Il Palazzo Pubblico e la Sala del Mappamondo, con la Maestà di Simone Martini (scheda per il pellegrinaggio degli universitari romani a Siena)
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Riprendiamo sul nostro sito una scheda sulla Sala del Mappamondo e su Simone Martini che è stata utilizzata in occasione del pellegrinaggio degli universitari a Siena del 2019, com materiale tratto dal sito della Treccani. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Arte e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (2/2/2020)
Il Palazzo Pubblico di Siena fu progettato già nel 1297 dal Governo dei Nove, che guidò la città tra il 1287 e il 1355, e subì fasi costruttive successive fino alla metà del secolo successivo. È una corte terrena, che si riteneva legittimata dalla corte celeste a governare.
La Sala del Mappamondo racchiude l'ambiente più vasto del Palazzo Pubblico, essendo stata a lungo destinata alle riunioni del Consiglio Generale della Repubblica. Sul perché si chiami così, lo scoprirete tra poco!
Il Castello di Giuncarico?
Sulla parte opposta alla famosa "Maestà", un raffinato affresco fu probabilmente eliminato, insieme alla maggior parte degli altri, raffiguranti le terre e i castelli conquistati da Siena, perché si ritenne di sostituirli con il grande "Mappamondo" di Ambrogio Lorenzetti, ormai perduto da diversi secoli e di cui ci manca una descrizione soddisfacente, anche se si presume che contenesse l'immagine della città al centro, circondata dal suo Stato e, a sfumare, tutte le altre terre conosciute.
Della elaborata macchina girevole, consistente in un grandissimo disco di legno e cartapecora, non restano che le impronte impresse dall'uso sulla parete, ma la sua memoria ha fatto sì che alla Sala venisse assegnato il suo nome.
Nell’affresco si vede un castello, circondato da una chiesa, da vari edifici e da recinzioni, individuato da altri nel castello di Arcidosso, conquistato dai Senesi nel 1331 unitamente a Casteldelpiano.
Ma la scoperta del nuovo affresco (1980) mise in evidenza anche due figure emblematiche, in una scenografia certamente non casuale. Un personaggio con vesti civili, ma armato di spada, figura che appare dominante nella scena, che era nascosto o cancellato da uno strano strato di vernice blu, e l'altra con veste scura propria di un castellano, in atteggiamento di resa.
Le due figure dovrebbero ragionevolmente riferirsi al vero Guidoriccio da Fogliano, che conquistato Arcidosso, ottiene in via pacifica da un conte Aldobrandeschi (l'altra figura) la cessione di Casteldelpiano.
Altri studiosi invece credono che l’affresco raffiguri il Castello di Giuncarico (1314?): attribuito variamente a Duccio, o al suo seguace Memmo di Filippuccio, o a Simone Martini, introduce il tema della pittura profana a sfondo politico. Si nota comunque il gusto tipicamente senese del paesaggio topografico, il desiderio di ritrarre siti reali e riconoscibili da chiunque guardasse.
Il Guidoriccio da Fogliano?
Simone Martini realizzò nel 1328 (si legge la data sotto al cavallo) questo famoso capolavoro, per celebrare la vittoria sui castelli di Sassoforte e Montemassi da parte di un condottiero, Guidoriccio da Fogliano, mercenario assunto dai senesi.
Per alcuni studiosi, tuttavia, si esclude che questo personaggio equestre sia proprio Guidoriccio: non ci sarebbero infatti i segni di cancellazione o di sfiguramento, dopo che il condottiero andò a prestare la sua opera di mercenario a favore dei nemici di Siena, pratica che avveniva puntualmente in quei tempi, in nome della cosiddetta "damnatio memoriae".
Nel 1337 infatti egli fu sicuramente podestà di Padova, dove si conservano gli stemmi e gli emblemi delle casate. Per quella di Guidoriccio da Fogliano gli stemmi araldici sono totalmente diversi da quelli che appaiono sulla gualdrappa e sulla tunica.
Ad ogni modo, il dipinto faceva parte di un gruppo di figurazioni simili, che avevano il compito di testimoniare il successo della politica espansionista dello Stato senese in quegli anni. Nasceva così la "pittura di cronaca", concepita a conferma e supporto della realtà e della politica e non più soltanto come arte sacra, tipica del Medioevo, espressione del dialogo tra Dio e l’uomo.
Il cavaliere qui ritratto è certamente una metafora della potenza senese, così il paesaggio riproduce uno schema visivo, sintetico ed essenziale, del suo accampamento e dei suoi castelli. Si può confermare che il dipinto, almeno nelle sue parti originali, è di altissima qualità e che sia la maestria stilistica, sia la tecnica esecutiva ci riconducono ineccepibilmente alle qualità di Simone Martini.
Rinviano a lui, in particolare, l'accampamento, quasi identico a quello della Rinuncia di S. Martino alle armi del ciclo della cappella di S. Martino, decorata da Simone Martini nella basilica inferiore di S. Francesco ad Assisi; e poi il ritratto fortemente caratterizzato di Guidoriccio, che trova un riscontro puntuale nel volto del cardinale Gentile Partino da Montefiore, sempre ad Assisi, e nel profilo di Roberto d'Angiò nella pala napoletana con San Ludovico di Tolosa sempre di Simone.
Altri elementi che fanno pensare a Simone Martini riguardano anche la tecnica esecutiva, come punzoni (= ferri in cui veniva intagliata la figura da imprimere) e foglie metalliche applicate. L'affresco, dipinto dirimpetto alla Maestà a circa quindici anni di distanza, rappresenterebbe allora il condottiero dell'esercito senese a cavallo sullo sfondo del castello di Montemassi, da lui appena conquistato, del battifolle e dell'accampamento eretti per l'assedio.
Si coglie in questo affresco - la cui parte sinistra con il castello è un rifacimento fedele dei primi del Quattrocento, attribuibile a Taddeo di Bartolo - l’abilità di Simone Martini di disporre, calcolare e semplificare ogni elemento della figurazione in virtù della visione dal basso e della funzione dell'opera, che "nasce come un grande cartellone che doveva far pubblicità alle imprese della Repubblica di Siena", come scrive Luciano Bellosi nel 1982.
La Maestà
La sala del Mappamondo fu il luogo da dove prese avvio il programma di decorazione del Palazzo, attraverso l'opera, fra l'altro, più nobile e grandiosa, firmata e datata al 1315: la Maestà di Simone Martini.
L'impresa fu iniziata attorno al 1312, quando Duccio di Buoninsegna, suo maestro, aveva terminato da poco la sua grandiosa pala di analogo soggetto per l'altare maggiore del Duomo, un'opera che riscosse al tempo un enorme successo, venendo riconosciuta come uno dei capolavori più alti che l'uomo avesse saputo produrre.
Simone era allora un giovane artista, agli inizi di una carriera che poi sarebbe stata luminosa anche per la fama che gli procurò quell'incarico. Realizzò infatti un sublime dipinto, dove la grandiosità dell'impianto si sposa con la preziosità di ogni pur minimo dettaglio.
Ma principalmente l'opera incarna la nuova mentalità, cortese e avanzata della Siena del tempo, quella celebrata nelle rime del Petrarca che di Simone fu grande amico.
Non a caso fu scelta la Vergine come soggetto della prima impresa decorativa del nuovo Palazzo: si voleva testimoniare la speciale devozione che i senesi hanno avuto, in ogni tempo, verso la Madre Celeste. La Madonna è posta al centro della figurazione, austera, assisa su un sontuoso trono regale con schienale a cuspidi, che sul modello dell’oreficeria senese, è costruito come un reliquiario d’oro. Sembra una dama di corte che assiste ai tornei da un baldacchino, la cui struttura esile conferisce leggerezza e luminosità a tutta la scena.
La pregiatissima stoffa, riprodotta con stupefacente mimesi, reca gli emblemi della città, le insegne antiche della Francia e quelle di casa d’Angiò, in modo che la fede guelfa fosse evidente.
Attorno alla Vergine si vede una corte di trenta figure fra arcangeli, angeli e santi, che sono disposti in diagonali convergenti in profondità: essi acquistano consistenza plastica, fisionomie individuali e solide corporature.
Simone accantona il bizantinismo di Duccio, lavorando sull’insegnamento di Giotto da un lato, in particolare sulla solidità chiaroscurale introdotta dal maestro fiorentino, e sull’esempio gotico dall’altro, che si riconosce anche nell’uso delle raffinatissime punzonature, forse inventate proprio da Simone Martini.
La cultura gotica si era diffusa attraverso la circolazione di miniature, oreficerie, piccoli dipinti e sculture d'Oltralpe, ma anche grazie alla testimonianza del 'pittore oltremontano' che lavorava nel grande cantiere della basilica di Assisi.
Le novità giottesche si riconoscono invece in tema di rappresentazione dello spazio, immediatamente percepibile nel baldacchino così bene articolato prospetticamente e nella dislocazione delle figure attorno al trono, che fingono di occupare uno spazio in profondità e hanno infranto l'ordine speculare e simmetrico che tenevano nella Maestà di Duccio.
Inginocchiati in primo piano due angeli porgono alla Madonna cesti di fiori, mentre i Santi senesi anch’essi in ginocchio, i quattro protettori della città, sono messi in chiara posizione di intercessione affinché protegga la città.
La Vergine rassicura gli interlocutori, vigilerà su Siena. Dal 1260 la città era infatti a Lei consacrata, come si legge nel sigillo cittadino inserito nella fascia decorativa in basso; ed Ella insieme con il Bambino (il cui cartiglio recita «Diligite iustitiam qui iudicatis terram», la frase con cui inizia il Libro della Sapienza: “Amate la giustizia voi che governate le terra”) diventa qui garante sacra e terrena della politica di giustizia, di equilibrio, di difesa dei deboli, posta a fondamento del governo dei Nove.
Il suo monito risuona con chiarezza negli endecasillabi scritti nei gradini del trono: "Diletti mei ponete nelle menti/che li devoti vostri preghi onesti/ come vorrete voi faro co(n)tenti/ma se i potenti ai debili fien molesti/gravando loro o con vergogne o danni/le vostre oration non son per questi/ne per qualunque la mia terra inganni".
Si tratta di un primo richiamo a quel "Buon Governo" che poi diverrà impegno costante per gli amministratori cittadini. Maria rivolge allora alla città un discorso politico, che pone al centro il bene comune e la giustizia.
Realizzata su una parete che rimase a lungo a contatto con l'esterno e dipinta con una cura poco adatta alla tecnica a fresco, che presuppone invece tempi rapidissimi d'esecuzione, fu necessario per Simone ridipingere buona parte della superficie, appena sei anni dopo, nel 1321, introducendovi non trascurabili innovazioni, a seguito di una maturazione stilistica velocemente acquisita grazie alle fondamentali esperienze di Napoli e Assisi.
Per alcuni studiosi invece, il rifacimento di alcune parti della Maestà - in particolare le teste della Madonna, del Bambino, di alcuni santi e degli angeli inginocchiati -, fu motivato forse, più che da un deperimento precoce dell'affresco, dall'esigenza di un suo ammodernamento stilistico e iconografico. S
i sa comunque che il 30 dicembre 1321, Simone Martini riceveva dal Comune di Siena ventisette lire "per racconciatura la Maestà la quale è dipenta ne la Sala del Palazzo de Nove".
La Maestà è racchiusa da una cornice dipinta con eleganti motivi vegetali, sulla quale si dispongono venti tondi con evangelisti, Dottori della Chiesa, profeti, Cristo benedicente e una figura bicipite, che simboleggia l’antica e la nuova Legge. La cornice rafforza ancor più l’intento di «manifesto» politico dell’opera con gli stemmi e i sigilli della città, lo stemma del capitano del Popolo, la moneta cittadina, le virtù cardinali e teologali… ogni elemento è chiamato a testimoniare la giustizia di quel regime politico.
Si può ammirare l’utilizzo di materiali diversi, come la foglia d’oro, lamine dorate per conferire setosità alle stoffe, la carta, di cui è composto il cartiglio tenuto in mano dal Bambino e persino un magnifico cristallo di rocca per realizzare il fermaglio nel manto della Madonna.
Che Martini, o certo la sua bottega, fosse in grado di produrre oggetti di oreficeria si apprende anche da un più tardo documento del maggio 1333 in cui Simone viene pagato «pro uno pedistallo crucis et aliis rebus quas fecit pro ornamento altaris dominorum novem».
Il taglio cortese e profano della figurazione martiniana rispecchia gli intenti politici del governo committente, quello dei Nove, come è scritto nei versi che corrono sui gradini del trono, dove si lodano le virtù civiche necessarie per il buon governo della città ed esemplificate più tardi da Ambrogio Lorenzetti negli affreschi dell'adiacente sala della Pace.
La maturità artistica così evidente e l'importanza della commissione testimoniano la salda reputazione di Simone Martini come pittore prestigioso e ricercato già all'inizio del secondo decennio del Trecento.
Altre pitture
Sotto al "Guidoriccio" il Sodoma dipinse nel 1529 due dei Santi protettori senesi: "San Vittore" e "Sant'Ansano". Sulla parete davanti alle finestre, nella parte alta, sono raffigurate la "Battaglia della Val di Chiana" ad opera di Lippo Vanni (1363) e la "Battaglia del Poggio Imperiale" contro i fiorentini, dipinta da Giovanni di Cristofano Ghini e da Francesco d' Andrea.
In basso si trova invece una Galleria dei più venerati Santi senesi: dal "San Bernardino" di Sano di Pietro, eseguito nell' anno della sua canonizzazione (1450), alla "Santa Caterina" del Vecchietta (1460) e al "Beato Bernardo Tolomei", fondatore degli Olivetani del Sodoma (1530 ca.).
Chi è Simone Martini (1284-1344)? Qualche curiosità
Pittore senese, documentato a partire dal 1315 e morto nel 1344 ad Avignone, nel Sud della Francia, dove dal 1308 risiedeva la Curia pontificia. La vita e l’attività pittorica di Simone sono di fatto ricostruibili solo attraverso il percorso tracciato dai documenti e dalle opere a partire dal 1315, anno del completamento della Maestà proprio per la sala del Mappamondo nel palazzo pubblico di Siena.
Era un professionista famoso…ma aveva anche una famiglia! Tra il 2 gennaio e l'8 febbraio 1324, Simone Martini acquistava una casa dal pittore Memmo di Filippuccio per venti fiorini e contemporaneamente ne sposava la figlia Giovanna, alla quale donò la generosa somma di duecentoventi fiorini per le nozze.
Sappiamo anche che aveva un fratello pittore e suo collaboratore, Donato. Nella disposizione testamentaria poi si legge che, privo di figli, ripartiva i suoi consistenti averi fra la moglie e i nipoti.
Il 1347 vedeva la morte del fratello Donato e il ritorno a Siena della moglie Giovanna, che faceva dono di un calice e di un messale in memoria del marito al convento di S. Domenico.
L’internazionalità delle idee: la mente aperta e la voglia di scommettere su di sé
La prima opera sicuramente realizzata alla corte papale di Avignone - perduto il ritratto della Laura petrarchesca - è ancora da collegare a Petrarca, che, rientrato in possesso nel 1338 di un codice delle opere di Virgilio commentate da Servio (Milano, Bibl. Ambrosiana, S.P.10.27), sottrattogli anni addietro, decideva di farne miniare il frontespizio dall'amico pittore con un'allegoria virgiliana.
Ai primi degli anni quaranta, sul timpano e sulla lunetta del portale della cattedrale avignonese di Notre Dame des Doms, Martini affrescò, rispettivamente, un Cristo benedicente e angeli e, secondo un'iconografia nuova elaborata probabilmente dallo stesso Simone, una Madonna dell'Umiltà.
La bravura è premiata (prima o poi)
"Tengono e' pictori senesi fosse il migliore" ricorda Ghiberti (Commentari, II, 13), che però gli preferiva Ambrogio Lorenzetti. Simone Martini subì a lungo il giudizio poco favorevole espresso da Vasari, secondo il quale l'aver realizzato il ritratto di Laura, dando avvio all’arte del ritratto, e l'essere stato nominato da Petrarca in una delle sue lettere (Le Familiari, 5,17) "hanno dato più fama alla povera vita di maestro Simone che non hanno fatto né faranno mai tutte l'opere sue" (Le Vite, II, 1967, p. 192).
La reale statura del pittore emerse solo nell’Ottocento! - e in particolare grazie al lavoro di Crowe e Cavalcaselle (1864; 1885) - con il riconoscimento delle maggiori opere del suo catalogo. La prima delle numerose monografie sull'artista si deve a Gosche (1899!).
Oggi è uno dei pochi artisti di cui il Medioevo ci abbia restituito nome e cognome (pensate al confronto con i ben più numerosi artisti anonimi che con le loro botteghe si celano fra le pieghe della storia sotto espressioni convenzionali “il Maestro di…”) e brilla tra i più grandi della Storia dell’arte italiana.