[La Maestà di Duccio di Buoninsegna]. La Maestà della vita, di Mariella Carlotti
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi la trascrizione di una relazione di Mariella Carlotti pubblicata il 21/7/2005. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Arte e fede e I luoghi della storia della chiesa.
Il Centro culturale Gli scritti (16/11/2019)
Ricostruzione virtuale del lato anteriore
Avevo studiato la Maestà negli anni dell’Università e credevo di saperne abbastanza. Ma tra il sapere una cosa e il conoscerla c’è di mezzo un avvenimento, un incontro che, d’improvviso, ti fa penetrare nel suo significato. Abitavo nella campagna senese all’inizio degli anni Novanta quando venne a trovarci un amico, di ritorno dal Messico.
Mentre si mangiava insieme, cominciò a raccontarci quel suo ultimo viaggio. Era rimasto in particolare impressionato dalla visita che aveva fatto ad una vasta area archeologica atzeca. La guida li aveva accompagnati a vedere una serie di templi, visitati dal più antico al più recente. Il mio amico era rimasto impressionato dall’immagine della divinità raffigurata nei templi: erano dèi mostruosi, nemici da placare col sangue di vittime innocenti.
E man mano che il tempo passava, in ogni nuovo tempio in cui entravano questa mostruosità si approfondiva. Entrando nell’ultimo tempio – raccontava – si era quasi spaventato davanti alla terribilità del dio ed aveva domandato alla guida di che epoca fosse quell’immagine. «È dell’inizio del 1300», aveva risposto.
La commozione aveva preso allora, nell’animo del mio amico, il posto dello spavento: mentre un ignoto artista atzeco scolpiva quell’immagine terribile del dio, dall’altra parte dell’oceano, a Siena, Duccio rappresentava, nella sua Maestà, il Mistero come un Bambino in braccio a sua madre. Mi accorsi, come un po’ d’improvviso, che la normalità è quella degli antichi Atzechi: l’uomo non riesce a rimanere fedele alla positività del suo primo sguardo al reale: subito inizia l’inesorabile decadenza verso la mostruosità con cui si sente Dio, cioè l’essere, la realtà.
Lo straordinario, l’impossibile all’uomo è la dolcezza di Duccio. Il giorno dopo andai a Siena e guardai la Maestà, come non mi era mai capitato, sentendo tutta la umanissima “stranezza” di quel capolavoro, quella stranezza di cui l’Europa è figlia. Così in questi dieci anni ho ristudiato la Maestà, ne ho parlato agli amici, e ora nasce una mostra al Meeting.
FIGLIA Di STRADA, CITTÀ DELLA VERGINE
Il primo insediamento, come documenta il toponimo, è etrusco: Siena però non fu mai, per quella antica civiltà, un centro importante, ma probabilmente solo un villaggio nel percorso che univa le città della costa tirrenica, Volterra e Populonia, con quelle dell’interno, Arezzo, Cortona e Chiusi. D’altronde, le colline su cui sorge Siena dominano il valico più agevole tra la Valle dell’Elsa – affluente dell’Arno – e la Valle dell’Arbia – affluente dell’Ombrone – così radicalmente diverse nel loro paesaggio.
In epoca romana, la sorte di Siena resta quella di un centro minore, citato solo da Plinio e Tacito. È con l’arrivo nella nostra penisola dei Longobardi che il destino della città cambia radicalmente: Siena viene infatti a trovarsi lungo il tracciato della via Francigena o Romea, l’itinerario aperto dai nuovi dominatori dell’Italia per collegare i loro possedimenti settentrionali con Roma e i Ducati meridionali.
Vicino all’antico insediamento di Castelvecchio e Santa Maria – la Sena Vetus – sorgono, lungo la Francigena, i borghi di Camollìa e San Martino. La Siena attuale nasce dalla fusione di questi tre centri che diventano i suoi quartieri – il Terzo di Città, il Terzo di Camollìa e il Terzo di San Martino – uniti dalla grande arteria della viabilità altomedioevale, assumendo la caratteristica forma, che la segna tuttora, ad Y rovesciata. La genesi della città spiega perché Siena è spesso indicata dagli storici come la figlia della strada, seguendo la suggestiva intuizione di Sestan.
Dopo il Mille comincia il grande sviluppo della città, commerciale e demografico: l’ultima cinta muraria, quella del 1290, ha un perimetro di 6100 metri e racchiude un’area di 150 ettari. Il territorio di Siena, nel suo massimo sviluppo, si estende per 20 km a nord e per oltre 100 a sud.
Alla vigilia della battaglia di Montaperti, il 4 settembre 1260, (che fece l’Arbia colorata in rosso Inf. X, 85.87), che imprevedibilmente la vedrà vittoriosa sul ben più forte esercito fiorentino, Siena si consacrerà solennemente a Maria, dando forma definitiva ad una coscienza civica lentamente maturata.
La vittoria sui Fiorentini segna il momento aureo della città: Siena assume l’assetto attuale con la piazza del Campo nel punto di confluenza dei tre Terzi e il Palazzo Pubblico che la chiude come un’enorme, bellissima quinta; sul colle di Castelvecchio, punto più alto della città, il Duomo prende l’aspetto odierno, mentre di fronte acquista dimensioni grandiose l’antico Spedale di Santa Maria della Scala.
È Maria che dà unità ai tre borghi originari e li rende città: la Vergine Maria diventa l’ideale e la forma della città, il contenuto della sua autocoscienza e della sua immagine urbanistica: Sena vetus, civitas Virginis – Antica Siena, città della Vergine – viene inciso su ogni moneta che la Zecca senese conia per secoli.
Dice Burckhardt nella prefazione del suo celebre libro su Siena: «Nel titolo abbiamo chiamato Siena “città della Vergine”, perché questo è il nome che la città si attribuì ai tempi del suo massimo splendore ed anche perché, in realtà, il rapporto con la Santa Vergine traversa la storia senese come un filo conduttore».
La Chiesa proclamerà il dogma dell’Assunzione della Madonna solo nel 1950, ma a Siena questo misterioso e glorioso destino della Vergine è dal Medioevo coscienza comune del popolo. Alla Madonna Assunta è dedicato il Duomo, per Lei si corre il Palio, l’esplosione festosa delle contrade cittadine, Sunto è il nomignolo che familiarmente designa il Campanone della Torre del Mangia.
La coscienza del destino glorioso del corpo di Maria rende solleciti i Senesi verso i corpi dei loro fratelli malati, orfani, pellegrini e motiva la carità che anima gratuitamente le vaste sale, stupendamente affrescate dai grandi pittori della città, dello Spedale di Santa Maria della Scala. Il sigillo della Repubblica di Siena riportava l’immagine della Vergine con il Bambino con la scritta: «Conservi la Vergine l’antica Siena, che Lei stessa rende bella».
All’inizio del Trecento, quasi in contemporanea, i due più grandi artisti di Siena, nei due edifici fondamentali della città, danno a questo omaggio alla Vergine forma estetica definitiva nelle loro celeberrime Maestà: Duccio di Buoninsegna, nel 1311, consegna alla città la sua grande tavola per l’altare maggiore del Duomo; Simone Martini, nel 1315, porta a compimento l’affresco che ancora oggi decora la Sala del Mappamondo in Palazzo Pubblico.
DUCCIO DI BUONINSEGNA
Siena rappresenta nella storia dell’arte un punto nevralgico: è qui che nel Medioevo si sviluppa una scuola che, con una propria impronta originale, diversa da quella fiorentina o pisana, darà un contributo significativo alla nascita del nuovo linguaggio figurativo occidentale.
Duccio di Buoninsegna, a buon diritto, può essere considerato il primo grande maestro senese, in cui converge tutta una tradizione artistica che era venuta maturando a Siena nel Duecento. Certamente importante nella formazione di Duccio – e più in generale per la scuola senese – è la presenza, nel grande cantiere del Duomo, di tanti artisti come Nicola e Giovanni Pisano, dal cui linguaggio il nostro pittore resterà fortemente suggestionato.
Per spiegare la potenza creativa di Duccio occorre però mettere l’accento su una sua filiazione diretta da Cimabue, come anche la recente grande mostra “Duccio. Alle origini della pittura senese” (ottobre 2003 – marzo 2004) ha ribadito con forza.
È fiorentina la prima grande commissione di Duccio, che alcuni ipotizzano presente, accanto a Cimabue, nel grande cantiere della Basilica di Assisi. Questi dati, pur appena accennati, fanno legittimamente accostare la figura e l’opera di Duccio a quella di Giotto: i due pittori sono pressoché coetanei e dopo le prime prove alla fine del XIII secolo, daranno alla storia dell’arte occidentale, agli inizi del Trecento – il primo con la Maestà, il secondo con gli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova – due indimenticabili versioni della vita di Cristo, pur nella evidente diversità dei modi e delle sensibilità.
Il primo documento che riguarda Duccio, che si ipotizza essere nato intorno al 1255, è datato 16 novembre 1278: il pittore riceveva in quella data 40 lire dal Comune di Siena per aver dipinto dodici casse destinate a custodire atti pubblici. Anche negli anni successivi, dal 1286 al 1295, abbiamo documentazione di pagamenti fatti a Duccio quale compenso per aver dipinto tavolette di rilegatura dei registri della Biccherna, l’ufficio finanziario del Comune di Siena.
Non ci sono arrivate queste opere di Duccio che rivelano una concezione dell’arte così diversa dalla nostra e generata da una tensione al bello che tramava anche gli aspetti più quotidiani dell’esistenza. La prima grande opera certa di Duccio è la cosiddetta Madonna Rucellai, che con i suoi 4,5 metri di altezza è una tra le più grandi tavole del Duecento, conservata oggi agli Uffizi, e commissionata al pittore senese nel 1285 dalla compagnia dei Laudesi di S. Maria Novella di Firenze, unica opera certa eseguita fuori Siena da un pittore che per trenta anni dipingerà nella e per la sua città.
A Duccio sono ascrivibili altre importanti opere, tra la fine del Duecento e i primi anni del Trecento, tra le quali, conservate ancora a Siena, la Madonna di Crevole, oggi nel Museo dell’Opera del Duomo; la grande Vetrata per il Duomo di Siena; la Madonna dei Francescani, nella locale Pinacoteca, la Croce dipinta nella Collezione Salini. Bellissimo il Trittico di Londra che Cavalcaselle già nel 1864 riteneva, tra le opere di Duccio, seconda per importanza solo alla Maestà. Un documento del 4 dicembre del 1302 ci attesta il pagamento effettuato dal Comune di Siena a favore di Duccio per una tavola raffigurante una Maestà, destinata alla Cappella del Palazzo Pubblico, andata perduta.
Si arriva così al 1308 e all’incarico della Maestà per il Duomo, che impegnerà Duccio per quasi tre anni. Se così poco sappiamo dell’attività artistica di Duccio, molta della documentazione che è giunta fino a noi riguarda vicende di carattere personale che ci restituiscono un’immagine certo non esemplare del nostro artista, cittadino intemperante e amministratore poco oculato delle sue entrate, tanto che dopo la morte del pittore – avvenuta tra il 1318 e il 1319 – i sette figli dichiararono (il documento è datato 3 agosto 1319) di rinunciare all’eredità paterna. Alla sua eredità come pittore non rinunceranno però i maestri senesi del Trecento, come Simone Martini, Pietro ed Ambrogio Lorenzetti per citare i più grandi, che, sia pur diversamente, batteranno la strada da Duccio così suggestivamente aperta.
LA PIU’ BELLA TAVOLA CHE MAI SI VEDESSE
La grande tavola della Maestà per l’altare maggiore del Duomo fu commissionata a Duccio di Buoninsegna nel 1308. è datato infatti 9 ottobre 1308 il documento in cui l’Operaio e Amministratore dell’ Opera del Duomo di Siena messer Jacopo del fu Giliberto de’ Marescotti allogava a Duccio l’ancona per l’altare maggiore. Il pittore si impegnava a dipingerla quanto meglio potesse e sapesse e gli fosse concesso dal Signore - quam melius poterit et sciverit, et Dominus sibi largietur -, ad attendervi di continuo e a non assumere altri impegni sino a quando non l’avesse terminata. L’Operaio gli avrebbe corrisposto 16 soldi di denari per ogni giorno che il pittore vi avesse lavorato suis manibus.
Il capolavoro venne ultimato nella primavera del 1311 e il 9 giugno di quell’anno fu portato processionalmente dalla bottega di Duccio, in località Stalloreggi, fino al Duomo ove fu collocato sull’altare maggiore. Ben tre cronisti dell’epoca hanno fissato per sempre il movimento di coscienza ed emozione che attraversò in quel giorno l’animo dei senesi, mentre i documenti del Comune di Siena riportano annotazioni sulle somme corrisposte ai suonatori di trombe, di ciaramelle e di nacchere che parteciparono al corteggio. Un altro cronista, Agnolo di Tura, riferisce che la Maestà «fu la più bella tavola che mai si vedesse e facesse et chostò più di tremila fiorini d’oro»: è evidentemente una cifra iperbolica, ma la notazione del prezzo è comunque interessante e ci consente di documentare ulteriormente l’eccezionalità con cui i contemporanei sentirono la Maestà.
La grande tavola – le cui dimensioni erano imponenti, probabilmente circa cm. 370×450 – era dipinta su tutti e due i lati: il prospetto tutto dedicato a Maria, il retro a Cristo. Le storie di Cristo e della Vergine erano narrate in 53 scene alle quali vanno aggiunte altre 5 andate perdute ma che tutto rende legittimo ipotizzare fossero esistite; erano distribuite nella predella, nel coronamento (recto e verso) e nel tergo della parte centrale. L’insieme costituiva dunque il più grande ciclo di storie di Gesù e di Maria mai esistito.
Ricostruzione virtuale del lato posteriore
Nel 1506 la Maestà fu rimossa dall’Altare maggiore e posta in uno laterale. Nel 1771 la grande tavola venne smembrata: fu sezionata verticalmente in 7 parti, furono separate poi le due superfici dipinte.
Questi eventi determinarono la perdita totale della carpenteria della tavola, il danno irreparabile di molte parti che vennero malamente tagliate, la perdita di alcuni riquadri, la dispersione di altri (8 storiette e 2 profeti) , ora patrimonio di musei e collezioni estere.
Nel 1878, vennero ricomposti, separatamente, i due scomparti centrali del prospetto (Madonna in trono col Bambino, Angeli e Santi) e del retro (26 storie della Passione) e collocati, uno di fronte all’altro, in una sala interamente dedicata a Duccio, nel Museo dell’Opera del Duomo. Nella stessa sala, vennero collocate le 19 storie e i 4 profeti della predella e del coronamento, rimaste a Siena. In questa sede, sono ancora oggi visitabili.
La mostra intende riproporre al visitatore la Maestà così come doveva apparire nella sua veste originale. Innanzitutto perciò lo sguardo cadeva sul prospetto, tutto dedicato a Maria: dominava lo scomparto centrale con la Madonna nella gloria. La vita di Maria dall’Annunciazione al Ritrovamento di Gesù nel tempio era narrata nelle 7 storiette della predella, intervallate da 6 Profeti e Re dell’Antico Testamento.
Nel coronamento erano invece descritti gli ultimi giorni della vita di Maria, fino alla Morte e all’Assunzione nella gloria del Paradiso. Il tergo della grande tavola era invece tutto dedicato a Cristo: la narrazione prendeva le mosse, nella predella, con la vita pubblica di Gesù. Lo scomparto centrale, in 26 riquadri, riproponeva il mistero della Passione, della Morte e della Resurrezione di Cristo. Concludevano la narrazione le storiette del coronamento dedicate alle Apparizioni di Cristo dopo la Resurrezione fino alla Pentecoste.
«SII LA VITA DI DUCCIO»
Chi entrava nel Duomo di Siena era colpita dalla presenza di Maria e questa lo disponeva ad accorgersi di Cristo, la cui storia, come abbiamo visto, era narrata nel retro della grande tavola.
Forse una terzina che Dante, alludendo alla Vergine, fa dire a San Bernardo nel XXXII canto del Paradiso, ci viene in soccorso:
Riguarda omai ne la faccia che a Cristo
più si somiglia, ché la sua chiarezza
sola ti può disporre a veder Cristo.
Nel Trecento come oggi, questa è la strada attraverso cui un uomo diventa cristiano: incontrare e guardare una presenza umana, che porta nella sua fisionomia i tratti eccezionali di Cristo, il Verbo di Dio fatto carne.
Da ultimo, un particolare: sul gradino del trono della Vergine, Duccio ha voluto lasciare la sua firma come autore della pala in versi commoventi:
Mater Sancta Dei, sis causa senis requiei
Sis Ducio vita, te quia pinxit ita
(Santa Madre di Dio, sii la causa della pace di Siena, sii la vita di Duccio, perché ti ha dipinto così)
In questi versi c’è l’anima di un uomo medioevale che sente la sua opera parte del dialogo con la Madre di Dio, che prega per la sua città e chiede per sé la salvezza perché ha reso gloria alla Vergine dipingendola così bene. Sii la vita di Duccio, perché ti ha dipinto così: dietro queste parole si intuisce il dramma umano di Duccio: le scarse notizie biografiche delineano la figura di un uomo tutt’altro che integerrimo, con un’esistenza tormentata.
Eppure, in questa dedica, c’è tutta la certezza cristiana che il rapporto con il Mistero è molto più una tensione alla bellezza e un abbandono fiducioso alla misericordia che non una moralità irreprensibile. La speranza è nell’aver dipinto la Vergine così bella e non in una coerenza impossibile all’uomo peccatore.