1/ Un altare portatile sulla mangiatoia. La celebrazione del Natale a Greccio nel testo di Tommaso da Celano, di Pietro Messa 2/ L’asino e il bue nel presepe. San Francesco li volle a Greccio, di Pietro Messa 3/ Semplicità del Natale. «Il presepio è qualcosa di molto semplice, che tutti i bambini capiscono». Una meditazione da Gerusalemme del cardinale Carlo Maria Martini
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1/ Un altare portatile sulla mangiatoia. La celebrazione del Natale a Greccio nel testo di Tommaso da Celano, di Pietro Messa
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 30/11/2019 un articolo di padre Pietro Messa. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Catechesi e liturgia e Francesco d’Assisi.
Il Centro culturale Gli scritti (9/12/2019)
Nel 1228 Gregorio IX canonizzò frate Francesco d’Assisi, ossia ne riconobbe canonicamente la santità; da quel momento il figlio del mercante assisano Pietro di Bernardone è per la Chiesa un modello da imitare, un intercessore da pregare e un maestro da ascoltare. Se l’intercessione, direttamente collegata all’aspetto taumaturgico, cioè alla capacità di compiere miracoli, si esplicita soprattutto mediante la preghiera e in particolar modo la liturgia, quello esemplare è mediato dalla conoscenza di parole e fatti edificanti della sua esistenza narrati in un’opera da divulgare mediante la lettura. Così lo stesso pontefice commissionò la vita del nuovo santo a frate Tommaso da Celano; questi si mise a scrivere non una cronistoria, ma una lettura teologica — cioè che considerasse l’azione della grazia del Signore — della storia ma senza eliminare quest’ultima. Fu così che a soli due anni di distanza dalla sua morte ebbe origine la prima agiografia, ossia scrittura della santità, di san Francesco d’Assisi.
Il testo della Vita beati Francisci fu pronto nel 1228-1229; come incastonate tra un prologo e i miracoli, le due parti che la compongono narrano rispettivamente dall’infanzia al 1223 e dalla permanenza alla Verna nel 1224 fino alla morte e canonizzazione. Quasi fosse un racconto di passaggio, al termine della prima parte — in cui è narrato anche l’incontro con il sultano al-Malik al-Kamil avvenuto in Egitto presso Damietta nel 1219 — descrive ciò che accadde nella notte di Natale del 1223 a Greccio.
Tommaso da Celano innanzitutto contestualizza l’episodio nella scelta esistenziale di Francesco d’Assisi da lui stesso ricordata e trasmessa ai frati poco prima di morire nel Testamento, ossia «vivere secondo la forma del santo Vangelo» seguendo le orme del Signore nostro Gesù Cristo. Proseguendo, il racconto richiama l’importanza della memoria: infatti si deve riconoscere che Francesco di Pietro di Bernardone, il figlio del mercante, pur non essendo un acculturato come ad esempio il coevo Antonio di Padova, era alfabetizzato, cioè capace di leggere e scrivere. Per una persona di una cultura bassa o mediocre, simile alla sua, fondamentale risultava la memoria, luogo mediante cui ritenere le nozioni.
Il centro dell’affezione di Francesco è il Signore Gesù Cristo e la sua fu una scelta non semplicemente religiosa o spirituale, ma precisamente cristiana nella Chiesa; e per questo volle celebrare solennemente il Natale. Per fare ciò coinvolge uno dei tanti laici che erano affascinati dalla sua proposta di vita, un certo nobile di nome Giovanni. Frate Francesco, il figlio del mercante, non era nobile come Giovanni, ma entrambi erano accomunati da un afflato culturale fatto di cortesia e gentilezza che si intravvede anche nel racconto di Tommaso da Celano.
Il santo d’Assisi desidera «fare memoria di quel Bambino che è nato a Betlemme»: l’espressione richiama la liturgia eucaristica in cui appellandosi al dettato del Vangelo è riportato l’invito di Gesù a compiere quanto da lui fatto nell’ultima cena «in memoria» di lui. Quindi molto di più di un semplice ricordare, ma un compiersi di nuovo di quanto compiutosi nel passato, o meglio ancora un rendersi presente e contemporaneo l’atto salvifico di Cristo. Quanto avvenuto a Betlemme, ossia nella storia, raggiunge la storia di Francesco, ma anche quella dell’agiografo e del lettore, fino a noi oggi che stiamo considerando tale evento. Accanto a ciò vi è il desiderio di Francesco di «in qualche modo intravedere con gli occhi del corpo»; come si intravede nei suoi scritti in lui vi è un’elementare capacità speculativa, ma più importante è l’aspetto plastico del vedere. Un vedere che come afferma nella prima Ammonizione riferendosi al pane eucaristico può fermarsi a se stesso oppure approfondirsi nel credere che non esclude il vedere — come normalmente si pensa — ma diventa un vedere più profondo. Infatti per Francesco la salvezza sta nell’accompagnarsi del vedere al credere ossia dell’affiancarsi agli occhi del corpo gli occhi dello spirito.
A Greccio vuole vedere «i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato», cioè l’abbassamento di colui che i cieli e la terra non possono contenere nella condizione umana. Si tratta di quel cammino di abbassamento compiuto da Gesù che affascina Francesco tanto da volerlo seguire in tale via facendosi fratello minore. Tale discesa è fino ad essere «adagiato in una mangiatoia»: l’originale latino è praesepe e tale termine risulta già così caratterizzante che darà il nome a tutto l’avvenimento della Natività.
A questo punto della narrazione sono menzionati anche «il bue e l’asinello», una presenza sconosciuta nei Vangeli ma ben presente nella letteratura dei Padri della Chiesa; e questo conferma che se l’aspetto evangelico fu uno degli strati culturali e spirituali di frate Francesco d’Assisi, a esso va affiancato quello patristico-liturgico tanto che lo stesso Vangelo egli lo ascolta e riceve mediato dalla liturgia. L’origine biblica dell’asino e il bue è il passo del profeta Isaia in cui si afferma che «il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende» (Isaia, 1,3); saranno i commenti successivi a dire che con essi sono raffigurati gli ebrei circoncisi che portano il giogo della legge e i gentili, ossia gli incirconcisi. Tale presenza presso la mangiatoia dell’asino e il bue quindi è un annuncio della redenzione rappacificante compiuta dalla Pasqua, come san Paolo sintetizza nella sua lettera agli Efesini: «Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, (...) per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia».
Quindi l’asino e il bue presso la mangiatoia sono una promessa di pace che si compirà con l’accoglienza della Pasqua. E pace anche tra cristiani e musulmani che soltanto quattro anni prima, durante la quinta crociata, aveva visto scontrarsi a Damietta mentre andava a portare anche al sultano il saluto di pace che nel Testamento afferma essergli stato rivelato dal Signore stesso.
Tommaso da Celano continua narrando che in quella notte quanti arrivarono per festeggiare il Natale portavano «ceri e fiaccole per rischiarare quella notte», proprio come avveniva nelle chiese per le celebrazioni e quindi il contesto è quello liturgico in cui — come già ricordato — il «memoriale» è incontro tra passato e presente. Infatti Tommaso da Celano afferma semplicemente che «Greccio è divenuto come una nuova Betlemme» in cui gaudio, canti, lodi, cori festosi si intrecciano davanti al «rinnovato mistero».
Il centro di tutto è la messa celebrata mediante un altare portatile sulla mangiatoia; il Vangelo è cantato da Francesco e ciò, afferma l’agiografo, perché era diacono. Come diacono Francesco percepisce il compito di annunciare il Vangelo e così «parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme». Questa città di Giuda è ripetuta spesso e al lettore o ascoltatore attento non passava inosservato che proprio in quella terra erano in atto lotte per la riconquista dei luoghi santi in cui si svolse la vicenda terrena di Gesù.
La predicazione del santo è descritta come infervorata, quasi teatrale: la finale di Betlemme diviene come un belato di pecora, il nome di Gesù come una dolcezza per cui «passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e deglutire tutta la dolcezza di quella parola».
Il racconto termina con la narrazione di una visione avuta da uno dei presenti, ossia che un bambino privo di vita giacente nella mangiatoia fu risvegliato da san Francesco da un «sonno profondo». L’agiografo fa la sua interpretazione dicendo che ciò ben rappresentò quanto avvenne grazie al santo, ossia che «il fanciullo Gesù fu risuscitato nei cuori di molti, che l’avevano dimenticato, e fu impresso profondamente nella loro memoria amorosa». La celebrazione del Natale a Greccio diventa benedizione per tutti tanto che lo stesso Assisiate percepì il dovere di portarla ovunque, anche nella terra dei non cristiani, ossia al sultano d’Egitto.
2/ L’asino e il bue nel presepe. San Francesco li volle a Greccio, di Pietro Messa
Riprendiamo dal sito www.ilcattolico.it un articolo di padre Pietro Messa pubblicato il 29/12/2019. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Catechesi e liturgia e Francesco d’Assisi.
Il Centro culturale Gli scritti (9/12/2019)
Il festeggiato è Gesù (cfr. G. Biffi, Gesù di Nazaret centro del cosmo e della storia) e di ciò era ben consapevole frate Francesco d’Assisi quando volle celebrare il Natale a Greccio nel 1223. Tuttavia volle che ci fossero anche il bue e l’asino, come solo cinque anni dopo i fatti Tommaso da Celano ricorda: il santo volle «fare memoria di quel Bambino […] e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».
Quindi sono menzionati anche “il bue e l’asinello”, una presenza sconosciuta nei Vangeli ma ben presente nella letteratura dei Padri della Chiesa; e questo conferma che se l’aspetto evangelico fu uno degli strati culturali e spirituali di frate Francesco d’Assisi, ad esso va affiancato quello patristico-liturgico tanto che lo stesso Vangelo egli lo ascolta e riceve mediato dalla liturgia (cfr. P. Messa, Le fonti patristiche negli scritti di s. Francesco). L’origine biblica dell’asino e il bue è il passo del profeta Isaia in cui si afferma che «il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende» (Is 1,3); saranno i commenti successivi a dire che con essi sono raffigurati gli ebrei circoncisi che portano il giogo della legge e i gentili, ossia gli incirconcisi.
Tale presenza presso la mangiatoia dell’asino e il bue quindi è un annuncio della redenzione rappacificante compiuta dalla Pasqua, come san Paolo sintetizza nella sua lettera agli Efesini: «Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, […], per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia». Quindi l’asino e il bue presso la mangiatoia sono una promessa di pace che si compirà con l’accoglienza della Pasqua! E pace anche tra cristiani e musulmani che soltanto quattro anni prima frate Francesco, durante la quinta crociata, aveva visto scontrarsi a Damietta mentre andava a portare anche al sultano il saluto di pace che nel Testamento afferma essergli stato rivelato dal Signore stesso.
Benedetto XVI a questo proposito ha scritto: «Da allora il bue e l’asino fanno parte di tutti i presepi. Ma donde deriva questa usanza? Com’è noto, i racconti natalizi del Nuovo Testamento non ne fanno parola. Se approfondiamo questa domanda, scopriamo un particolare importante sia per le usanze natalizie, sia per la spiritualità liturgica e popolare natalizia e pasquale della Chiesa. Il bue e l’asino non sono semplici prodotti della pietà e della fantasia, ma sono diventati ingredienti dell’evento natalizio a motivo della fede della Chiesa nell’unità dell’Antico e del Nuovo Testamento. In Isaia 1,3 leggiamo infatti: “il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende”. I padri della Chiesa videro in queste parole una profezia che fa riferimento al nuovo popolo di Dio, alla Chiesa composta di giudei e pagani. Davanti a Dio tutti gli uomini, giudei e pagani, erano come buoi ed asini, privi di intelligenza e conoscenza. Ma il Bambino nella mangiatoia ha aperto loro gli occhi, cosicché ora essi riconoscono la voce del proprietario, la voce del loro Signore. Nelle rappresentazioni medioevali del Natale vediamo come i due animali abbiano quasi volti umani, come si inchinino consapevoli e rispettosi davanti al mistero del Bambino. Ciò era perfettamente logico, perché essi avevano il valore di segno profetico dietro cui si nasconde il mistero della Chiesa, il nostro mistero, secondo il quale noi che di fronte all’eterno siamo buoi e asini, buoi e asini cui nella Notte Santa sono stati aperti gli occhi, si ché ora riconoscono nella mangiatoia il loro Signore. Ma lo riconosciamo realmente? Quando collochiamo nel presepio il bue e l’asino, dobbiamo rammentarci tutte le parole di Isaia, che non sono solo vangelo – cioè promessa della futura conoscenza –, bensì anche giudizio sull’accecamento attuale. Il bue e l’asino riconoscono, ma “Israele non conosce e il mio popolo non comprende”. Chi sono oggi il bue e l’asino, chi “il mio popolo” che non comprende? Da che cosa si riconoscono il bue e l’asino, da che cosa si riconosce “il mio popolo”? Perché mai gli esseri privi di ragione riconoscono e la ragione è ceca? Per trovare una risposta dobbiamo tornare ancora una volta con i Padri della Chiesa al primo Natale. Chi non riconobbe? Chi riconobbe? E perché ciò si verificò? Orbene, a non riconoscere fu Erode. Egli non comprese nulla quando gli parlarono del Bambino, anzi, fu ancora più accecato dalla sua sete di potere e dalla conseguente mania di persecuzione (Mt 2,3). A non riconoscere fu “tutta Gerusalemme con lui” (ivi). A non riconoscere furono i dotti, i conoscitori delle Scritture, gli specialisti dell’interpretazione che conoscevano con esattezza il passo biblico giusto e tuttavia non compresero nulla (Mt 2,6). A riconoscere furono invece “il bue e l’asino” – se paragonati con queste persone rinomate –: i pastori, i magi, Maria e Giuseppe. Poteva mai essere diversamente? Nella stalla, dove è lui, non abitano le persone raffinate, lì sono di casa appunto il bue e l’asino. E la nostra posizione qual è? Siamo tanto lontani dalla stalla appunto perché siamo troppo raffinati e intelligenti per questo? Non ci perdiamo anche noi in una dotta esegesi biblica, nei tentativi di dimostrare l’inautenticità o l’autenticità storica di un certo passo, al punto da divenire ciechi nei confronti del Bambino e non percepire più nulla di lui? Non viviamo anche noi troppo in “Gerusalemme”, nel palazzo, racchiusi in noi, nella nostra autonomia, nella nostra paura di persecuzione, sì da non riuscire più a percepire di notte la voce degli angeli, unirci ad essa e adorare? In questa notte i volti del bue e dell’asino ci rivolgono perciò questa domanda: il mio popolo non comprende, comprendi tu la voce del tuo Signore? Quando collochiamo le statuine nel presepio, dovremmo pregare Dio di concedere al nostro cuore quella semplicità che riconosce nel Bambino il Signore, come fece una volta Francesco a Greccio. Allora potrebbe succedere anche a noi quanto Tommaso da Celano, quasi con le stesse parole di san Luca relative ai pastori del primo Natale (Lc 2,20), dice dei partecipanti alla messa di mezzanotte di Greccio: tutti se ne tornarono a casa pieni di gioia».
Ma il bue con il giogo della legge e l’asino selvatico possono anche ben raffigurare quella realtà che vive ogni persona ben rappresentata dalla figura del satiro, metà uomo e metà caprone. Infatti da viatori ciascuno vive nel già e non ancora, nella tensione della perfettibilità, tra la realtà e l’idealità, e può pregare con tutta sincerità e verità: «Credo, aiutami nella mia incredulità» (Mc 9,24). La tentazione è escludere uno dei due, ossia o la passionalità o la razionalità ma il Signore è colui che ama ciascuno così come è, ossia con i suoi frantumi, non lasciandolo però in tale condizione ma unificandolo conformandolo e rendendolo per grazia ciò che lui è per natura. Ciò accadde anche a san Francesco che divenne così memoria vivente di Gesù.
3/ Semplicità del Natale. «Il presepio è qualcosa di molto semplice, che tutti i bambini capiscono». Una meditazione da Gerusalemme del cardinale Carlo Maria Martini
Riprendiamo da 30Giorni (n. 11 – 2006) un articolo del cardinale Carlo Maria Martini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Catechesi e liturgia e Francesco d’Assisi.
Il Centro culturale Gli scritti (9/12/2019)
Gerusalemme, dicembre 2006
Il presepio è qualcosa di molto semplice, che tutti i bambini capiscono. È composto magari di molte figurine disparate, di diversa grandezza e misura: ma l’essenziale è che tutti in qualche modo tendono e guardano allo stesso punto, alla capanna dove Maria e Giuseppe, con il bue e l’asino, attendono la nascita di Gesù o lo adorano nei primi momenti dopo la sua nascita.
Come il presepio, tutto il mistero del Natale, della nascita di Gesù a Betlemme, è estremamente semplice, e per questo è accompagnato dalla povertà e dalla gioia. Non è facile spiegare razionalmente come le tre cose stiano insieme. Ma cerchiamo di provarci.
Il mistero del Natale è certamente un mistero di povertà e di impoverimento: Cristo, da ricco che era, si fece povero per noi, per farsi simile a noi, per amore nostro e soprattutto per amore dei più poveri.
Tutto qui è povero, semplice e umile, e per questo non è difficile da comprendere per chi ha l’occhio della fede: la fede del bambino, a cui appartiene il Regno dei cieli. Come ha detto Gesù: «Se il tuo occhio è semplice anche il tuo corpo è tutto nella luce» (Mt 6, 22). La semplicità della fede illumina tutta la vita e ci fa accettare con docilità le grandi cose di Dio. La fede nasce dall’amore, è la nuova capacità di sguardo che viene dal sentirsi molto amati da Dio.
Il frutto di tutto ciò si ha nella parola dell’evangelista Giovanni nella sua prima lettera, quando descrive quella che è stata l’esperienza di Maria e di Giuseppe nel presepio: «Abbiamo veduto con i nostri occhi, abbiamo contemplato, toccato con le nostre mani il Verbo della vita, perché la vita si è fatta visibile». E tutto questo è avvenuto perché la nostra gioia sia perfetta. Tutto è dunque per la nostra gioia, per una gioia piena (cfr. 1Gv 1, 1-3). Questa gioia non era solo dei contemporanei di Gesù, ma è anche nostra: anche oggi questo Verbo della vita si rende visibile e tangibile nella nostra vita quotidiana, nel prossimo da amare, nella via della Croce, nella preghiera e nell’eucaristia, in particolare nell’eucaristia di Natale, e ci riempie di gioia.
Povertà, semplicità, gioia: sono parole semplicissime, elementari, ma di cui abbiamo paura e quasi vergogna. Ci sembra che la gioia perfetta non vada bene, perché sono sempre tante le cose per cui preoccuparsi, sono tante le situazioni sbagliate, ingiuste. Come potremmo di fronte a ciò godere di vera gioia? Ma anche la semplicità non va bene, perché sono anche tante le cose di cui diffidare, le cose complicate, difficili da capire, sono tanti gli enigmi della vita: come potremmo di fronte a tutto ciò godere del dono della semplicità? E la povertà non è forse una condizione da combattere e da estirpare dalla terra?
Ma gioia profonda non vuol dire non condividere il dolore per l’ingiustizia, per la fame del mondo, per le tante sofferenze delle persone. Vuol dire semplicemente fidarsi di Dio, sapere che Dio sa tutte queste cose, che ha cura di noi e che susciterà in noi e negli altri quei doni che la storia richiede. Ed è così che nasce lo spirito di povertà: nel fidarsi in tutto di Dio. In Lui noi possiamo godere di una gioia piena, perché abbiamo toccato il Verbo della vita che risana da ogni malattia, povertà, ingiustizia, morte.
Se tutto è in qualche modo così semplice, deve poter essere semplice anche il crederci. Sentiamo spesso dire oggi che credere è difficile in un mondo così, che la fede rischia di naufragare nel mare dell’indifferenza e del relativismo odierno o di essere emarginata dai grandi discorsi scientifici sull’uomo e sul cosmo. Non si può negare che può essere oggi più laborioso mostrare con argomenti razionali la possibilità di credere, in un mondo così.
Ma dobbiamo ricordare la parola di san Paolo: per credere bastano il cuore e la bocca. Quando il cuore, mosso dal tocco dello Spirito datoci in abbondanza (cfr. Rm 5, 5; Gv 3, 34), crede che Dio ha risuscitato dai morti Gesù e la bocca lo proclama, siamo salvi (cfr. Rm 10, 8-12). Tutte le complicazioni, tutti gli approfondimenti che talora ci confondono, tutto ciò che è stato sovrimposto attraverso il pensiero orientale e occidentale, attraverso la teologia e la filosofia, sono riflessioni buone, ma non ci devono far dimenticare che credere è in fondo un gesto semplice, un gesto del cuore che si butta e una parola che proclama: Gesù è risorto, Gesù è Signore! È un atto talmente semplice che non distingue fra dotti e ignoranti, tra persone che hanno compiuto un cammino di purificazione o che devono ancora compierlo. Il Signore è di tutti, è ricco di amore verso tutti coloro che lo invocano.
Giustamente noi cerchiamo di approfondire il mistero della fede, cerchiamo di leggerlo in tutte le pagine della Scrittura, lo abbiamo declinato lungo vie talora tortuose. Ma la fede, ripeto, è semplice, è un atto di abbandono, di fiducia, e dobbiamo ritrovare questa semplicità. Essa illumina tutte le cose e permette di affrontare la complessità della vita senza troppe preoccupazioni o paure.
Per credere non si richiede molto. Ci vuole il dono dello Spirito Santo che egli non fa mancare ai nostri cuori e da parte nostra occorre fare attenzione a pochi segni ben collocati. Guardiamo a ciò che successe accanto al sepolcro vuoto di Gesù: Maria Maddalena diceva con affanno e pianto: «Hanno portato via il Signore e non sappiamo dove l’hanno posto». Pietro entra nel sepolcro, vede le bende e il sudario piegato in un luogo a parte e ancora non capisce. Capisce però l’altro discepolo, più intuitivo e semplice, quello che Gesù amava. Egli «vide e credette», riferisce il Vangelo, perché i piccoli segni presenti nel sepolcro fecero nascere in lui la certezza che il Signore era risorto. Non ha avuto bisogno di un trattato di teologia, non ha scritto migliaia di pagine sull’evento. Ha visto piccoli segni, piccoli come quelli del presepio, ma è stato sufficiente perché il suo cuore era già preparato a comprendere il mistero dell’amore infinito di Dio.
Talora noi siamo alla ricerca di segni complicati, e va anche bene. Ma può bastare poco per credere se il cuore è disponibile e se si dà ascolto allo Spirito che infonde fiducia e gioia nel credere, senso di soddisfazione e di pienezza. Se siamo così semplici e disponibili alla grazia, entriamo nel numero di coloro cui è donato di proclamare quelle verità essenziali che illuminano l’esistenza e ci permettono di toccare con mano il mistero manifestato dal Verbo fatto carne. Sperimentiamo come la gioia perfetta è possibile anche in questo mondo, nonostante le sofferenze e i dolori di ogni giorno.
4/ Con san Francesco il presepe è promessa di pace, di Pietro Messa
Riprendiamo sul nostro sito un articolo offertoci da padre Pietro Messa. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Catechesi e liturgia e Francesco d’Assisi.
Il Centro culturale Gli scritti (9/12/2019)
Se l’incontro di san Francesco con il sultano al-Malek al-Malik è un’icona del dialogo, il presepe – la cui invenzione è attribuita sempre all’Assisiate – è un simbolo di identità. Eppure se letti con attenzione entrambi gli episodi sono un intreccio tra identità e dialogo e in ciò presentano la possibilità di cogliere un’occasione e affrontare una sfida dell’oggi.
1. Un racconto di passaggio nella Vita di san Francesco
Nel 1228 papa Gregorio IX canonizzò frate Francesco d’Assisi, ossia ne riconobbe canonicamente la santità mediante una prassi consolidatasi negli ultimi decenni. Da quel momento il figlio del mercante Pietro di Bernardone è per la Chiesa un modello da imitare, un intercessore da pregare e un maestro da ascoltare. Se l’intercessione, direttamente collegata all’aspetto taumaturgico cioè alla capacità di compiere miracoli, si esplicita soprattutto mediante la preghiera e in particolar modo la liturgia, quello esemplare è mediato dalla conoscenza di parole e fatti edificanti della sua esistenza narrati in un’opera da divulgare mediante la lettura.
Quindi “cose che devono essere lette”, “da leggersi” e ciò in latino si esprime semplicemente con legenda, ossia mediante il neutro plurale – che lascia sottinteso il termine res/cose – del gerundivo – aggettivo verbale di sola forma passiva che esprime dovere o necessità – del verbo legere. Come si suol dire “ogni traduzione è un tradimento” del testo e ciò vale anche con il latino legenda che nel termine italiano “leggenda” acquista il significato di racconto fantastico, realtà inventate, ossia favolose.
Certamente quando il papa Gregorio IX commissionò al frate Tommaso da Celano di scrivere la vita del nuovo santo non pensava assolutamente a narrazioni fantastiche o eteree, ma a un racconto delle opere e parole dell’Assisiate che facesse risaltare la sua santità. E quindi il Celanense si mise a scrivere non una cronistoria, ma una lettura teologica, cioè che considerasse l’azione della grazia del Signore, della storia ma senza eliminare quest’ultima.
Fu così che a soli due anni di distanza dalla sua morte ebbe origine la prima agiografia, ossia scrittura della santità, di san Francesco d’Assisi; l’autore lo denomina indifferentemente santo o beato, ma ciò non deve destare meraviglia perché la distinzione attuale tra santo – a cui è riservato un culto prescrittivo e universale ufficializzato mediante una canonizzazione – e beato – a cui è concesso un culto solamente indultivo e locale dopo la beatificazione – ha origine solo più tardi ossia nel Seicento[1].
Un’agiografia, quindi, in cui la lettura sapienziale della vita di san Francesco a volte è fatta mediante una riflessione logica, ma più spesso tramite il genere letterario narrativo. E così, soprattutto per narrare la gioventù e la conversione, l’autore non disdegna di attingere a modelli narrativi precedenti, come racconti biblici oppure di santi famosi quali Martino di Tours o Antonio abate.
C’è da considerare che se per quanto accadde nei primi decenni della vita dell’Assisiate si potevano assumere modelli precedenti, forzando a volte la storia – anche se per dire il vero in vari casi è la forza della storia che deforma tale stile agiografico – ciò risultava più difficile, per non dire impossibile, per gli episodi più recenti che potevano essere accaduti solo pochi anni prima. In fondo Tommaso da Celano scrive quando frate Francesco è morto solo da un paio d’anni.
Il testo della Vita beati Francisci fu pronto nel 1228-1229; come incastonate tra un prologo e i miracoli, le due parti che la compongono narrano rispettivamente dall’infanzia al 1223 e dalla permanenza a la Verna nel 1224 fino alla morte e canonizzazione.
Quasi fosse un racconto di passaggio, al termine della prima parte è narrato ciò che accadde nella notte di Natale del 1223 a Greccio. L’anno è altamente significativo: infatti il 29 novembre mediante la bolla Solet annuere papa Onorio III dal Palazzo di San Giovanni in Laterano – abitazione in quel tempo dei papi durante i periodi di dimora a Roma – aveva approvato la Regola del frati Minori, tanto che viene normalmente denominata Regola bollata, per distinguerla da redazioni precedenti che non giunsero alla conclusione dell’iter di conferma.
Alcuni giorni successivi, quasi a completamento dell’atto precedente, sempre Onorio il 18 dicembre scriveva la Fratrum minorum in cui affermava non solo che dopo la professione nessun frate poteva abbandonare l’Ordine, ma che chiunque l’avesse fatto doveva essere evitato e denunciato come uno scomunicato.
2. Della mangiatoia che preparò nel giorno della natività del Signore
Tommaso da Celano circoscrive bene l’episodio – non c’è nessun “c’era una volta” come iniziano le favole e le leggende nel significato attuale, come spiegato sopra – dandone le coordinate storiche: a Greccio, tre anni prima della morte avvenuta nel 1226, circa quindici giorni prima del Natale, cioè attorno al 10 dicembre 1223. Quindi in quell’anno con buona probabilità frate Francesco nell’Avvento, tempo di quattro settimane che prepara al Natale, da Roma giunse nella valle di Rieti per celebrare la festa della natività a Greccio descritta con attenzione dall’autore della vita del Santo, composta circa cinque anni dopo lo svolgersi dei fatti.
«La sua aspirazione più alta, il suo desiderio dominante, la sua volontà più ferma era di osservare perfettamente e sempre il santo Vangelo e di seguire fedelmente con tutta la vigilanza, con tutto l’impegno, con tutto lo slancio dell’anima e il fervore del cuore l’insegnamento del Signore nostro Gesù Cristo e di imitarne le orme.
Meditava continuamente le sue parole e con acutissima attenzione non ne perdeva mai di vista le opere. Ma soprattutto l’umiltà dell’incarnazione e la carità della passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente voleva pensare ad altro.
A questo proposito dobbiamo raccontare, richiamando devotamente alla memoria, quello che realizzò tre anni prima della sua gloriosa morte, a Greccio, il giorno del Natale di nostro Signore Gesù Cristo.
C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa quindici giorni prima della festa della Natività, il beato Francesco lo fece chiamare, come faceva spesso, e gli disse: «Se vuoi che celebriamo a Greccio l’imminente festa del Signore, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei fare memoria di quel Bambino che è nato a Betlemme, e in qualche modo intravedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato; come fu adagiato in una mangiatoia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello». Appena l’ebbe ascoltato, quell’uomo buono e fedele se ne andò sollecito e approntò, nel luogo designato, tutto secondo il disegno esposto dal santo.
E giunge il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza! Per l’occasione sono qui convocati frati da varie parti; uomini e donne del territorio preparano festanti, ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per rischiarare quella notte, che illuminò con il suo astro scintillante tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine il santo di Dio e, trovando che tutto é stato predisposto, vede e se ne rallegra. Si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello. In quella scena si onora la semplicità, si esalta la povertà, si loda l’umiltà. Greccio é divenuto come una nuova Betlemme.
Questa notte é chiara come pieno giorno e deliziosa per gli uomini e per gli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al rinnovato mistero. La selva risuona di voci e le rupi echeggiano di cori festosi. Cantano i frati le debite lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia.
Il santo di Dio é lì estatico di fronte alla mangiatoia, lo spirito vibrante pieno di devota compunzione e pervaso di gaudio ineffabile. Poi viene celebrato sulla mangiatoia il solenne rito della messa e il sacerdote assapora una consolazione mai gustata prima.
Francesco si veste da levita, perché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora é un invito per tutti a pensare alla suprema ricompensa. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva pronunciare Cristo con il nome di «Gesù», infervorato d’immenso amore, lo chiamava «il Bambino di Betlemme», e quel nome «Betlemme» lo pronunciava come il belato di una pecora, riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto. E ogni volta che diceva «Bambino di Betlemme» o «Gesù», passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e deglutire tutta la dolcezza di quella parola.
Vi si moltiplicano i doni dell’Onnipotente, e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. Vide nella mangiatoia giacere un fanciullino privo di vita, e Francesco avvicinarglisi e destarlo da quella specie di sonno profondo. Né questa visione discordava dai fatti perché, a opera della sua grazia che agiva per mezzo del suo santo servo Francesco, il fanciullo Gesù fu risuscitato nei cuori di molti, che l’avevano dimenticato, e fu impresso profondamente nella loro memoria amorosa. Terminata quella veglia solenne, ciascuno tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia.
Il fieno che era stato collocato nella mangiatoia fu conservato, perché per mezzo di esso il Signore guarisse nella sua misericordia i giumenti e gli altri animali. E davvero é avvenuto che, nel territorio circostante, molti animali, colpiti da diverse malattie, mangiando di quel fieno furono da esse liberati. Anzi, anche alcune donne, durante le doglie di un parto lungo e doloroso, ponendosi addosso un poco di quel fieno, hanno felicemente partorito. Alla stessa maniera numerosi uomini e donne sono stati guariti da molti mali.
Oggi quel luogo è stato consacrato al Signore, e sopra la mangiatoia è stato costruito un altare ed e` stata dedicata una chiesa in onore del beatissimo padre Francesco, affinché là dove un tempo gli animali mangiarono il fieno, ora gli uomini possano mangiare, per la salute dell’anima e del corpo, la carne dell’Agnello immacolato e incontaminato, Gesù Cristo nostro Signore, che con infinito e ineffabile amore ha donato se stesso per noi; e ora con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna eternamente glorificato nei secoli dei secoli. Amen.
Termina la parte prima della Vita e delle opere del beato Francesco».[2]
3. Il tutto nel frammento
Tommaso da Celano innanzitutto contestualizza l’episodio nella scelta esistenziale di Francesco d’Assisi da lui stesso ricordata e trasmessa ai frati poco prima di morire nel Testamento, ossia «vivere secondo la forma del santo Vangelo»[3] seguendo le orme del Signore nostro Gesù Cristo (cf. 1Pt 2,21). Quindi non si tratta di una imitazione mediante una osservanza letterale e pedissequa del dettato evangelico, ma come ha ben illustrato André Vauchez, di un “osservare spiritualmente” il Vangelo; infatti per l’Assisiate la lettera era importante – tanto da avere davanti ad essa un atteggiamento quasi integralista – però non per se stessa, ma in quanto mediante essa è possibile accedere alla Parola che è “spirito e vita”.
Proseguendo il racconto l’autore richiama l’importanza della memoria: infatti, usandone il toponimico, si deve riconoscere che Francesco di Pietro di Bernardone, il figlio del mercante, pur non essendo un acculturato come ad esempio il coevo Antonio di Padova, era alfabetizzato, cioè capace di leggere e scrivere. Per una persona di una cultura bassa o mediocre, simile alla sua, fondamentale risultava la memoria, luogo mediante cui ritenere le nozioni. A tale condizione, dovuta a un fatto culturale, Francesco darà un valore spirituale affermando che è dovere del credente ritenere a memoria le parole del Signore mentre colui che vuole toglierle dalla memoria facendole dimenticare è nientemeno che il diavolo.
Il centro dell’affezione di Francesco è il Signore Gesù Cristo e la sua fu una scelta non semplicemente religiosa o spirituale, ma precisamente cristiana nella Chiesa; e per questo volle celebrare solennemente il Natale. Per fare ciò coinvolge uno dei tanti laici che erano affascinati dalla sua proposta di vita, un certo Giovanni; non secondaria l’affermazione che era un nobile. Sappiamo che il giovane Francesco viveva fortemente il desiderio tipico della sua classe ormai arricchitasi, e quindi anche di suo padre, di diventare nobile, cioè cavaliere. Tanto era forte tale aspettativa che ne fece un vero e proprio stile di vita vivendo una vera e propria ideologia cavalleresca pur non appartenendo a tale ceto che in quei tempi vedeva spesso i proprio beni erosi proprio dai mercanti! Anche dopo il cambiamento di vita per seguire le orme di Gesù tale aspetto non scomparve del tutto, ma rimase assumendo le caratteristiche della cultura cortese[4]. Quindi non si è lontano dal vero nel dire che frate Francesco non era nobile come Giovanni, ma entrambi erano accomunati da quel’afflato culturale fatto di cortesia e gentilezza che si intravvede anche nel racconto di Tommaso da Celano.
Il Santo d’Assisi desidera “fare memoria di quel Bambino che è nato a Betlemme”: l’espressione richiama la liturgia eucaristica in cui appellandosi al dettato del Vangelo è riportato l’invito di Gesù a compiere quanto da lui fatto nell’ultima cena “in memoria” di lui. Quindi molto di più di un semplice ricordare, ma un compiersi di nuovo di quanto compiutosi nel passato, o meglio ancora un rendersi presente e contemporaneo l’atto salvifico di Cristo. Quanto avvenuto a Betlemme, ossia nella storia, raggiunge la storia di Francesco, ma anche quella dell’agiografo e del lettore, fino a noi oggi che stiamo considerando tale evento. Accanto a ciò vi è il desiderio di Francesco di “in qualche modo intravedere con gli occhi del corpo”. Per l’Assisiate il vedere con gli occhi del corpo è essenziale; come si intravvede nei suoi scritti in lui vi è un’elementare capacità speculativa, ma più importante è l’aspetto plastico del vedere. Un vedere che come afferma nella prima Ammonizione riferendosi al pane eucaristico può fermarsi a se stesso oppure approfondirsi nel credere che non esclude il vedere – come normalmente si pensa – ma diventa un vedere più profondo. Infatti per Francesco la salvezza sta nell’accompagnarsi del vedere al credere ossia dell’affiancarsi agli occhi del corpo gli occhi dello spirito[5].
A Greccio vuole vedere “i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato”, cioè l’abbassamento di colui che i cieli e la terra non possono contenere nella condizione umana. Si tratta di quel cammino di abbassamento compiuto da Gesù che affascina Francesco tanto da volerlo seguire in tale via facendosi fratello minore. Tale discesa è fino ad essere “adagiato in una mangiatoia”: l’originale latino è praesepe e tale termine risulta già così caratterizzante che darà il nome a tutto l’avvenimento della natività. Importante ricordare che certe immagini raffigurano tale mangiatoia ben squadrata e in pietra come una piccola tomba, mentre il bambino Gesù, fasciato al modo di un morto, è nell’atto di esservi posto: il tutto risulta un richiamo della Pasqua sia come anticipo della deposizione nel sepolcro, ma anche di uscita da esso nel momento della resurrezione.
A questo punto della narrazione sono menzionati anche “il bue e l’asinello”, una presenza sconosciuta nei Vangeli ma ben presente nella letteratura dei Padri della Chiesa; e questo conferma che se l’aspetto evangelico fu uno degli strati culturali e spirituali di frate Francesco d’Assisi, ad esso va affiancato quello patristico-liturgico tanto che lo stesso Vangelo egli lo ascolta e riceve mediato dalla liturgia[6]. L’origine biblica dell’asino e il bue è il passo del profeta Isaia in cui si afferma che «il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende» (Is 1,3); saranno i commenti successivi a dire che con essi sono raffigurati gli ebrei circoncisi che portano il giogo della legge e i gentili, ossia gli incirconcisi. Tale presenza presso la mangiatoia dell’asino e il bue quindi è un annuncio della redenzione rappacificante compiuta dalla Pasqua, come san Paolo ben sintetizza nella sua lettera agli Efesini:
Perciò ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi perché tali sono nella carne per mano di uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio[7].
Quindi l’asino e il bue presso la mangiatoia sono una promessa di pace che si compirà con l’accoglienza della Pasqua!
Tommaso da Celano continua narrando che in quella notte quanti arrivarono per festeggiare il Natale portavano “ceri e fiaccole per rischiarare quella notte”, proprio come avveniva nelle chiese per le celebrazioni e quindi il contesto è quello liturgico in cui – come già ricordato – il “memoriale” è incontro tra passato e presente. Infatti Tommaso da Celano afferma semplicemente che “Greccio è divenuto come una nuova Betlemme” in cui gaudio, canti, lodi, cori festosi si intrecciano davanti al “rinnovato mistero”.
Il centro di tutto è la santa Messa celebrata mediante un altare portatile sulla mangiatoia; il Vangelo è cantato da san Francesco e ciò, afferma l’agiografo, perché era diacono. Più precisamente il termine latino usato è levita, evidenziato dal fatto che l’Assisiate “si veste da levita”: a questo proposito sorge la domanda circa il fatto che frate Francesco fosse diacono. Certamente non era sacerdote; tuttavia nei suoi scritti distinguendo i laici dai chierici egli si colloca tra quest’ultimi; inoltre scrivendo ai chierici usa la prima persona plurale considerandosi come uno di loro. Ma questo potrebbe essere usato anche nel caso di chierici minori che avevano ricevuto semplicemente la tonsura, ossia il caratteristico taglio circolare dei capelli che portavano i membri del clero. Ma proprio l’uso che Tommaso da Celano fa del termine levita – che in quel tempo era sinonimo di diacono, tanto che si definiva san Lorenzo levita et martyr, così come si celebrava sanctus Stefanus novi testamenti levita primus et martyr – delucida che la consapevolezza di frate Francesco di essere chierico gli derivava dall’essere diacono. E come detto sopra Tommaso scrive a pochi anni dalla morte dell’Assisiate e se poteva con una certa libertà narrare la giovinezza o episodi di poco rilievo, un fatto così evidente non poteva essere raccontato senza incorrere nella smentita di coloro che lo conobbero.
Come diacono Francesco percepisce il compito di annunciare il Vangelo e così “parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme”. Questa città di Giuda è ripetuta spesso e al lettore o ascoltatore attento non passava inosservato che proprio in quella erano in atto lotte per la riconquista dei luoghi santi in cui si svolse la vicenda terrena di Gesù. E impossibilitati a raggiungere quei luoghi gradualmente avvenne una vera e propria translatio terrae sanctae mediante la ricostruzione dei luoghi santificati da Gesù in Occidente: così – giusto per fare qualche esempio – la casa di Nazareth fu portata a Loreto, il Calvario alla Basilica di Santa Croce in Roma e il Cenacolo nella Basilica Lateranense.
La predicazione del Santo è descritta come infervorata, quasi teatrale: la finale di Betlemme diviene come un belato di pecora, il nome di Gesù come una dolcezza per cui “passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e deglutire tutta la dolcezza di quella parola”. Ciò corrisponde esattamente alla modalità propria di frate Francesco di predicare: non secondo l’ars praedicandi che si dilettava ad esempio in distinzioni erudite cadendo il predicatore spesso nell’autocompiacimento, ma secondo l’ars concionandi propria di coloro che arringavano il popolo in piazza. A Greccio Francesco mediante il “concione”, ossia un discorso pubblico, cercava di trasmettere agli uditori non solo il contenuto del Natale ma anche un clima emotivo così da suscitare l’affezione della gente al bambino Gesù.
Il racconto termina con la narrazione di una visione avuta da uno dei presenti, ossia che un bambino privo di vita giacente nella mangiatoia fu risvegliato da san Francesco da un “sonno profondo”. L’agiografo fa la sua interpretazione dicendo che ciò ben rappresentò quanto avvenne grazie al Santo, ossia che “il fanciullo Gesù fu risuscitato nei cuori di molti, che l’avevano dimenticato, e fu impresso profondamente nella loro memoria amorosa”. La celebrazione del Natale a Greccio diventa benedizione e così grazie al solo contatto con il fieno che in quella notte fu posto nella mangiatoia diverse donne “hanno felicemente partorito”. La celebrazione del natale di Gesù è diventata la grazia di una felice nascita per l’uomo!
Presto il luogo stesso divenne un memoriale e al posto della mangiatoia con l’asino e il bue fu costruito un altare e edificata una chiesa perché – come scrive frate Francesco nella prima Ammonizione – ogni giorno il Signore nel’Eucaristia possa scendere tra gli uomini così da rimanere sempre in mezzo a loro.
4. Francesco d’Assisi, Tommaso da Celano e Joseph Ratzinger: il santo e l’agiografo sotto la lente del teologo
Quanto avvenuto a Greccio nella notte di Natale del 1223 è stato narrato, raffigurato e persino cantato più volte. Molto significative risultano le diverse letture e interpretazioni e tra queste si distingue quella dell’allora cardinal Joseph Ratzinger – che nel 2005 sarà eletto papa assumendo il nome pontificio di Benedetto XVI – dal significativo titolo Il bue e l'asino del presepe:
«A Natale ci auguriamo di cuore che in mezzo a tutta la frenesia del presente questo tempo di festa ci porti in dono un pò di riflessione e di gioia, di contatto con la bontà del nostro Dio e quindi nuovo coraggio per andare avanti.
All’inizio di una piccola riflessione su quello che la festa ci può dire oggi, un breve sguardo all’origine della celebrazione natalizia può esserci di grande aiuto. L’anno liturgico della Chiesa innanzitutto non si è sviluppato guardando alla nascita di Cristo, ma dalla fede nella sua risurrezione. Per questo la festa più antica della cristianità non è il Natale, ma la Pasqua. In effetti solo la risurrezione del Signore ha fondato la fede cristiana e ha così dato origine alla Chiesa.
Per questo già Ignazio di Antiochia (morto al più tardi verso il 117 d.C.) definisce i cristiani come “coloro che non osservano più il sabato, ma vivono secondo il giorno del Signore”: essere cristiani significa vivere in maniera pasquale, in virtù della risurrezione, che viene celebrata settimanalmente nella festa pasquale della domenica.
Il primo ad affermare con certezza che Gesù nacque il 25 dicembre è stato Ippolito di Roma nel suo commento a Daniele, scritto verso il 204; Bo Reicke, già professore di esegesi a Basilea, ha inoltre richiamato l’attenzione sul calendario festivo, secondo il quale nel vangelo di Luca i racconti della nascita del Battista e della nascita di Gesù sono legati fra loro. Se ne potrebbe dedurre che Luca presuppone già nel suo vangelo la data del 25 dicembre come giorno della nascita di Gesù. Allora in quel giorno si celebrava la festa della dedicazione del tempio istituita da Giuda Maccabeo nel 164 a.C. La data della nascita di Gesù verrebbe allora a simbolizzare che con lui, apparso come luce di Dio nella notte invernale, si realizzava veramente la consacrazione del tempio - l’avvento di Dio su questa terra.
Comunque stiano le cose, la festa del Natale ha assunto una fisionomia chiara nella cristianità solo nel secolo IV, allorché essa prese il posto della festa romana del “Sol invictus” e insegnò a concepire la nascita di Cristo come la vittoria della vera luce; il materiale raccolto da Bo Reicke ha dimostrato che questa trasformazione di una festa pagana in solennità cristiana ha fatto tesoro di un’antica tradizione giudeo-cristiana.
Tuttavia il calore umano particolare, che tanto ci commuove nella festa di Natale fino al punto d’aver sopravanzato nel cuore della cristianità la Pasqua, si è sviluppato soltanto nel Medioevo, allorché Francesco d’Assisi, profondamente innamorato dell’uomo Gesù, del Dio-con-noi, introdusse questo nuovo elemento. Il suo primo biografo, Tommaso da Celano, racconta così nella Vita Seconda: “Più di qualsiasi altra festa Francesco celebrava con una gioia indescrivibile il Natale. Diceva che questa era la festa delle feste, perché in questo giorno Dio è diventato un bambinello e ha succhiato il latte come tutti gli altri bambini. Abbracciava con tenerezza e trasporto le immagini che rappresentavano Gesù Bambino e pronunciava pieno di compassione parole dolci come i pargoli. Sulle sue labbra il nome di Gesù era dolce come il miele”.
Da questa sensibilità scaturì poi la famosa celebrazione del Natale a Greccio, forse ispirata a Francesco dal suo pellegrinaggio in Terra Santa e al presepio di Santa Maria Maggiore in Roma.
Egli fu spinto dalla sua sete di vicinanza, di realtà, dal suo desiderio di rivivere in maniera quanto mai attuale Betlemme, di sperimentare direttamente la gioia della nascita del Bambino Gesù e di trasmetterla a tutti i suoi amici.
Nella sua prima biografia Celano parla della notte del presepio in un modo che rimane sempre toccante per la gente e che ha dato un contributo decisivo alla diffusione della più bella delle usanze natalizie, quella del presepio. A buon diritto possiamo dunque dire che la notte di Greccio ha ridonato alla cristianità la festa del Natale, così che il suo messaggio più autentico, il suo particolare calore e la sua umanità, l’umanità del nostro Dio, ha potuto comunicarsi alle anime e donare alla fede una nuova dimensione.
La festa della risurrezione aveva concentrato lo sguardo sulla potenza di Dio che vince la morte e ci insegna a sperare nel mondo che verrà. Ma ora veniva messo in evidenza l’amore inerme di Dio, la sua umiltà e la sua bontà che si manifesta in questo mondo in mezzo a noi e si propone di insegnarci un nuovo modo di vivere e di amare. Forse può essere utile fermarci ancora un attimo su questo punto e chiedere: dove si trova questa Greccio, che si è caricata di un significato tanto grande per la storia della fede? Si tratta di una piccola località nella valle retina, in Umbria [!], situata a non troppa distanza da Roma, a nord est della città. Laghi e montagne hanno conferito a questo paese il suo particolare fascino e la sua silenziosa bellezza, che riesce a commuoverci ancor oggi, tanto più che non è quasi stato toccato dalla confusione del turismo di massa. Il convento di Greccio, situato a 638 metri di altezza, ha conservato qualcosa della semplicità delle origini; è rimasto modesto, come il paesello ai suoi piedi. La foresta lo circonda come ai tempi del Poverello e ci invita a sostare e a riflettere. Celano ricorda che Francesco aveva una particolare predilezione per gli abitanti di questa località, proprio per la loro povertà e semplicità; egli sarebbe quindi venuto spesso da quelle parti per riposarsi , attratto anche da una cella estremamente povera e isolata, in cui poteva dedicarsi indisturbato alla contemplazione delle cose celesti.
Povertà, semplicità, silenzio dell’uomo e parlare della creazione: erano certo queste le impressioni che per il Santo di Assisi si legavano a questo luogo. Esso divenne così la sua Betlemme e potè inscrivere nuovamente il mistero di Betlemme nella geografia delle anime.
Ma torniamo al Natale del 1223. Il terreno di Greccio era stato messo a disposizione del Poverello di Assisi da un nobile signore di nome Giovanni che, stando alle parole di Celano, per quanto di alto lignaggio e malgrado la sua posizione elevata, “non annetteva alcuna importanza alla nobiltà del sangue e cercava piuttosto di raggiungere la nobiltà dell’anima”, tanto da meritarsi l’affetto di Francesco.
Orbene, a proposito di questo Giovanni, Celano racconta che in quella notte egli ebbe la grazia di una visione meravigliosa. Vide immobile nella mangiatoia un bambinello, che fu risvegliato dal suo sonno dalla vicinanza di san Francesco. E aggiunge: “Questa visione corrispondeva realmente a quanto stava avvenendo, perché fino a quel momento Gesù Bambino era effettivamente caduto nel sonno della dimenticanza in molti cuori. Mediante il suo servo Francesco il suo ricordo venne ravvivato e impresso indelebilmente nella memoria”. Questo quadro descrive con molta precisione la nuova dimensione, che mediante la sua fede viva e commossa, Francesco conferì alla festa cristiana del Natale: la scoperta della rivelazione di Dio racchiusa precisamente nel Bambino Gesù.
Proprio così Dio è davvero diventato “Emmanuele”, Dio-con-noi, da cui non ci separa alcuna barriera di eccellenza e di lontananza:come bambino si è fatto così vicino che possiamo dargli tranquillamente del tu e accedere direttamente al suo cuore infantile.
Nel Bambino Gesù si manifesta al massimo l’inermità dell’amore di Dio: Dio viene senza armi, perché non intende conquistare dall’esterno, bensì guadagnare e trasformare dall’interno.
Se qualcosa è capace di vincere l’uomo, il suo despotismo, la sua violenza, la sua avidità, questa è l’inermità del bambino. Dio l’ha assunta per vincerci in questo modo e condurci a noi stessi. Al riguardo non dimentichiamo che il massimo titolo di Gesù Cristo è quello di “Figlio”, di Figlio di Dio; la dignità divina viene indicata con un termine, che presenta Gesù come il bambino perenne. La sua condizione di bambino corrisponde in una maniera unica alla sua divinità, che è la divinità del “Figlio”.
Perciò essa è un’indicazione del modo in cui possiamo pervenire a Dio, alla divinizzazione. In questa luce vanno comprese le sue parole: “Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3). Chi non ha compreso il mistero di Natale, non ha compreso la cosa decisiva del cristianesimo. Chi non l’ha accettato, non può entrare nel regno dei cieli. È questo che Francesco volle ricordare alla cristianità del suo tempo e di tutte le epoche successive.
Seguendo le direttive di san Francesco, durante la Santa Notte furono sistemati nella grotta di Greccio un bue e un asino. Egli aveva infatti detto al nobile Giovanni: “Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. Da allora il bue e l’asino fanno parte di tutti i presepi. Ma donde deriva questa usanza? Com’è noto, i racconti natalizi del Nuovo Testamento non ne fanno parola. Se approfondiamo questa domanda, scopriamo un particolare importante sia per le usanze natalizie, sia per la spiritualità liturgica e popolare natalizia e pasquale della Chiesa.
Il bue e l’asino non sono semplici prodotti della pietà e della fantasia, ma sono diventati ingredienti dell’evento natalizio a motivo della fede della Chiesa nell’unità dell’Antico e del Nuovo Testamento. In Isaia 1,3 leggiamo infatti: “il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende”. I padri della Chiesa videro in queste parole una profezia che fa riferimento al nuovo popolo di Dio, alla Chiesa composta di giudei e pagani. Davanti a Dio tutti gli uomini, giudei e pagani, erano come buoi ed asini, privi di intelligenza e conoscenza. Ma il Bambino nella mangiatoia ha aperto loro gli occhi, cosicché ora essi riconoscono la voce del proprietario, la voce del loro Signore.
Nelle rappresentazioni medioevali del Natale vediamo come i due animali abbiano quasi volti umani, come si inchinino consapevoli e rispettosi davanti al mistero del Bambino. Ciò era perfettamente logico, perché essi avevano il valore di segno profetico dietro cui si nasconde il mistero della Chiesa, il nostro mistero, secondo il quale noi che di fronte all’eterno siamo buoi e asini, buoi e asini cui nella Notte Santa sono stati aperti gli occhi, si chè ora riconoscono nella mangiatoia il loro Signore. Ma lo riconosciamo realmente? Quando collochiamo nel presepio il bue e l’asino, dobbiamo rammentarci tutte le parole di Isaia, che non sono solo vangelo – cioè promessa della futura conoscenza -, bensì anche giudizio sull’accecamento attuale. Il bue e l’asino riconoscono, ma “Israele non conosce e il mio popolo non comprende”. Chi sono oggi il bue e l’asino, chi “il mio popolo” che non comprende? Da che cosa si riconoscono il bue e l’asino, da che cosa si riconosce “il mio popolo”? Perché mai gli esseri privi di ragione riconoscono e la ragione è ceca? Per trovare una risposta dobbiamo tornare ancora una volta con i Padri della Chiesa al primo Natale. Chi non riconobbe? Chi riconobbe? E perché ciò si verificò? Orbene, a non riconoscere fu Erode. Egli non comprese nulla quando gli parlarono del Bambino, anzi, fu ancora più accecato dalla sua sete di potere e dalla conseguente mania di persecuzione (Mt 2,3). A non riconoscere fu “tutta Gerusalemme con lui” (ivi). A non riconoscere furono i dotti, i conoscitori delle Scritture, gli specialisti dell’interpretazione che conoscevano con esattezza il passo biblico giusto e tuttavia non compresero nulla (Mt 2,6). A riconoscere furono invece “il bue e l’asino” – se paragonati con queste persone rinomate -: i pastori, i magi, Maria e Giuseppe. Poteva mai essere diversamente? Nella stalla, dove è lui, non abitano le persone raffinate, lì sono di casa appunto il bue e l’asino.
E la nostra posizione qual è? Siamo tanto lontani dalla stalla appunto perché siamo troppo raffinati e intelligenti per questo? Non ci perdiamo anche noi in una dotta esegesi biblica, nei tentativi di dimostrare l’inautenticità o l’autenticità storica di un certo passo, al punto da divenire ciechi nei confronti del Bambino e non percepire più nulla di lui? Non viviamo anche noi troppo in “Gerusalemme”, nel palazzo, racchiusi in noi, nella nostra autonomia, nella nostra paura di persecuzione, sì da non riuscire più a percepire di notte la voce degli angeli, unirci ad essa e adorare?
In questa notte i volti del bue e dell’asino ci rivolgono perciò questa domanda: il mio popolo non comprende, comprendi tu la voce del tuo Signore? Quando collochiamo le statuine nel presepio, dovremmo pregare Dio di concedere al nostro cuore quella semplicità che riconosce nel Bambino il Signore, come fece una volta Francesco a Greccio. Allora potrebbe succedere anche a noi quanto Tommaso da Celano, quasi con le stesse parole di san Luca relative ai pastori del primo Natale (Lc 2,20), dice dei partecipanti alla messa di mezzanotte di Greccio: tutti se ne tornarono a casa pieni di gioia»[8].
Note al testo
[1] Cfr. Congregazione delle Cause dei Santi, Le cause dei santi, Città del Vaticano 2011, pp. 181-182.
[2] Francesco d’Assisi, Testamento, 14 in Fonti Francescane. Nuova edizione, a cura di E. Caroli, Padova 2004, n.116 (d’ora in poi sarà usata l’abbreviazione FF).
[3] Tommaso da Celano, Vita del beato Francesco, 84-87: FF 466-471.
[4] Cfr. P. Messa, Francesco il misericordioso, Milano 2018.
[5] Cfr. C. Vaiani, Vedere e credere. L’esperienza cristiana di Francesco d’Assisi, Milano 2000.
[6] Cfr. P. Messa, Le fonti patristiche negli scritti di Francesco di Assisi, prefazione di G. Miccoli, Assisi 2006.
[7] Efesini 2,11-19.
[8] J. Ratzinger, Immagini di speranza. Le feste cristiane in compagnia del Papa, Cinisello Balsamo 2005.