1/ L’India fa i conti con le caste. L'India riconterà la sua popolazione in base all'appartenenza castale, non succedeva dal 1931. Il sistema delle caste è formalmente abolito ma continua a pesare moltissimo nella società, di Elena Favilli 2/ L’ondata del potere color zafferano. La democrazia in India e il nazionalismo hindu. Abstract di un articolo di Rudolf Heredia 3/ Come la religione sta frenando la crescita dell’India, di Mario Messina 4/ Le cause della povertà indiana (dal sito di una ONG)
1/ L’India fa i conti con le caste. L'India riconterà la sua popolazione in base all'appartenenza castale, non succedeva dal 1931. Il sistema delle caste è formalmente abolito ma continua a pesare moltissimo nella società, di Elena Favilli
Riprendiamo da Il Post un articolo di Elena Favilli, pubblicato il 13/9/2010. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Nord-Sud del mondo e Religioni dell'estremo oriente.
Il Centro culturale Gli scritti (5/1/2020)
L’India ha oltre un miliardo di persone (1,2 miliardi secondo le ultime stime), di cui il settanta per cento residente in aree rurali. Contarle tutte è di per sé affare abbastanza complicato. Negli ultimi giorni la questione è stata ulteriormente complicata dalla decisione del governo di includere nell’indagine anche la controversa struttura delle caste, un’operazione che sarà effettuata tra giugno e settembre 2011 e sarà separata dal resto del conteggio.
Rispondere alle domande sulla casta di provenienza sarà opzionale, ma la scelta di ripristinare un parametro di classificazione abbandonato dai censimenti dopo l’epoca coloniale ha comunque sollevato molte polemiche.
Il governo ha motivato la sua decisione con un argomento apparentemente indistruttibile: data la forte correlazione esistente da sempre tra caste e status socio-economico degli individui, raccogliere questi dati permetterà di combattere con più efficacia le ineguaglianze della popolazione. L’obiettivo dichiarato è censire tutti i gruppi appartenenti a quelle che la Costituzione indiana chiama genericamente Socially and Educationally Backward Classes (classi arretrate socialmente e scolasticamente), che secondo uno degli ultimi rapporti pubblicati dal governo costituiscono il 52 per cento dell’intera popolazione. Nonostante le caste siano state formalmente abolite, il loro ruolo nella società continua infatti ad essere estremamente rilevante. Per capirlo però è necessario smontare alcuni degli equivoci più diffusi legati alla struttura della società indiana.
Innanzitutto non è vero che le caste sono solo quattro. O meglio, quattro sono le grandi caste – varna, in sanscrito – che derivano dal sistema di stratificazione gerarchica della società che si era sviluppato gradualmente con l’induismo nel corso del primo millennio a.C. Al primo posto ci sono i sacerdoti o bramini; poi i guerrieri o kshatriya; quindi i vaisya, artigiani e mercanti; e infine i sudra, contadini, artigiani più poveri, servitori. Più in basso di tutti nella scala sociale sono i “fuori casta”, genericamente indicati come paria o intoccabili, esclusi dal novero castale per la loro occupazione – sono quelli che svolgono tutti i lavori considerati massimamente impuri come la pulizia dei bagni o la sepoltura dei morti – o per aver perso, violandone le norme, l’appartenenza alla casta e, con essa, i diritti sociali e i ruoli nella ritualità religiosa. Gandhi, che lottava per la loro emancipazione, li chiamò harijan, “figli di Dio”. Oggi i fuori casta preferiscono definirsi dalit, “gli oppressi”: un termine che vuole segnalare il passaggio da oggetti di un atteggiamento umano e caritatevole a soggetti attivi di una rivendicazione di diritti.
Nel corso del tempo però ognuna delle quattro caste si è venuta spezzettando in una moltitudine di raggruppamenti minori, che sono quelli che troviamo concretamente nell’India di oggi sotto il nome di jati (che vuol dire “nascita”). Questo spezzettamento è avvenuto sotto la spinta di ragioni geografiche, storiche, etniche, linguistiche. I nomi attuali delle jati sono in prevalenza di mestieri, ma anche di stirpi, di tribù, di sètte, di luoghi geografici. E variano da una regione all’altra dell’India. Ce ne sono migliaia.
Il che conduce al secondo mito da sfatare: le caste non sono dei blocchi monolitici, le cui condizioni si danno sempre uguali in qualsiasi zona del paese e in qualsiasi tempo. Persone appartenenti alla stessa casta possono avere standard di vita estremamente diversi a seconda dell’area in cui vivono. Alcuni degli studi più recenti sul vastissimo mondo delle caste indiane hanno infatti dimostrato che oggi in India le diseguaglianze sociali dipendono molto di più dal livello di sviluppo della regione di appartenenza che dalla propria casta, intendendo per livello di sviluppo l’insieme delle condizioni prodotte dalla combinazione di educazione, urbanizzazione e occupazione.
La parte sud dell’India, per esempio, ha potuto beneficiare maggiormente del boom economico degli ultimi trent’anni proprio grazie ai maggiori investimenti che queste regioni hanno dedicato al campo dell’istruzione. Qui, oggi, persone appartenenti a famiglie che un tempo non potevano neanche entrare nei templi sono a capo di alcune delle aziende informatiche più avanzate del paese.
Nel nord invece gli sforzi dei sostenitori delle classi arretrate si sono concentrati solo in direzione dell’acquisizione di un maggiore potere politico, che però non è sempre coinciso con un reale miglioramento delle condizioni di vita delle persone più emarginate, che essendo rimaste su livelli di istruzione bassi non hanno potuto approfittare pienamente dell’ampliamento dei loro diritti. Basti pensare che il 70% delle funzioni più qualificate all’interno del paese è tuttora ricoperto dagli appartenenti alla casta più alta, quella dei Bramini, sebbene rappresentino solo il 5% della popolazione.
Il risultato è stato quindi un paradossale contribuito al mantenimento delle discriminazioni sociali previste dalla struttura gerarchica delle caste. Tra le principali:
1. l’endogamia, e cioè il dovere di sposarsi solo all’interno della propria casta;
2. l’esercizio da parte di tutti i suoi membri della stessa attività lavorativa;
3. l’osservanza di riti religiosi, consuetudini, regole alimentari specifiche della casta;
4. l’essere inserito all’interno di una rigida gerarchia tra i diversi gruppi sociali. Le caste sono gruppi chiusi: è impossibile, per un singolo individuo, passare alla casta superiore. Chi nasce in una casta, morirà in quella casta, a meno che un suo comportamento negativo lo faccia precipitare nello stato di “senza casta”.
La scelta del governo di includere anche la casta tra i parametri del censimento in corso, quindi, non fa altro che riflettere il peso che questa struttura tuttora riveste nella società, soprattutto al nord. I politici che lì si fanno portatori delle istanze delle classi più basse hanno fatto molte pressioni in questo senso negli ultimi mesi, perché sperano che dimostrando la loro forza numerica convinceranno il governo ad aumentare le quote in materia di istruzione, lavoro e seggi parlamentari garantite alle loro comunità, e in parte già previste dalla Costituzione.
L’ultima volta che le caste erano state chiamate in causa durante un censimento fu nel 1931, quando l’India era ancora sotto il dominio britannico. Per questo chi oggi si oppone alla scelta del governo indiano di ripristinare questo parametro sostiene che si tratti di un ritorno al passato, che non tiene conto delle evoluzioni più recenti delle caste e delle reali esigenze della società indiana. Negli ultimi decenni il sistema delle caste ha cominciato ad essere modificato dall’avvento di forme di economia moderna, dall’urbanizzazione, dall’introduzione di un regime politico parlamentare che si fonda, in teoria almeno, sull’eguaglianza di tutti i cittadini. Le classi sociali moderne hanno fatto la loro comparsa. Membri delle caste basse, o addirittura dei senza casta, hanno potuto ottenere successi economici e prestigio politico. E le distinzioni si sono fatte meno nette, o quanto meno si sono arricchite di nuovi significati e contraddizioni.
Oggi in India l’agricoltura è praticata dal 90% dei membri di caste di agricoltori (il che significa che il rimanente 10% si dedica ad altre attività), ma anche dal 43% dei membri di caste non agricole. Questo si deve anche al fatto che l’agricoltura è considerata un’occupazione neutra e rispettabile. Solo i membri delle caste più elevate (in particolare i bramini) sono restii a praticarla, perché preferiscono evitare di ferire con l’aratro la Madre Terra e le creature che in essa vivono.
I guerrieri in pratica non esistono più.
I bramini non fanno necessariamente i sacerdoti, anche se occorre sempre un bramino per svolgere le funzioni sacerdotali. Possono essere ministri, industriali, ma anche servi di un bramino più fortunato o guardiani di un tempio di campagna semi abbandonato.
Per contro, anche un intoccabile che partecipi alla vita politica, e che sia votato da molti elettori, può essere eletto parlamentare e nominato ministro. Ma quando escono dai loro ministeri e vanno a casa, il bramino tornerà ad essere bramino, e l’intoccabile intoccabile. Così come non c’è identità totale tra casta e professione, non ce n’è neppure tra casta e ricchezza: ci possono essere ricchi agricoltori sudra e bramini poveri. Tuttavia, l’appartenenza di casta continua a influenzare fortemente le scelte professionali e il successo degli individui. Se incontrate un intellettuale, un professore universitario, è molto facile che sia di famiglia braminica; se è un imprenditore capitalista, è molto facile che provenga da una jati di vaisya, i commercianti. Quanto agli intoccabili (salvo poche eccezioni), se non svolgono i loro tradizionali mestieri disprezzati sono, quasi sempre, braccianti agricoli (a volte addirittura servi), o proletari e sottoproletari se hanno abbandonato il loro villaggio per la città.
Bisogna infine ricordare che l’induismo non esisterebbe senza le caste, che sono espressione della trasmigrazione delle anime. Secondo la religione induista, chi conduce una vita onesta, in armonia con l’ordine cosmico, rispettosa delle regole della propria casta – dharma – può sperare, in una futura trasmigrazione, di passare in una casta superiore, fino a raggiungere quel massimo livello di purezza che permette la dissoluzione nell’Assoluto e l’uscita dal ciclo delle migrazioni, visto dall’induismo come una condanna. In quest’ottica, la casta nella quale un individuo nasce è il risultato delle sue azioni in una vita precedente. Le ineguaglianze fra gli uomini sono quindi motivate da azioni passate e sono accettate perché considerate provvisorie: valgono cioè fino alla morte dell’individuo e alla sua successiva reincarnazione.
2/ L’ondata del potere color zafferano. La democrazia in India e il nazionalismo hindu. Abstract di un articolo di Rudolf Heredia
Riprendiamo dal sito de La Civiltà Cattolica l’Abstract di un articolo di Rudolf Heredia, pubblicato nel Quaderno 4011-4012, pp. 278-286, 2017, Volume III. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Nord-Sud del mondo e Religioni dell'estremo oriente.
Il Centro culturale Gli scritti (5/1/2020)
ABSTRACT – Le elezioni nazionali per la Camera bassa del Parlamento indiano, dell’aprile-maggio 2014, hanno segnato uno spartiacque nella politica democratica dell’India. Il partito nazionalista hindu, Bharatiya Janata (BJP), ha per la prima volta conquistato la maggioranza. Si è parlato di un’«ondata color zafferano», che è uno dei colori della bandiera indiana, quello delle vesti dei religiosi hindu e del partito BJP. Il BJP governa attualmente in 13 dei 29 Stati indiani, e non esistono alternative politiche in grado di sfidarlo.
In quale contesto si inserisce questo cambiamento? Secondo il Rapporto del Pew Research Center dell’11 aprile 2017, la situazione in India, per quanto riguarda la violenza a sfondo religioso, appare una delle più gravi nel mondo. Nel Paese si registra una crescente intolleranza verso le minoranze e gli emarginati, in particolare verso i poveri, che, a livello nazionale e regionale, si vengono a trovare in una situazione molto precaria e allarmante.
Occorre prestare molta attenzione alle possibili derive di tali tensioni. L’India ha combattuto questo tipo di deriva fin dall’indipendenza, grazie a un illuminato movimento libertario, ma ora sembra aver imboccato proprio la strada temuta. Le caste e le etnie, la religione e l’appartenenza regionale sono diventate linee di frattura lungo le quali la violenza collettiva periodicamente lacera il tessuto della società indiana.
Purtroppo, nel corso degli anni i principali partiti politici e i vari governi che essi hanno formato non sono riusciti ad affrontare efficacemente le concrete sfide a lungo termine che l’India odierna ha poi accumulato. La «politica identitaria» ha soppiantato «l’interesse politico». La conseguente ondata di crisi e di disordini lascia il Paese in balìa di una contraddizione irrisolta: quella tra l’idea costituzionale di un’India repubblicana fondata su una democrazia sociale liberale, e una nazione hindu (Hindu Rashtra) basata su un nazionalismo hindu (Hindutva) aggressivo e ideologico.
Accanto a questo, oggi il «programma zafferano» si è sposato con il libero mercato e si è tuffato nel globalismo neoliberalista, sull’onda del cosiddetto «modello Gujarat», dal nome dello Stato in cui con più decisione si è scelta questa strada. Tuttavia, la distribuzione disuguale continua a crescere. E le disuguaglianze socioeconomiche, create dal modello di sviluppo neoliberale di crescita senza equità, ingenerano pericolose tensioni e disordini politici. Occorre prestare dunque molta attenzione a non ribaltare i valori della Repubblica democratica previsti dalla Costituzione. La vera sfida è quella di proseguire e portare a termine la rivoluzione sociale promessa dall’Assemblea costituente.
3/ Come la religione sta frenando la crescita dell’India, di Mario Messina
Riprendiamo dal sito The Bottom Up (https://thebottomup.it/2016/08/23/religione-india-crescita-ostacoli/) un articolo di Mario Messina pubblicato il 23/8/2016. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Nord-Sud del mondo e Religioni dell'estremo oriente.
Il Centro culturale Gli scritti (5/1/2020)
Con una popolazione che supera il miliardo di persone ed un Pil che cresce a tassi del 7,5% annui, l’India è una delle più fiorenti economie del pianeta. Questi dati lasciano pensare che la corsa economica indiana non sia destinata ad arrestarsi presto. Eppure, lungo la strada dello sviluppo, il paese asiatico potrebbe trovarsi di fronte ad un grande ostacolo.
Come ogni paese che mira a crescere, l’India prima di tutto ha bisogno di investire sulle risorse naturali e sul capitale umano. Gli investimenti governativi in istruzione e ricerca degli ultimi decenni sembrano andare nella giusta direzione portando l’India ad essere in prima linea tra i paesi emergenti.
Se non nell’economia, allora, dove si trova l’ostacolo alla crescita? La risposta è inaspettata: nella religione. O meglio, nel sistema di stratificazione sociale tipico dell’induismo.
Uno dei mantra dell’induismo è la reincarnazione: ogni uomo, dopo la morte, è destinato a reincarnarsi nel corpo di un nuovo individuo. Non si tratta, però, di un atto casuale: la condizione sociale nella nuova vita dipenderà da quanto si è stati ligi al dovere nella vita precedente.
Per comprendere meglio la questione bisogna far riferimento ai Varna, le tradizionali caste indiane. Ne esistono quattro, gerarchicamente organizzate, che identificano la condizione sociale, la purezza d’animo e il mestiere che chi vi appartiene potrà svolgere. I più puri sono i Brahmani (sacerdoti ed intellettuali) a cui sono affidati i doveri religiosi. Seguono i Kshatriya (nobili e guerrieri), i Vaisya (mercanti e artigiani) e infine i Shudra, i meno puri, quelli cioè che usano la forza fisica nelle loro occupazioni professionali.
Non tutti, però, hanno la fortuna di nascere in una casta. Chi nella vita precedente si è macchiato dei peggiori peccati sarà destinato a nascere “intoccabile”.
Fuori dalle tradizionali caste e membri del rango più basso della società indiana, i dalit (“oppressi”, come preferiscono essere chiamati gli intoccabili) subiscono discriminazioni a tutti i livelli. La nuova costituzione dell’India indipendente abolì la pratica dell’intoccabilità e, più in generale, della discriminazione castale. Ciò nonostante, ancora oggi, essi sono ampiamente marginalizzati. Chi tocca un dalit dovrà immediatamente lavarsi le mani per purificarsi e se uno di essi beve da un pozzo nessun altro potrà più farlo poiché l’acqua risulterà contaminata. Chi nasce dalit sarà discriminato a scuola, nel lavoro e nella vita di tutti i giorni per il resto della sua vita.
Tanto i dalit, quanto le quattro caste principali, sono a loro volta suddivise in sotto-caste, dette Jati, che sono collegate alla professionalità. Esistono quindi Jati di parrucchieri, Jati di artigiani, Jati di insegnanti e così via. E chi nasce in uno Jati, oltre a poter sposare solo un membro dello stesso Jati, sarà destinato a svolgere quel mestiere, a prescindere dalle proprie inclinazioni o capacità. Si tratta di un sistema rigido, ben rappresentato da una delle leggi sociali dell’induismo: “meglio fare il proprio lavoro male che compiere il lavoro di qualcun altro bene”.
Come al solito i più colpiti da questa condizione sono i membri delle caste più basse e, più di ogni altro, gli intoccabili. Questi ultimi sono quelli che, tradizionalmente, lavorano a contatto con la morte e con tutto ciò che è impuro. Sono loro, dunque, a pulire le strade e le latrine indiane, ad uccidere i topi, a lavorare le pelli degli animali e ad occuparsi della rimozione delle carcasse. Essi, insieme ai Shudra (la casta meno pura), mandano avanti il sistema economico indiano. Come detto, però, sono quelli con meno diritti e i più marginalizzati dal resto della società indiana.
Perché, allora, non si ribellano? Soltanto i dalit rappresentano, secondo molte stime, circa il 17% della popolazione indiana. Una loro rivolta – o un semplice sciopero – bloccherebbe l’intera nazione. Le strade comincerebbero a riempirsi di immondizia e di carcasse di animali e con le temperature tipiche del subcontinente indiano la situazione degenererebbe nel giro di poche ore. A parte il classico immobilismo tipico delle classi meno abbienti – dovuto al basso livello di istruzione – al caso indiano bisogna aggiungere il fattore religioso. La nascita all’interno di una casta – come già detto – dipende da come ci si è comportati nella vita precedente e l’unico modo per espiare le proprie colpe e rinascere in una condizione migliore è fare il proprio lavoro come meglio si può e senza lamentarsi.
Perché ribellarsi allora? Che senso ha ribellarsi adesso, in vita? È dopo la morte che si sarà ricompensati dei propri sforzi. Dopo la morte la propria posizione migliorerà radicalmente. Anzi, ribellandosi adesso, si rischierebbe di essere declassati ancora di più nella vita futura. È chiaro, quindi, che il sistema di classi induista ha annullato, tra gli appartenenti alle caste più basse, ogni volontà di riscatto sociale.
Quanto detto è vero solo in parte. Negli anni successivi l’indipendenza, nei grandi centri urbani e nelle regioni del sud – storicamente più sviluppate – il sistema di stratificazione sociale basato sulle caste ha lasciato sempre più spazio alle necessità della crescita economica. Complice il miglioramento generalizzato delle condizioni di vita e del livello di istruzione delle caste basse e dei fuori-casta, nelle grandi città di oggi sono quasi del tutto scomparse le discriminazioni sul luogo di lavoro. I dalit continuano, certo, a svolgere i lavori più umili, ma non è raro incontrare nelle grandi università e nelle aziende ricercatori e manager di estrazione dalit. Lungi dall’essere completamente risolta, la questione delle caste ha quindi sempre meno peso nei centri urbani. Il problema è che il 70% degli indiani vive ancora oggi nelle aree rurali e lì la stratificazione sociale castale rappresenta ancora la normalità.
La presenza di rappresentanti dalit in quasi tutti i partiti del parlamento indiano e l’attivismo sempre maggiore di gruppi sociali dalit non è bastata a sradicare un sistema oppressivo tanto sentito dalla popolazione rurale. Tanto più che gli stessi oppressi in molti casi preferiscono lo status-quo per questioni religiose.
Nel prossimo futuro l’India sarà costretta, se vuole continuare a crescere agli stessi tassi di oggi, a migliorare le condizioni di vita generali di tutta la popolazione e, soprattutto, a formare un numero crescente di lavoratori specializzati nei comparti industriali più strategici.
Lo sviluppo economico è l’espansione delle capacità umane, ma il sistema delle caste – che nella sua forma storica garantiva la pace sociale – oggi è del tutto anacronistico e rappresenterà, nel futuro, un forte freno a questo processo.
Per non restare intrappolati nella schiera dei “paesi emergenti”, il governo indiano dovrà attivarsi in una serie di forti e coraggiose riforme sociali e dovrà scontrarsi contro i poteri forti delle maggiori caste indiane. Dovrà creare un sistema in cui tutti – gli abitanti delle città come quelle dei villaggi – possano studiare, comprendere le proprie inclinazioni e impegnarsi in un lavoro che li gratifichi. Questo dovrà avvenire sia attraverso un programma di sostegni economici ai più poveri, sia (soprattutto) con politiche di discriminazione positiva.
La sfida più grande, però, sarà convincere gli oppressi a mobilitarsi. Convincerli che non bisogna aspettare la reincarnazione per migliorare la propria vita. Che la parola del loro dio è opinabile. In altre parole bisognerà convincerli a scendere a patti con le proprie credenze e con la propria religione.
A quel punto il gioco sarà fatto: il governo potrà convincere tutti – oppressi ed oppressori – che l’induismo non fa il bene della nazione. Che bisogna allontanarsi dalle proprie tradizioni e dalla propria cultura e che per diventare un paese forte e per avere un ruolo nel mondo che verrà sarà necessaria la conversione di tutti ad un’altra religione: la modernità. È questa l’unica strada percorribile?
4/ Le cause della povertà indiana (dal sito di una ONG)
Riprendiamo dl sito della ONG La nuova infanzia un articolo redazionale (http://www.lanuovainfanzia.org/poverta-indiana/#). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Nord-Sud del mondo e Religioni dell'estremo oriente.
Il Centro culturale Gli scritti (5/1/2020)
N.B. de Gli scritti
L’articolo che segue, pur essendo eccessivamente semplificato a differenza dei precedenti, proprio per la sua estrema sinteticità permette di porre con chiarezza la questione delle diverse motivazioni della povertà che attanaglia l’India pur in un momento di enorme sviluppo economico.
Le cause della povertà indiana sono state naturalmente indagate e studiate a fondo le più profonde risalgono all’epoca antecedente al dominio inglese, che pure se ne servì ed in un certo modo l’aggravò, così come l’invasione musulmana che vi aggiunse caratteri propri dell’Islam.
Le caste
La prima di queste cause, antica quanto l’India, va ricercata senza dubbio nel sistema delle caste, oggi legalmente abolito ma ancora vivo nel costume e nella pratica. Non vi sono dubbi che le caste abbiano una remota origine razzista. Il nome stesso, in Sanscrito, si dice “varna” che vuol dire anche “colore”, ossia “colore della pelle”. Le caste originariamente erano quattro, delle quali tre (i Brahamani, i Ksatrya, i Vaishya, rispettivamente sacerdoti , i guerrieri e i mercanti) costituivano la classe dirigente e la quarta (i Sudra) il proletariato. La casta era un gruppo al tempo stesso razziale, professionale e sociale dai limiti invalicabili: non ci si poteva sposare fuori casta, né aver rapporti sociali, né esercitare un mestiere. Le caste corrispondevano ad una precisa situazione storica: l’asservimento dei popoli aborigeni di pelle scura da parte degli invasori indo–afghani. Le quattro caste originarie col tempo si suddivisero in centinaia di sottocaste, moltiplicando così all’infinito sentimenti di disprezzo e di invidia, di odio e di ripugnanza, di rinunzia e di superbia: in una parola l’originario razzismo. Tutto questo in teoria è stato abolito dalla legge, ma non nei fatti. Inutile sottolineare quanto tale condizione abbia contribuito e contribuisca tuttora a creare povertà, distruggendo l’ambizione personale e il desiderio di migliorare se stessi e gli altri e inducendo la gente ad una condizione di vita pessimista, rassegnata ed inerte.
Le concezioni religiose
Il secondo motivo storico va ricercato nelle religioni o meglio nella degenerazione superstiziosa di concezioni religiose altrimenti profondissime quali il Brahamanesimo, il Buddismo e il Jainismo. L’India, probabilmente, a causa del sistema immobile delle caste, è uno dei paesi più conservatori. Anche per questo motivo la vita indiana è piena di credenze oscure ed irrazionali che sono state conservate anche quando non avevano più alcuna funzione, neppure religiosa. Queste presenze personalizzano un danno economico ingente: si calcola, infatti, che 1/3 del racconto sia divorato dalle vacche, dagli uccelli e da altre bestie che per motivi religiosi non si possono toccare, ostacolando i progressi dell’educazione e della cultura.
La dominazione inglese
La terza causa della povertà indiana è stata sicuramente la dominazione inglese, la quale contribuì in maniera massiccia ad accrescere la miseria del paese, distruggendo gli artigiani e ostacolando l’industrializzazione allo scopo di creare e conservare un mercato ai propri prodotti.
Gli inglesi si potevano definire una “supercasta” a cui riuscì facile assoggettare il popolo indiano. Tuttavia bisogna riconoscere che in un secondo tempo gli inglesi, sia pure per i loro scopi, crearono nuovi organismi unitari come l’ordinamento giudiziario, la rete stradale, la ferrovia, la burocrazia, l’esercito, la polizia che permisero all’India di affrontare senza scosse la crisi dell’Indipendenza (14 agosto 1945). Ma il problema della povertà che essi avevano contribuito ad estendere, rimase inalterato e soltanto oggi, grazie ai progressi educativi ed industriali dell’India, si può dire che esso venga davvero affrontato.
Il clima e la situazione geofisica
In ultimo ci sarebbero le cause naturali della povertà ossia il clima e la situazione geofisica dell’India, ma non le riteniamo veramente valide perché in passato civiltà prospere si svilupparono in climi sfavorevoli e altresì civiltà miserabili languirono in climi favorevoli. Il clima può aver contribuito a formare la mentalità del popolo indiano, persino la sua filosofia, ma non la sua povertà.
Mahatma Gandhi disse:
D’ora in poi dovrà esserci un’unica casta, quella degli Indiani.