ancora detto» le sussurrai. «Vedrai: sia lei che i testimoni rifiuteranno di firmare il registro.»

Invece firmarono tutti: anche Minardi, anche Pirén che pure io avevo scelto come testimoni credendoli amici fidati.

Però non era finita: avevo ancora sottomano due buone carte da giocare: Fernandel e Gino Cervi.

Fernandel l’avevo nominato sacerdote io, gli avevo assegnato una parrocchia in gamba come quella di Brescello e, in seguito, io l’avevo promosso monsignore.

In quanto a Cervi l’avevo eletto io sindaco di Brescello.

Sollecitai il loro intervento ma mi abbandonarono vilmente anche loro. Don Camillo perché – disse – era in veste non ufficiale. Peppone perché aveva dimenticato i baffi da sindaco.

«Intervieni come Maigret» gli dissi. «Arresta il prete. Arrestalo come principale colpevole del nuovo monumento a Verdi che hai visto in piazza.»

Rispose che, come Maigret, era fuori giurisdizione e non voleva avere grane né con la Sûreté né con Simenon né con la Tv.

«E allora?» mi domandò Margherita molto preoccupata. «Non c’è proprio niente da fare?»

Le risposi di non agitarsi e quando, finito il pranzo, la Pasionaria e il suo sedicente marito salirono in macchina per andarsene in viaggio di nozze, li seguii col mio spider. Dietro era la colonna delle macchine degli amici.

Giunti alla Via Emilia, ci fermammo tutti per il bicchierino dell’addio e, allora, mi appartai con la Pasionaria e le parlai chiaro e tondo.

Mi rispose che oramai era sposata e doveva seguire il marito.

«La legge ti vieta di abbandonare il tetto coniugale ma nessuna legge ti vieta di abbandonare l’automobile coniugale e di tornare a casa con tuo padre.»

Mi spiegò che pure l’automobile del marito è da considerare tetto coniugale. Tanto più che si trattava di una berlina e non di una macchina scoperta.

Tornai solo.

«Margherita» dissi alla pallida signora che mi aspettava ansiosamente sul cancello di casa «incomincio a sospettare che nostra figlia si sia sposata irreparabilmente. »

Quella notte non dormii per varie ragioni e si sentì Amleto abbaiare a lungo, lamentosamente.

Ma lo sentimmo soltanto io e Margherita perché Amleto è sepolto sotto il primo albero di Natale della serie roncolese. Un abete piuttosto grosso perché ha oramai quindici anni.

Triste la sorte di uno scrittorello rimasto oramai con uno solo dei suoi sei personaggi.

E, per di più, con un personaggio praticamente inutilizzabile, perché Margherita è già nonna e, con le nonne, non si può scherzare.

© Alberto e Carlotta Guareschi