1/ Cos’è il Palio di Siena: un’intervista di Giuseppe Rusconi allo storico Roberto Barzanti 2/ Duccio Balestracci - Il Palio di Siena. Una festa italiana
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1/ Cos’è il Palio di Siena: un’intervista di Giuseppe Rusconi allo storico Roberto Barzanti
Riprendiamo dal sito Rosso Porpora (https://www.rossoporpora.org/rubriche/cultura/106-palio-di-siena-intervista-allo-storico-barzanti.html) un’intervista di Giuseppe Rusconi allo storico Roberto Barzanti pubblicata nel luglio 2011, senza l’indicazione del giorno. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Arte e fede e I luoghi della storia della chiesa.
Il Centro culturale Gli scritti (17/11/2019)
Il ‘Palio di Siena’ è una manifestazione che ogni 2 luglio e ogni 16 agosto viene riproposta sia alle decine di migliaia di fortunati di Piazza del Campo che a milioni di telespettatori partecipi in tutta Italia. La breve corsa, preceduta dal Corteo storico delle contrade e da una ‘mossa’ di durata incerta, suscita ogni volta emozioni ed entusiasmi, ed anche contrarietà e rabbia da parte di chi la ritiene relitto di un tempo di barbarie. Le voci contrarie si sono manifestate anche stavolta, in relazione al Palio del 2 luglio, prendendo spunto soprattutto dalla morte del cavallo della Chiocciola (andato a sbattere nella quarta prova contro lo steccato di recinzione e il colonnino della curva di San Martino): c’è chi, da scranni governativi, ha addirittura prefigurato l’abolizione del Palio. Siamo persuasi che non tutti sanno che cos’è il Palio di Siena; non pochi credono che stia tutto in quel minuto o poco più di corsa. Per chiarirne origine (fondamentale l’aspetto religioso) e sviluppo, oltre che stato attuale, abbiamo incontrato il professor Roberto Barzanti. Già giovanissimo sindaco di Siena (1969-1974, poi eurodeputato e vicepresidente del Parlamento europeo, l’intellettuale settantaduenne ha sempre promosso con forza la cultura, quella storica, quella letteraria, quella della comunicazione audiovisiva. Leggiamo che cosa ha da dirci nell’ampia intervista che segue.
Professor Barzanti, si può considerare il Palio di Siena, date le sue caratteristiche, un po’ un unicum nel panorama italiano di quel tipo di manifestazioni?
Se consideriamo le feste civiche che nel loro cuore agonistico hanno qualcosa che assomiglia al Palio, mi sembra di poter dire – almeno come ipotesi, poiché potrei essere smentito da una manifestazione analoga che si tiene in qualche borgo stupendo a me sconosciuto - che il nostro è un unicum…
Dunque con caratteristiche proprie…
Sì e il primo fattore dell’unicità è per me la continuità…
Allora vediamo quando è nato il Palio…
Non è facile da definire con precisione. Ragionevolmente possiamo pensare agli anni tra la fine del XIII secolo e gli inizi del XIV come punto di partenza. Prima del Palio pare ci fosse già un Palio di San Bonifacio. Il Palio dell’Assunta è codificato in maniera chiara nello statuto del 1310: se qualcosa si codifica, vuol dire che già esiste. Dunque già alla fine del Duecento c’erano corse dei cavalli e forse anche prima; c’è chi si spinge fino a riti etruschi. Ma stiamo con i piedi per terra, nella terra in piazza, riferendoci solo a una corsa di cavalli. Ce n’erano del resto tante all’epoca in altre città, ad esempio a Firenze.
Il Palio agli inizi era alla lunga, da Porta Romana al Duomo. Solo in seguito si impose la forma attuale, quella del palio alla tonda…
Quando si dice che la prima caratteristica del Palio di Siena è la continuità, non si intende riferirsi a una continuità di una forma. In realtà il Palio fino a Cinquecento inoltrato era un palio alla lunga, mobile, aperto: non era un palio delle contrade e i signori facevano correre i loro fantini e i loro cavalli. Il palio alla lunga di agosto era seguito da uno ‘del giorno dopo’, il 16 agosto, che a poco a poco subentrò nel significato a quello del 15 in onore dell’Assunta; il palio invece in onore della Madonna di Provenzano, il 2 luglio, un palio alla tonda, si codifica attorno alla metà del Seicento. I due palii delle Madonne con il passare degli anni diventano sempre più simili, ambedue alla tonda, fino a quando vengono affidati nell’organizzazione al Comune di Siena (ciò accadde definitivamente nel 1802). Diventano cioè un’autentica festa pubblica, in cui si valorizza anche teatralmente l’identità cittadina, attraverso l’entrata in campo delle contrade, soggetti collettivi territoriali e associativi. Il ‘miracolo’ della continuità del Palio si deve proprio al fatto che l’eredità dell’antico palio alla lunga è stato affidato a tali organismi di forte radicamento identitario. Tanto che oggi è impossibile pensare al Palio senza far riferimento alle contrade.
Professor Barzanti, ritorniamo un momento all’importanza del fattore religioso nell’origine e nello sviluppo del Palio…
Il Palio ha molto a che fare con una religione civica e un calendario liturgico che a un certo punto incastonano nei tempi dell’anno la celebrazione, la festa per la Madonna Assunta, cui è consacrata la cattedrale – in base a una tradizione che mi sembra sostanzialmente verificata – nel 1179. Non è certo un caso che dal 1310 si dedichi un palio all’Assunta, che tutte le offerte vengano a lei dedicate… insomma l’elemento religioso è costitutivo del Palio…
… tanto è vero che ancor oggi troviamo l’offerta dei ceri da parte dei citti (ragazzi) di ogni contrada in duomo…
Risale addirittura al Trecento. Oggi ne abbiamo un riverbero esile, ma un tempo i cittadini non potevano non partecipare all’offerta e andavano in una solenne processione, che era il cuore della festività dell’Assunta.
E il rito sempre suggestivo della benedizione del cavallo nell’oratorio di contrada, prima del Corteo storico?
Questa tradizione è più tarda. Probabilmente si incominciò con una benedizione collettiva di tutti i cavalli, poi si passò a quella individuale in ogni contrada; penso che si tratti di un rito incominciato nel Seicento.
Il Te Deum contradaiolo, misto di sacro e di profano, cantato a squarciagola dalla contrada vincente in duomo, presenti cavallo e fantino?
Il Te Deum contradaiolo resta un canto di ringraziamento sciolto alla Vergine Assunta, che è protettrice della città. C’è tutta una liturgia contradaiola che risale al periodo della Riforma cattolica post-tridentina.
Lei ha detto che oggi non si può pensare il Palio senza le contrade. Veniamo allora a questi organismi particolari, che hanno anche funzioni precisi, che va ben al di là dei quattro giorni di ogni palio…
Sì, la contrada vive l’attesa dell’appuntamento per parecchi mesi. Molte delle attività promosse dalla contrada attraverso la sua Società di contrada…
C’è una distinzione da fare tra contrada e Società di contrada?
Sì, sono entità distinte, ma la distinzione oggi è più formale che sostanziale. In realtà la vita associativa viene svolta oggi dalla Società di contrada. Direi che la contrada è un involucro istituzionale nobile, che ha le sue cariche…
Lei è stato priore della Tartuca…
… e pensa ad amministrare gli immobili, alla festa del Santo patrono, a onorare i defunti, a promuovere anche attività culturali – de facto però concretizzate dai membri della Società. Alcune contrade hanno addirittura incorporato la Società…
Per quale motivo?
La contrada nasce come organismo territoriale, non economico. Con il tempo il fattore ‘territorio’ ha perso importanza, dato che le persone si spostano molto di più, non stanno più fisse a vivere e lavorare in un pezzo di città. È intervenuto il fattore ‘mobilità’…
Alcune contrade si sono estese oltre le mura?
La contrada ha esteso più che altro la sua influenza oltre le mura, ma il suo territorio resta dentro le mura. Sono falliti tutti i tentativi di ‘esportarla’ al di là…volevano fare delle colonie…
Perché sono falliti tali tentativi?
Ho sempre sostenuto che una contrada senza storia, senza memoria non ha senso, diventa un’associazione come qualsiasi altra. La storia della contrada è tutta dentro le mura: la chiesa, i simboli, la sede…
Un tempo la contrada aveva una forte funzione sociale. E oggi?
La funzione resta, ma si è un po’ indebolita a causa anche della mobilità delle persone. In ogni contrada c’è un nucleo di giovani appassionati e ce ne sono altri che lavorano fuori e si sentono contradaioli, tornando quando c’è il Palio.
Ma per quelli che rimangono, quant’è sociale la contrada? C’è ancora un interscambio generazionale di esperienze….
… si è certo un po’ allentato…
La contrada è sempre stata interclassista…
L’interclassismo resta, pur se non va mitizzato. Diciamo che la contrada non è mai stata classista, i rapporti tra i ceti di importanza economica diversa ci sono sempre stati e permangono come regola. Non dimentichiamo però nel Seicento c’erano dei protettori, dei signori che proteggevano anche cinque o sei contrade, acquisendo dunque quasi un ruolo super partes. A picchiarsi poi era il ‘popolino’.
Quanta importanza hanno oggi le bandiere, i canti, i tamburi?
Tantissima. Anzi io sostengo che proprio il venir meno del fattore ‘territorio’ ha molto incrementato, esaltato e arricchito gli elementi simbolici, che si riferiscono all’immaginario. Tenga ad esempio presente che gli inni delle contrade hanno solo mezzo secolo di vita o poco più. Il simbolico ha finito per acquisire un’incisività molto forte.
Alle contrade non raramente si rimprovera una certa limitatezza di orizzonti, che traspare per esempio dai canti, dalle strofe che spesso insultano i rivali…
Parecchi le reputano da questo punto di vista una sciagura.
I giovani?
Saranno 200-300 i giovani che vivono intensamente la vita di contrada. Poi ci sono altri giovani che sono indifferenti. Una terza categoria, chiamata un po’ spregiativamente dei quattrogiornisti, che vivono la grande occasione del palio e sono legati affettivamente alla contrada, ma non la vivono durante l’anno.
Per quanto riguarda gli orizzonti culturali della contrada?
Qualsiasi straniero, se accetta le regole della contrada, se si ‘fideizza’, può vivere da contradaiolo. Il problema semmai nasce per chi si ‘rinchiude’ culturalmente nella contrada. E allora si può giungere talvolta anche all’intolleranza.
Professor Barzanti, mettendo sui piatti della bilancia questo e quello, si può trarre la conclusione che le contrade hanno ancora una funzione sociale prevalentemente positiva?
Sì, senza dubbio. La solidarietà, che può assumere tante forme anche nuove, funziona ancora. Come dicevo prima, si è invece un po’ attenuato lo scambio intergenerazionale: anche nella contrada – grande famiglia - si riflette quanto succede alla piccola famiglia oggi, quando sovente si manifesta un allontanamento, un’incomprensione forte tra genitori e figli.
Veniamo alle polemiche ricorrenti sul Palio, sulla sicurezza dei cavalli…
Negli ultimi anni si è fatto molto per la sicurezza. Non lo si è fatto tanto per rispondere alle accuse di animalisti e quant’altri, ma proprio perché la sensibilità generale sull’argomento si è accresciuta in misura rilevante. Ai miei tempi, quando moriva un cavallo, si piangeva tanto ma si considerava quanto avvenuto un segno del destino; oggi l’approccio è diverso. Con il passare degli anni si è provveduto ad esempio ad escludere dalla corsa i purosangue, a escludere cavalli – che chiamavamo brenne - portati da cavallai poco scrupolosi, a migliorare le protezioni in piazza. Oggi si è molto più professionali di ieri e ciò giova alla sicurezza dei cavalli.
Si potranno mai escludere i rischi?
Erano sei anni che non moriva un cavallo. Il cavallo a Siena oggi gode di un sistema di assistenza molto sofistico e generoso. Senta questa barzelletta: Da un ospedale si sentono ogni tanto nitriti. Chiede uno: Che c’è? Risponde l’altro: C’è che vogliono essere trattati almeno come cavalli. Significativa, no? Quest’anno il fantino del Bruco, cadendo, si è rotto il femore e non solo; ma quanto se n’è parlato? La cosa è passata stranamente sotto silenzio! Allora: è evidente che ci sono dei rischi persistenti sia per i cavalli che per i fantini. Sono legati al percorso – che è difficile – alla velocità, all’agonismo. Ma noi non facciamo il Palio per ammazzare i cavalli. E i fantini. Tant’è vero che di miglioramenti ce ne sono stati tanti, si è diventati molto più severi e rigorosi; siamo pronti del resto ancora a ‘limare’ quel che è possibile.
Qualcuno dice che il Palio è come la corrida…
Ma proprio no! E non è neanche come il palio dei ciuchi del mio paese di Monterotondo Marittimo, dove i poveri ciuchi sono bastonati duramente se non si muovono. Il Palio è un unicum nel suo genere…
Perché viene attaccato così tanto, oltre che dagli animalisti, anche da sprovvedute e sprovveduti di ogni colore?
Il Palio sconta un po’ il fatto di essere diventato un avvenimento locale in un contesto di globalizzazione. Di conseguenza ha assunto un valore simbolico, come se fosse la festa primitiva, medievale o rinascimentale che ignora la modernità e gioca barbaramente sulla pelle dei cavalli. Questo non è vero, non è affatto vero. Chiunque può verificarlo in loco.
Allora, professor Barzanti, abolire il Palio sarebbe una sciocchezza…
L’interrogativo è sempre quello: una festa che trascina con sé una gran quantità di valori, che ha una qualità indubbia, che dice dello spessore antropologico di una città, può continuare a sfidare la modernità, che a sua volta non è esente da rischi gravi come dimostra la realtà del mondo ippico? Sa che rispetto agli altri cavalli quello del Palio è un signore? Certo che, se si vuole raggiungere la sicurezza assoluta, questa non sarà mai raggiunta. Allora si dovrebbero abolire tutte le corse di cavalli e altri animali! Non solo, ma tutto ciò che è legato all’agonismo, alla festa, al rito, alla memoria. Le pare possibile? In ogni caso si sappia che il fine del Palio non è mai sacrificale, mai di sadismo, mai di violenza gratuita. Anche l’uso del nerbo si giustifica in certi casi (come la nerbata per il cavallo dell’Oca così che evitasse di cadere addosso a quello della Chiocciola nel Palio del 2 luglio); le nerbate tra fantini (vedi l’ultima volta tra Lupa e Istrice) non sono uno spettacolo edificante, ma fanno parte dell’asprezza della competizione. Il Palio di Siena ha tutti i diritti non solo di vivere, ma di essere amato, ammirato, considerato un esempio di grande civiltà.
2/ Duccio Balestracci - Il Palio di Siena. Una festa italiana
Riprendiamo dal sito della casa editrice Laterza (https://www.laterza.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2268&Itemid=101) un intervento di Duccio Balestracci pubblicato il 27/6/2019. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Arte e fede e I luoghi della storia della chiesa.
Il Centro culturale Gli scritti (16/11/2019)
Il Palio di Siena non è una corsa di cavalli. O meglio: sì, è una corsa di cavalli, ovviamente, ma la controversa galoppata che scatena la passione dei senesi e la curiosità di chi la segue sono soprattutto un compendio, in poco più di un minuto, di una storia che non è fatta solo di cavalli che corrono e che non è neppure solo senese. Il Palio è un caleidoscopio attraverso il quale possiamo fare un viaggio nel tempo, in secoli di feste italiane, i cui aspetti originari confluiscono in quella di Siena.
Due volte all’anno – il 2 luglio e il 16 agosto – Siena si ferma. Perfino l’indicazione corrente dello scorrere del calendario conosce due locuzioni contrastanti e correlate, «prima del Palio» e «dopo il Palio».
Per questi appuntamenti (ai quali talvolta se ne aggiunge un terzo per motivazioni di straordinarietà e la cui data viene decisa per l’occasione) si mobilita la popolazione delle contrade per la quale diviene prioritario ciò che si svolge sull’anello di piazza del Campo ricoperto di tufo.
Qui, volta per volta, dieci delle diciassette contrade della città disputano il Palio con cavalli assegnati a sorte, ma con fantini di fiducia della contrada stessa.
Il Palio, che si corre al tramonto del 2 e del 16, è preceduto, nei tre giorni antecedenti, da una tratta (assegnazione dei cavalli) e da sei prove che si svolgono al mattino e a fine pomeriggio. La penultima è detta Prova Generale e l’ultima, per disputarsi la mattina del Palio, quando non è opportuno stancare più di tanto il cavallo, viene designata come Provaccia, una denominazione che rispecchia lo scarso impegno richiesto.
Il punto di partenza della corsa (la mossa e, di conseguenza, quello di arrivo, segnalato da un bandierino di metallo su un’asta) è collocato in corrispondenza dell’accesso alla piazza denominato Costarella dei Barbieri (Costarella e basta, per i senesi) dove è montato il palco dei giudici.
I cavalli, che si dispongono in un ordine tenuto segreto fino all’ultimo momento, partono all’abbassamento del canape (contemporaneamente viene fatto cadere anche il canape posteriore che era servito per farli allineare nell’ordine di chiamata) e si lanciano in tre giri della pista, con una durata complessiva che oscilla fra poco più di un minuto e un po’ meno di un minuto e mezzo. Il percorso, estremamente irregolare, è scandito da due curve a gomito molto difficoltose: quella, in discesa, detta di San Martino (per la vicinanza dell’omonima chiesa) e l’altra, in salita, detta del Casato per essere situata in corrispondenza della via che ha questa denominazione.
Tutto qui.
Prima e durante la corsa, chi non è senese può legittimamente pensare di essere finito in una gabbia di matti, vedendo l’agitazione e l’isteria che corolla questo momento, e tale sensazione potrà essere rafforzata alla vista della disperazione di chi ha perso e della incontenibile gioia di chi ha vinto che, per parte sua, va subito con il drappellone (detto, a sua volta, palio o, popolarmente, «cencio») conquistato in chiesa (nella Collegiata di Santa Maria in Provenzano, a luglio; al duomo in agosto) a ringraziare la Madonna alla quale i due Palii sono dedicati . Magari, chi non abbia conoscenza del modo di pensare dei contradaioli potrebbe sbalordire vedendo fra quella gente urlante, che si abbraccia sventolando bandiere e rullando tamburi fin davanti all’altare, anche persone che con la religione cristiana (o con la religione tout court) non hanno alcuna contiguità o frequentazione. Eppure, del Palio fanno parte integrante anche tali contraddittori atteggiamenti mentali.
Questo fulmineo ultimo atto della festa è preceduto da un Corteo Storico, che a Siena qualcuno chiama Passeggiata Storica, con un termine che, in apparenza, potrebbe suonare sciattamente riduttivo e che invece ha ascendenze linguistiche importanti nei cortei di epoca francese-rivoluzionaria, quando cerimonie del genere sono correntemente indicate dalle fonti come «passeggiate».
Le rappresentanze delle contrade, per parte loro, sono incastonate in una rutilante parata di figure che rievocano le antiche istituzioni (politiche, militari, economiche, culturali) della Repubblica di Siena. Nessun personaggio «storico» particolare: si cercherebbero inutilmente, per dire, figuranti che impersonino un Provenzan Salvani o un Guidoriccio da Fogliano o un Pandolfo Petrucci. Il Corteo Storico è una ricapitolazione di funzioni dello Stato, non di uomini, per quanto famosi. E infatti è tutto maschile: può essere sgradevole per la moderna sensibilità di genere, ma è inevitabile. Nel Medioevo e nel Rinascimento, nelle istituzioni le donne non c’erano. E dunque non possono essercene nel Corteo Storico. Almeno per il tipo di narrazione che ancora oggi gli si affida.
Il carro trionfale (il carroccio evocativo delle glorie militari comunali) tirato da quattro buoi bianchi, con il drappellone sopra, conclude, di fatto, il Corteo.
Poi tutte le diciassette contrade si schierano per effettuare una sbandierata collettiva, detta della Vittoria, dopo di che, usciti i cavalli dall’Entrone e dispostisi in attesa di essere chiamati fra i canapi, cala sulla piazza un silenzio assoluto e surreale, con le molte decine di migliaia di spettatori che attendono di udire dal mossiere il nome della prima contrada che dovrà prendere posto.
Tutto lo spettacolo è a sua volta preceduto dai tre giorni in cui si sono intrecciate strategie, costruite solidarietà e, soprattutto, si è cercato di mettere il cavallo nella migliore condizione fisica per essere competitivo. E anche questo è l’esito di un lavoro quotidiano, sottotraccia, che è cominciato nel momento in cui lo scoppio del mortaretto ha decretato la conclusione della carriera: che sia stata quella del mese prima (fra luglio e agosto) o che si sia dovuto aspettare per tutto il tempo tra la fine dell’estate e l’inizio di quella successiva.
Ciò rende il Palio di Siena unico, non tanto (non solo) per lo spettacolo in sé, quanto perché dietro di esso c’è una stratificazione di memoria e partecipazione identitaria che coinvolge completamente, in ogni momento della vita, i contradaioli. Quello che costituisce l’elemento fondamentale per i senesi non è, quindi, esclusivamente la corsa, ma sono la contrada e il senso di appartenenza ad essa, fattori senza i quali il Palio sarebbe solo una gara ippica preceduta da un sontuoso corteo.
In questo senso, quindi, la strutturazione senese presenta, al suo culmine, un ludus non dissimile da altri; erede a pari merito di feste simili con alberi genealogici altrettanto illustri, ma che per essersi poi interrotte o/e per non aver avuto dietro quella costruzione di sociabilità che è la contrada non hanno resistito alle trasformazioni omologanti della modernità.
È da tale punto di vista, quindi, che riteniamo il Palio una festa non solo senese (prima di tutto senese, certo, ma non solo) bensì «italiana», in quanto in essa si riassumono (trasformati, ma ben riconoscibili) quegli embrioni di comunicatività delle antiche vicinìe, delle associazioni che facevano vivere le feste nell’ambito di una solidarietà di pratica religiosa o di mestiere, della popolazione che dal basso, più o meno spontaneamente e più o meno in libertà vigilata, dava vita alle gioiose esplosioni festive carnevalesche o patronali. Questo è ciò che spiega, probabilmente, anche l’attrazione che il Palio esercita su molti che non sono senesi, perché chi senese non è può scoprirvi ciò che altrove è svanito e non è facilissimo far rivivere: la festa come silloge di una raffigurazione mentale comune, condivisa da un’intera città.
Chi non si accontenta della sola performance dei cavalli che corrono, né della sola coreografia che precede la corsa stessa, dovrebbe almeno poter seguire la liturgia che si snoda dal giorno dell’assegnazione dei cavalli fino alla conclusione del palio, e, in questo modo, cercare di capire lo stato d’animo che trasforma per quattro giorni una città di gente assolutamente normale in un mondo sospeso entro un tempo fuori dal tempo, in cui la passione di contrada rievoca solidarietà antiche e antiche faziosità. Il Palio, per come è nato e per come nei secoli si è auto-riscritto (pur adeguandosi alla storia contingente), si configura come una metafora della guerra e dello scontro di parte; lo stesso identico stato emotivo che animava veneziani e perugini, veronesi e pisani quando sublimavano tensioni e ritrovavano lo spirito, al tempo stesso, di gruppo e di comunità nel gioco e nella gara. Vivere (e capire) il Palio, così, è fare i conti e riscoprire quello che, come italiani, siamo stati e ciò che (nel bene e nel male) abbiamo perduto, salvo in questa bizzarra città.
Non è un caso che, il giorno del Palio, in cima alla Torre del Mangia sventolino insieme la Balzana di Siena e il Tricolore d’Italia, per ricordare, anche visivamente, che questa non è la festa solo di una città, ma anche una cifra della cultura nazionale. Né è solo coreografia quel drappello di carabinieri a cavallo, voluto, dal 1919, per ricordare la battaglia di Pastrengo e che fa due giri di pista (uno al passo e uno al trotto che culminano con la carica a sciabola sguainata) proprio prima che faccia ingresso in piazza il Corteo Storico. Il significante di questa presenza è chiarissimo: il Palio si incastona deliberatamente nella storia italiana e nel senso di appartenenza ad essa.
Poi, certo, la carica dei militi, nel momento in cui esce dalla bocca di San Martino, sembra riaffidare provvisoriamente Siena alla sua storia, alla sua tradizione, alla sua memoria, al suo antico senso di «se stessa». Il Palio è un sincronismo di passato e di futuro che si attualizza nell’oggi; è uno squarcio nel tempo: in quel poco più di un minuto si concentrano secoli di storia. Quella cittadina e quella nazionale.