Pistoia, città in bianco e verde. Dalle facciate bicrome delle chiese alle storiche rivalità interne e spinte eccentriche evocate da Dante, di Ugo Feraci
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Riprendiamo da I luoghi dell’infinito di Avvenire, settembre 2017, pp. 60-69, un articolo di Ugo Feraci, direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali e cultura della Diocesi di Pistola. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Arte.
Il Centro culturale Gli scritti (9/12/2019)
«Vita bestial mi piacque e non umana, / sì come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci / bestia, e Pistoia mi fu degna tana» (Inferno XXIV, 124-126). La fama nera di Pistoia si è appiccicata addosso ai pistoiesi, i quali, peraltro, quasi compiaciuti, non si sono mai dati troppo da fare per sconfessarla.
Le funeste e interminabili faide medievali, colorate di interessi politici, sono state perfino "fondate" filologicamente nel passato remoto della città, ai tempi di quel Catilina che diede filo da torcere a Cicerone e fu sconfitto con il suo manipolo di rivoltosi sulle colline pistoiesi.
Giannozzo Manetti, storico e umanista, nella sua Historia Pistoriensium (1447 circa) ne deriva infatti l'ètimo stesso della città, che a suo dire fu chiamata Pistoia dai pestiferi e pestilenti avanzi dei soldati di Catilina.
Questo destino di accesi contrasti sembra inscritto, d'altra parte, nelle pietre che identificano ancora oggi il volto medievale della città. Molto, se non tutto, infatti, ebbe inizio alla metà del XII secolo quando il vescovo del tempo, un monaco vallombrosano di nome Atto, con illuminata lungimiranza fece pervenire a Pistoia una reliquia di san Giacomo apostolo. Correva l'anno 1144 e il vescovo fece edificare subito una cappella in cattedrale con il vivo desiderio di tornare alla genuinità delle origini cristiane, ma anche per contrastare le pretese del neonato governo comunale.
Eppure, paradossalmente, il santo apostolo divenne presto il santo del Comune, che fu, tramite l'Opera di San Jacopo, il principale promotore del culto, dell'accoglienza dei pellegrini e di molte altre attività assistenziali.
San Giacomo, o Jacopo come lo chiamano tutti a Pistoia, era allora come oggi il Santiago del Cammino; le sue reliquie erano venerate a Compostela da pellegrini di tutta Europa. Dai confini del mondo allora conosciuto, fino a Roma e Gerusalemme, le vie dei pellegrini che percorrevano lo spazio euromediterraneo toccarono anche Pistoia. La devozione al santo apostolo trovò espressione in uno straordinario altare argenteo costruito e ingrandito, pezzo dopo pezzo, dal XIII fino al XV secolo: un’opera di oreficeria senza pari, in parte custodita, alla fine del Duecento, in quella «sagrestia de' belli arredi» vandalizzata dal Vanni Fucci dantesco.
L’arrivo della reliquia a Pistoia, inoltre, si inseriva in un più ampio quadro di rilancio religioso e culturale della città: la Chiesa manifestava il suo desiderio di rinnovamento recuperando, sulla scia di un'ispirazione pisano-lucchese, forme antiche e paleocristiane nelle grandi strutture basilicali della cattedrale, della pieve di Sant'Andrea e della chiesa abbaziale di San Bartolomeo.
A Pistoia, però, l'alternanza di marmo bianco (o pietra calcarea) e marmo verde di Prato divenne una cifra stilistica fortunatissima. La ritroviamo un po' dappertutto: dalla cattedrale alla chiesa di San Francesco ricorre in arcate di conci bianchi e verdi, in motivi decorativi e paramenti murari in bicromia che si ripetono in chiese grandi e piccole, ancora vive o dimenticate, del centro storico.
Un motivo variato fino all'estremismo formale di San Giovanni Fuorcivitas e replicato ancora alla metà del Trecento nell’elegante rivestimento del battistero di San Giovanni in Corte. Un gioco di contrasti ora più, ora meno acceso, che è anche il segno di un dialogo con culture differenti: dalle suggestioni esotiche dell’architettura islamica, all'eco di lontane vie di pellegrinaggio, dalle coste liguri al sud della Francia, lungo la via per Santiago.
Contrasti usati a contrasto di idee ereticali, come quelle dei catari. Non è un caso, infatti, che gli architravi delle chiese pistoiesi attestino, con i loro soggetti scolpiti dal maestro Gruamonte poco oltre la metà del XII secolo, i punti principali della dottrina cattolica: Incarnazione in Sant’Andrea, Eucarestia in San Giovanni Fuoricivitas, Resurrezione della carne e missione in San Bartolomeo.
Dentro le chiese pistoiesi la parola, "segno di contraddizione", risuonava dai pulpiti nelle aule liturgiche. Pistoia, infatti, è città di pulpiti, costruiti uno dopo l’altro in una sottesa competizione artistica, con un crescendo stilistico senza pari. Una serie che prende il via da quello, perduto, di Guglielmo Pisano nella cattedrale, di cui restano alcune formelle (fine XII secolo), passando a quello di Guido da Como in San Bartolomeo (1250), per quello di fra Guglielmo in San Giovanni Fuorcivitas, ripetitore delle novità di Nicola Pisano, fino alla straordinaria sintesi di architettura e scultura del pulpito di Giovanni Pisano in Sant'Andrea (1298-1301).
All'epoca i contrasti non erano soltanto faccende di scalpellini, ma violenze tra famiglie e quartieri, in un crescendo sanguinoso che dalla città imperversò dappertutto sotto il segno dei guelfi bianchi e dei guelfi neri, «per modo che - come scrive l'anonimo autore trecentesco delle Istorie Pistolesi - non fu né maschio, né femina, né grande, né piccolo, né frate, né prete che diviso non fosse».
L'età rinascimentale è segnata da un contesto difficile di crisi generalizzata in cui si inseriscono maestri fiorentini come Luca della Rabbia, autore del gruppo della Visitazione in San Giovanni Fuoricivitas - incanto di delicatezza poetica tutto femminile -, e l'attività di Andrea del Verrocchio nella cappella della Madonna di Piazza in cattedrale e nel travagliato monumento al cardinale Niccolò Forteguerri.
Violenze e vendette divennero proverbiali funestando a lungo la città, al punto da far versare lacrime, nell’anno 1490, a un'antica immagine raffigurante la Madonna dell'umiltà. Il pianto della Vergine placò gli animi il tempo necessario a suggerire una più grandiosa collocazione del dipinto. Giuliano da Sangallo, forse consigliato dallo stesso Lorenzo de Medici, pensò al progetto e a buona parte dell'edificio, completato da una grande cupola realizzata da Giorgio Vasari e rinforzata da Bartolomeo Ammannati. Ancora oggi nulla supera in altezza il campanile della piazza e contende il primato alla mole della cupola: richiamo evidente all'altra cupola della piana in cui sorge Pistoia, quella brunelleschiana di Santa Maria del Fiore.
Nella terra dei campanili ogni scusa è buona per far spregi al vicino. Perfino nel fregio dell'Ospedale del Ceppo, di Santi Buglioni, il certosino Leonardo Buonafede - lo spedalingo onnipresente nelle opere di Misericordia - si riconosce mentre lava i piedi a un pellegrino abbigliato con pelle di cammello che ricorda san Giovanni Battista (il patrono di Firenze) e volge le spalle a un viandante in attesa del suo turno che ha le sembianze di san Jacopo.
In città l'arte del barocco e del Settecento, vituperata e cancellata a suon di martellate e "restauri" fino a pochi decenni fa, desta oggi nuovo interesse, ma sempre entro il quadro di curiose contrapposizioni.
La chiesa di Sant'Ignazio di Loyola, fondata dai gesuiti, è un gioiello barocco, dotato di un organo fiammingo del 1666 e di un altare a marmi policromi su disegno dì Gian Lorenzo Bernini. La decorazione della chiesa è il felice frutto della sensibilità di Clemente IX, quel Giulio Rospigliosi autore di melodrammi che fu papa tra 1667 e 1669 e di cui si possono rintracciare memorie e interessi nel Museo Diocesano di Palazzo Rospigliosi, da poco riaperto.
All’inizio del XVIII secolo il cardinale pistoiese Carlo Agostino Fabroni, che donò alla città una splendida e ricca biblioteca, fu il redattore principale della bolla Unigenitus (1713) di papa Clemente XI contro gli errori del giansenismo. Eppure - come conviene a una città di contrasti - sarà proprio il giansenismo a caratterizzare la vita religiosa di Pistoia nell'età turbolenta della rivoluzione francese.
Tutta colpa di un vescovo fiorentino che nel 1786, con un sinodo ricordato su tutti i libri di storia della Chiesa, riformò profondamente la diocesi. Scipione de' Ricci, sostenuto dal granduca Leopoldo d’Asburgo-Lorena, proponeva una decisa autonomia dalla Chiesa romana, imponeva una "religione illuminata” sbrogliata di devozioni, soprattutto da quel culto del Sacro Cuore propagato dai gesuiti suoi acerrimi nemici.
Non gli mancavano intuizioni moderne: a Pistoia fu celebrata la Messa in lingua volgare, furono valorizzate le parrocchie e la formazione del clero, progettata un'equa distribuzione dei beni alle diverse realtà ecclesiali. La chiesa dei gesuiti, allora soppressi, ricevette la dedicazione allo Spirito Santo da una più antica chiesa poi dedicata a San Leone, tornata alla ribalta per i preziosi affreschi settecenteschi recentemente restaurati. Oggi, nonostante sia stata rispolverata l'antica dedicazione gesuitica, perfino i pistoiesi fanno fatica a chiamarla Sant'Ignazio.
Cacciati ordini antichi e sottratti spazi e ambienti a "inutili" monaci contemplativi, il vescovo ne approfittò per costruire l'odierno palazzo episcopale e un moderno e grande seminario. Le innovazioni di Scipione de' Ricci finirono per irritare il popolo, che cacciò il suo pastore senza troppe smancerie: le posizioni del sinodo furono condannate dalla bolla Auctorem fidei di papa Pio VI nel 1794, il seminario dedicato... al Sacro Cuore.
Il nomignolo di "giansenista" però, accompagnò a lungo la chiesa pistoiese che da quella radice maturò simpatie risorgimentali e anche l'interesse a un impegno nella storia. Un lungo percorso che si è risolto, ecclesialmente, in un approfondimento teologico delle "realtà terrestri" e in un diffuso impegno sociale.
Non a caso, forse, una precoce riflessione sulle "forme" ecclesiali è stata espressa architettonicamente dal pistoiese Giovanni Michelucci. Oggi gli accostamenti di colore si ripetono nella policromia vivace e familiare, di quieta provincia contadina, delle vetrate di Sigfrido Bartolini per la chiesa dell'Immacolata, come nei toni delicati e nelle forme pop di Umberto Buscioni per la chiesa di San Paolo.
Rissosità e contrasti sembrano smorzati entro i contorni di una vita discreta e silenziosa che neppure l'elezione a Capitale italiana della Cultura 2017 sembra aver troppo scrollato. Le partigianerie di bianchi e neri sono lontane, eppure sulla facciata della cattedrale si affiancano san Jacopo in veste di pellegrino – apostolo dal temperamento rissoso che Gesù chiamava "figlio del tuono" - e san Zeno, patrono della cattedrale, già vescovo africano. Ha il pastorale in mano e un braccio levato, per ammonire come sia sempre possibile raccontare la gente con le pietre, senza dimenticare, come scriveva in un suo sermone, che «al Dio vivente, sono necessari templi viventi».