E Giobbe sbarcò a New York. Ottant'anni fa Joseph Roth scriveva il suo romanzo ispirato alla figura biblica, di Marco Beck

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 03 /08 /2010 - 23:50 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 2/7/2010 un articolo scritto da Marco Beck. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (1/8/2010)

Sono trascorsi esattamente ottant'anni da quando un giovane scrittore austriaco, Joseph Roth, diede alle stampe, senza particolari echi di critica e di pubblico, un'opera di narrativa che solo la sua posterità avrebbe riconosciuto come uno degli esiti più alti della letteratura mitteleuropea: Giobbe. Romanzo di un uomo semplice (Hiob. Roman eines einfachen Mannes).

Nato nel 1894 da un ceppo ebraico nella Galizia orientale, oggi compresa nell'Ucraina ma allora piccola tessera di quell'immenso mosaico di terre e popoli che era l'impero austroungarico, Roth si era trasferito a Vienna per completare gli studi universitari. Nella capitale della felix Austria - all'apogeo del suo splendore culturale - aveva imboccato le strade parallele della letteratura e del giornalismo. Sconvolto dalla dissoluzione della compagine imperiale dopo la disfatta del 1918 e dalla conseguente dispersione delle comunità ebraiche costitutive del cosiddetto Ostjudentum, Roth intraprese un inquieto vagabondaggio. Dall'Austria si spostò in Germania, Polonia, Russia. Viaggiò anche in Italia. Il giorno stesso in cui Hitler divenne cancelliere del Terzo Reich (30 gennaio 1933), Roth, di fronte al profilarsi di un regime che avrebbe poi bollato come "cloaca nazista", decise di emigrare a Parigi, dove morì ad appena quarantacinque anni, nel 1939, consumato dall'alcolismo. Gli fu così risparmiato, se non altro, l'immane scempio della Shoah.

In un corposo saggio pubblicato da Einaudi nel 1977, e da allora stranamente non più ristampato, Lontano da dove (il cui significativo sottotitolo recita Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale), Claudio Magris sottolinea la posizione centrale e al tempo stesso anomala di Giobbe, un unicum nell'arco creativo dello scrittore galiziano. Fino al 1929 Roth aveva sfornato romanzi perlopiù di formazione o di critica sociale: Hotel Savoy, La ribellione, Fuga senza fine. Nel 1930, con Giobbe, fece balenare un'inedita prospettiva mitico-fiabesca e, per così dire, metastorica sul mondo della sua infanzia, sulle più profonde radici della sua ebraicità slavo-germanica. Subito dopo, si sarebbe aperta una terza fase, quella che ne avrebbe consacrato la fama a livello mondiale, in virtù di tre titoli: La marcia di Radetzky (1932), epos ironico e dolente del crepuscolo asburgico; La cripta dei cappuccini (1938), definitivo epicedio per la Heimat, la grande patria ormai frantumata; il racconto-parabola La leggenda del santo bevitore (1939), amara prefigurazione della morte del suo autore.

L'"uomo semplice" protagonista di Giobbe (traduzione di Laura Terreni, Adelphi, 2009) ci viene incontro fin dall'incipit del romanzo: "Molti anni fa viveva a Zuchnow un uomo che si chiamava Mendel Singer. Era devoto, timorato di Dio e simile agli altri, un comunissimo ebreo. Esercitava la semplice professione del maestro. Nella sua casa, che consisteva tutta in un'ampia cucina, faceva conoscere la Bibbia ai bambini".

Condividono con lui quella modesta abitazione la moglie Deborah, incinta, e altri tre figli: il robusto Jonas, l'estroso Schemarjah, la tenera Mirjam. Alle difficoltà economiche fa da positivo contrappunto il monotono ma sereno scorrere di opere e giorni.

I guai per Mendel, moderno Giobbe, cominciano poco dopo la nascita del quarto figlio. Ben presto si scopre che Menuchim è affetto da una grave minorazione psicofisica. Mendel si rifugia nella preghiera. Deborah, angosciata ma non rassegnata, porta il suo infelice figlioletto a Kluczysk, dove vive un santo rabbi dalle virtù taumaturgiche. Il rabbi pronuncia una profezia di guarigione per Menuchim, ma solo "dopo lunghi anni".

Il tempo trascorre. L'amore tra i due coniugi s'isterilisce. Menuchim non esce dalla disabilità. La profezia del rabbi appare sempre più assurda. Jonas e Schemarjah vengono chiamati alle armi nell'esercito russo: una iattura per la famiglia. Mentre Schemarjah emigra clandestinamente negli Stati Uniti, Jonas accetta di arruolarsi. Mirjam, bella e provocante, comincia a degradarsi accompagnandosi con alcuni cosacchi di una vicina guarnigione. Anche per strappare la figlia al vizio, i due coniugi decidono di partire con lei alla volta dell'America, dove li chiama a sé Schemarjah, che a New York sta facendo fortuna come piccolo imprenditore. Devono però lasciare a Zuchnow il figlio disabile, affidandolo a una coppia di compaesani. E questo sofferto abbandono li riempie di rimorsi.

Dopo lo sbarco a New York, la famiglia Singer si riorganizza. Schemarjah, diventato Sam, aiuta i parenti a integrarsi a loro volta. Ci riesce senza sforzo Mirjam, con minor facilità Deborah. Invece Mendel rimane con caparbia naturalezza fedele al suo stile di vita ostjüdisch.

La seconda parte del romanzo si apre per Mendel nel segno di un'apparente tranquillità. Ma ecco che di colpo il presente gli precipita addosso con la violenza di molteplici sventure. In Europa è scoppiata la guerra. Sam, arruolatosi nell'esercito americano, viene ucciso su un campo di battaglia, mentre Jonas risulta disperso. Deborah muore di crepacuore. Mirjam, sedotta da un individuo spregevole, impazzisce. Il ricordo di Menuchim si fa ossessivo. "Sua maestà il dolore è entrato nel vecchio ebreo".

Scatta in lui un moto di ribellione contro il suo Dio spietato. Sta per bruciare i libri di preghiere, tutti i paramenti sacri. Ma qualcosa gli vieta quel gesto estremo, trattenendolo sull'orlo del sacrilegio. Cessa comunque di pregare, convinto che Dio, da lui tanto amato, insista a odiarlo, a volerlo lasciare in vita con un carico inaccettabile di sofferenza.

Poi la guerra finisce. Rinasce in Mendel il sogno di riattraversare l'oceano e tornare da Menuchim. Poco prima di Pasqua giunge a New York un celebre musicista ebreo, Kossak, nativo di Zuchnow. La sera della festa pasquale Mendel viene invitato a cena da un amico. Irrompe il colpo di scena risolutivo: alla tavolata si unisce di sorpresa Kossak, che a un certo punto rivela di non essere altri che Menuchim, guarito secondo la profezia del rabbi e assurto a fama mondiale come compositore e direttore d'orchestra. Si è sposato e ha avuto due figli. Inondato di gioia, Mendel può finalmente "riposarsi dal peso della felicità e dalla grandezza dei miracoli".

Italo Calvino assegnava lo statuto di "classico" a "un libro che si configura come equivalente dell'universo". Attenendosi alla lettera di questa definizione, verrebbe da osservare che il Giobbe di Roth eccede la pur esigente misura della classicità perché gli universi ai quali equivale, cioè che riflette con l'emblematicità di una sineddoche (la parte per il tutto), sono almeno tre: l'ebraismo mitteleuropeo, l'impero multinazionale degli Asburgo, il microcosmo familiare.

Al centro di Giobbe campeggia la mitizzazione, peraltro priva di enfasi retorica, dello shtetl, la caratteristica comunità ebraica diffusa in migliaia di esemplari nell'Europa centro-orientale: un mondo tenacemente attaccato ai propri costumi socio-religiosi, custode di valori morali e spirituali, che Roth, pur consapevole del suo irreversibile disfacimento, continua utopicamente a contrapporre alle società occidentali, sempre più ansiose di vendere l'anima ai vitelli d'oro del benessere materiale, dell'arricchimento egoistico e spregiudicato, del successo a ogni costo.

All'integrità dell'Ostjudentum inferse una grave ferita, vent'anni o poco più prima del colpo mortale vibrato dalla Shoah, lo sfacelo di un impero - quello asburgico, appunto - la cui implosione fu accelerata dal collasso alla fine della Grande Guerra.

I due fenomeni sono, in Giobbe come nella maggior parte della narrativa rothiana, inscindibili, conseguenze nefaste di una stessa dinamica storica. E il rimpianto per la perduta tradizione dello shtetl si fonde con la nostalgia per la (relativamente) pacifica convivenza di popoli, etnie, culture differenti sotto la corona unificante di Francesco Giuseppe.

Ma Giobbe è anche, e forse soprattutto, un romanzo sulla quotidianità della famiglia, con infiniti spunti di riflessione riguardanti le problematiche, le gioie, le sofferenze insite nelle relazioni intrafamiliari, in un contesto ebraico che molte analogie permettono di estendere ad ambiti cristiani e persino laicisti.

In primo piano si stagliano le due dimensioni connaturate al protagonista: il ruolo paterno e quello coniugale. Solo in connessione con la storia del pater familias, con gli eventi determinati dalla sua incrollabile pietas, le vicende dei figli acquistano spessore drammatico. Non meno influente sul processo narrativo risulta la crisi del rapporto sponsale tra Mendel e Deborah. È questa, anzi, la vera colpa, il vero peccato per il quale i due coniugi subiscono - nella tagliente logica di Roth - la punizione del figlio minorato, cui si aggiungeranno le disgrazie in terra d'America.

Tutti i destini dei vari personaggi si giocano dunque nella rete relazionale distesa tra le pareti domestiche. E non è un caso che, in un romanzo intessuto di rimandi al paradigma del Giobbe biblico, traspaiano in filigrana echi neotestamentari, non importa se consci oppure inconsci. Così, l'ostinazione amorosa di Deborah nell'invocare dal rabbi di Kluczysk la guarigione di Menuchim non può non richiamare la perseveranza della donna cananea nel supplicare il rabbi di Nazaret. Lo stesso Mendel s'illumina di suggestivi riverberi evangelici, soprattutto nell'epilogo. Circonfuso da un alone di umile maestà che gli proviene dall'esperienza nobilitante del dolore sopportato per amore dei figli (quasi una proiezione del sacrificio di Cristo), nell'ultimo scorcio dell'incontro con il "nuovo" Menuchim il vecchio maestro assapora una gioia evangelicamente "perfetta", sconosciuta al Giobbe dell'Antico Testamento: la grazia di poter riabbracciare il figlio, come il padre misericordioso della parabola di Gesù.

(©L'Osservatore Romano - 2 luglio 2010)