Lucera [e la deportazione dei musulmani di Sicilia in Puglia da parte di Federico II], di Raffaele Licinio. Saraceni di Sicilia, di Annliese Nef-Henri Bresc
Lucera [e la deportazione dei musulmani di Sicilia in Puglia da parte di Federico II], di Raffaele Licinio
Riprendiamo sul nostro sito alcuni brani della voce “Lucera” dall’enciclopedia Federiciana (2005) della Treccani disponibile on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Basso medioevo ed, in particolare, Breve cronologia degli attacchi saraceni, di Andrea Lonardo, Federico II e la reconquista, di Ferdinando Maurici e La conquista musulmana della Sicilia, di Ferdinando Maurici.
Il Centro culturale Gli scritti (1/10/2019)
N.B. de Gli scritti Le due voce dell’enciclopedia Federiciana che qui riprendiamo presentano puntualmente i dati noti sulla “deportazione” degli ultimi musulmani di Sicilia compiuta da Federico II che si dovette convincere, dopo le rivolte dei saraceni, che era impossibile convivere con loro nell’isola. Scelse pertanto una città lontana dalle pianure pugliesi, Lucera, in maniera da “confinarli”, continuando ad imporre loro una tassazione equivalente a quella che i musulmani imponevano ai cristiani in terra islamica.
LUCERA. - È del cronista Riccardo di San Germano la preziosa notizia che, tra fine maggio e inizio giugno del 1223, Federico II riuscì a ottenere una prima, consistente vittoria sui saraceni ribelli di Sicilia che, guidati dall'emiro Ibn-῾Abbād ("Myrabettum Sarracenorum ducem"; Mirabetto), da anni razziavano e rendevano insicuri i territori della parte occidentale dell'isola, i monti di Gibellina, l'altopiano di Racalmuto e le colline che sovrastano la Conca d'Oro.
Alla vittoria seguì una dura repressione, che intendeva risolvere il problema una volta per tutte e servire come monito per il futuro. Una parte cospicua di rivoltosi, non solo i combattenti superstiti ma anche le loro famiglie, fu sradicata dai propri villaggi e deportata in Puglia: a Lucera, aggiunge Riccardo nella seconda edizione della sua Chronica. Il conflitto, tuttavia, non terminò con la vittoria del 1223, e furono necessari altri due anni di impegno militare perché l'imperatore riuscisse a domare le rivolte saracene, che nell'isola conobbero tra l'altro una ripresa negli anni Quaranta, con una nuova deportazione a Lucera di ribelli dal territorio di Jato.
Sulle reali motivazioni dell'atteggiamento conflittuale dei musulmani, che in certi momenti sembrava aver assunto caratteri di scontro religioso ‒ ad esempio con l'attacco all'ospedale dei lebbrosi presso Palermo e con l'occupazione della cattedrale di Agrigento e la presa in ostaggio del suo vescovo ‒ non sappiamo molto: ma è facile ipotizzarne un rapporto diretto con la crisi economica che stava investendo l'isola, con il lungo vuoto di potere che aveva caratterizzato il Regno e con gli stessi indirizzi di politica economica e sociale dello Svevo. Ancor meno conosciamo delle fasi e delle vicende delle campagne militari che contro di loro occuparono il sovrano, anche in prima persona, negli anni tra 1222 e 1225. Ci sfuggono soprattutto gli effettivi motivi che lo indussero a scegliere Lucera come sede dei deportati. In realtà, il trasferimento forzoso riguardò anche altri casali della Capitanata, da Stornara a Castelluccio, ma è indubbio che fu Lucera a ricevere il maggior numero di saraceni e, quel che più conta, fu Lucera a identificarsi rapidamente e sino al 1300 con i nuovi abitanti.
Deve aver indubbiamente pesato, nella scelta dello Svevo, in primo luogo il ruolo di 'laboratorio politico e territoriale' assegnato alla Capitanata: è appunto la Capitanata, lo si vedrà con maggior chiarezza nei decenni successivi, la circoscrizione che Federico II dota del maggior numero di castra e di domus, in cui impianta il maggior numero di aziende produttive (le massarie regie), in cui stabilisce gerarchie urbane nuove (Foggia preferita alla vicina e filopapale Troia), in cui risiede più che altrove. Ed è la Capitanata il banco di prova anche di 'esperimenti' di convivenza sociale e religiosa. In questo quadro si inserisce e si giustifica la decisione di 'puntare' su Lucera, città di antica storia, con radici che affondavano sin nell'età preromana, ma ormai da tempo decaduta e in fase di spopolamento. Una città, sembrerebbe, anche in crisi di identità, se è vero che negli Annales Siculi, nel passo in cui si dà notizia della deportazione, la si può confondere con un'altra località, Nocera ("ejecit omnes Saracenos de Sicilia et misit eos apud Noceriam in Apulia"). […]
Demaniale era la Lucera visitata per la prima volta da Federico II nel 1221: una città dalla lunga storia, ma dal presente incerto. Il suo distretto rurale si era da tempo ridotto a favore di Troia, e una nuova località, Foggia, si rivelava temibile concorrente sul piano demografico, oltre che economico. E c'è da aggiungere che nelle campagne lucerine, a sud della città, in corrispondenza dell'attuale località di Monte Castellaccio, era andata rapidamente crescendo, almeno dalla fine del sec. X, una località, oggi scomparsa, che ben presto si era guadagnata il titolo di civitas, per quanto priva di un suo vescovo e dipendente dalla diocesi lucerina: Vaccarizza, oggi all'attenzione degli archeologi ‒ al pari di S. Giusto, nell'omonima contrada presso il torrente Celone, "villa" romana ampliata in età altomedievale, una tappa della via sacra Langobardorum citata ancora nel sec. XII come casale ‒, è uno dei centri rurali cui si deve la ripresa demografica ed economica della Capitanata dopo il Mille (sarà poi disabitato e abbandonato nel Duecento). Lucera non poteva non risentirne in qualche modo. Le sue campagne, tra le più fertili del territorio, erano scarsamente coltivate e popolate: una vistosa contraddizione, che si comprende ricordando che proprio le caratteristiche topografiche e insediative della città ne rappresentavano un punto di forza e, nel contempo, un elemento di debolezza. Sorta su tre colli a circa 240 m sul livello del mare, in una posizione centrale tra Gargano, Tavoliere e subappennino dauno, la città poteva svolgere al meglio funzioni strategico-militari, di controllo territoriale, di 'posto di vedetta': un dato valorizzato specialmente in tempi di insicurezza. Quando però, a partire dai secc. X-XI, e soprattutto nel sec. XII, si sviluppa in tutta la Capitanata un processo di riconquista della pianura, di passaggio dagli insediamenti collinari a quelli del piano, di nuova colonizzazione agraria, Lucera ne è interessata in misura assai limitata, sia per la forte capacità attrattiva esercitata dalle vicine Vaccarizza e Foggia, sia per gli oggettivi limiti imposti dalla sua posizione arroccata sulle colline, priva di possibilità di crescita di sobborghi, sia ancora per lo scarso numero di casali e loci agricoli su cui far leva per favorire la messa a coltura di nuove terre.
È merito di Federico II aver colto le possibilità di uno sviluppo nuovo e complessivo dell'antico centro, riportando a sintesi unitaria il dato strategico della sicurezza militare del luogo e la presenza di un territorio in potenza altamente produttivo. Perché il meccanismo potesse avviarsi e funzionare al meglio, occorreva però innanzitutto uno 'choc demografico', un innesto rapido e consistente di nuovi abitanti: la deportazione dei saraceni rappresentava, in questa logica, la soluzione ideale, sia sul piano della quantità (si è calcolato un numero compreso tra i trentamila e i sessantamila nuovi abitanti, cifre senz'altro da ridimensionare), sia su quello della 'qualità sociale'. I saraceni erano esperti coltivatori e allevatori, abili artigiani, validi combattenti (come fanteria di arcieri rappresentarono poi la punta di diamante dell'esercito di Federico, che se ne servì anche come guardia del corpo): qualità dimostrate pure a Lucera, anche se non potevano mancare ‒ infatti non mancarono ‒ i tentativi di sottrarsi con la fuga alla nuova condizione.
Si trattava per altro, superato il trauma della feroce deportazione, di una condizione relativamente accettabile. Giuridicamente considerati servi della Curia regia, i saraceni lucerini godevano di importanti garanzie collettive: la libertà di culto, la possibilità di conservare usanze, tradizioni e articolazioni sociali, un certo grado di controllata autogestione amministrativa, rappresentata dalla figura degli "alchadi" o qād.ī, quasi certamente con funzioni giudiziarie. Al fisco dovevano una duplice imposta, "canonem et gesiam", ovvero un canone annuo, parte in natura, parte in danaro, per l'utilizzo delle terre demaniali, e la ǧizya, imposta personale in quanto musulmani. Avevano diritto di semina anche su campi non demaniali, ed erano esentati dal pagamento dei diritti "pascendi et sumendi aquam", in realtà compresi nel canone, e in certi periodi anche di quelli legati alle attività mercantili, il piazzatico, il pedaggio, l'imposta doganale, la quale ultima gravava invece solitamente per il 10 per cento sui musulmani, e solo per il 3 per cento sui mercanti cristiani extraregnicoli. Notevole impulso al commercio fu dato dall'istituzione a Lucera di una delle grandi fiere del Regno, che si svolgeva dal 24 giugno al 10 luglio, a ridosso delle attività di mietitura e trebbiatura. Erano affidate ai saraceni anche la gestione e la cura delle greggi ovine della corte, dietro la consegna, ogni anno, di un certo numero di capi, che andavano spesso a rimpinguare la non sempre elevata quantità di ovini presenti nelle massarie regie. Coloni e allevatori, i saraceni esercitavano con pari perizia l'artigianato: carpentieri, sellai, vasai, tappezzieri, dicono le fonti sveve, e orefici, tessitori, sarti, scudai, intarsiatori, ciabattini e via dicendo, aggiungono quelle della successiva età angioina. Ed è noto l'ordine federiciano, datato 21 febbraio 1240, per il pagamento agli apprezzati specialisti della fabbricazione delle armi, "magistris sarracenis, tarisiatoribus, carpentariis, magistris facientibus arma [...] et ceteris magistris qui tam de ferro quam de arcubus et aliis operibus laborant ad opus nostrum" (Historia diplomatica, V, 2, p. 764) nelle officine regie di Lucera, Melfi, Canosa. Le stesse donne musulmane, a meno che non ci si voglia accontentare della tradizionale interpretazione che le vuole a disposizione del sovrano in un apposito harem, furono impiegate in lavori tessili nel laboratorio artigianale collegato alla camera regia.
L'innesto dei nuovi abitanti comportò necessariamente due conseguenze 'forti': un'incisiva ristrutturazione urbanistica di Lucera, che ne venne trasformata di fatto in città saracena (è un errore ormai consolidato parlare di una "Lucera araba": i musulmani deportati dalla Sicilia erano saraceni, non arabi; non a caso l'espressione dei documenti coevi è "Luceria Sarracenorum"), e una contrastata convivenza con la locale comunità cristiana. Sul piano urbanistico sappiamo poco: si può ipotizzare che l'addensarsi di nuove abitazioni abbia in qualche modo alterato il precedente impianto geometrico romano e altomedievale. È certo che venne costruita una grande moschea, nel sito dell'attuale cattedrale, poi edificata ex novo appunto sulle rovine della moschea dopo la distruzione della città e l'espianto dei saraceni a opera del barlettano Giovanni Pipino, su ordine di Carlo II d'Angiò, nell'agosto del 1300. Sulla realizzazione di un nuovo circuito murario dotato di porte la discussione è ancora aperta: la fortificazione del nucleo urbano ebbe invece nel palatium federiciano il suo punto di forza. Ordinato nel 1233, esso si aggiunse quasi certamente alla struttura castellare di età normanna: per Lucera, il cosiddetto Statutum de reparatione castrorum, una sorta di censimento, realizzato nel periodo 1241-1246, delle strutture fortificate di cui la corte aveva la disponibilità nell'intero Regno, riporta infatti la notizia dell'esistenza di due castra, l'uno che doveva essere riparato dai saraceni (ed è il palatium federiciano), l'altro che invece spettava riparare ai cristiani.
A un tempo confortevole residenza ed edificio fortificato, la struttura voluta da Federico nel sito dell'acropoli, sul Monte Albano, si presentava come robusto ma elegante edificio a pianta quadrata impostato su una base piramidale tronca e, quasi un torrione, si innalzava per tre piani e comprendeva un totale di trentadue vani; il cortile quadrato all'altezza del secondo piano acquisiva una forma ottagonale, quasi un anticipo della figura geometrica su cui sarà successivamente impostato Castel del Monte. Alcune torri laterali completavano l'edificio, che non presentava ingressi al piano terra, sostituiti probabilmente da un sistema di scale mobili esterne. Arricchito da opere artistiche, da statue in pietra e in bronzo importate anche dall'Oriente, il 'castello' ospitò il sovrano con il seguito di funzionari nelle sue non numerose visite alla città, ma anche i soldati della guarnigione, la camera regia, i laboratori artigianali; nei pressi (o al suo interno) erano dislocati la zecca e quel singolare istituto scientifico, la Dar al-'ilm, una sorta di fondazione culturale aperta ai dotti dell'epoca, che una fonte araba cita nell'età di re Manfredi, il "sultano di Lucera", come anche fu chiamato. Un appartamento pare fosse riservato anche a un notabile saraceno locale, quel Giovanni Moro, musulmano convertito già fedele dell'imperatore e governatore in suo nome, che secondo il cosiddetto Jamsilla tentò invece di opporsi a Manfredi, finendo giustiziato nel 1254.
Rovinato dal tempo e dall'incuria, saccheggiato nei secoli per farne a sua volta materiale da costruzione (singolare contrappasso, dal momento che per la sua costruzione erano stati riutilizzati in misura massiccia materiali di edifici preesistenti), dell'edificio federiciano non ci rimangono oggi che lo zoccolo perimetrale, parte delle pareti a scarpa, e il basamento centrale, il tutto inserito all'interno (sul lato nord-est) del circuito turrito del nuovo castello voluto da Carlo I d'Angiò, una piazzaforte militare progettata da architetti militari francesi e locali, Pierre d'Angicourt, Jean de Toul e Riccardo da Foggia tra gli altri, ai quali ‒ pare ormai accertato ‒ il sovrano ordinò anche di ristrutturare il palatium federiciano, esaltandone il carattere di castrum. Ed è quindi la sintesi tra l'edificio originario e la ristrutturazione angioina l'immagine del castello svevo che ci è stata tramandata nei disegni del pittore francese Jean-Louis Desprez (1778, dodici anni prima del definitivo smantellamento del palazzo) e nella tavola pubblicata nella seconda metà dell'Ottocento da Giambattista D'Amelj.
Rispetto alla locale comunità cristiana non mancarono tensioni e contrasti, pur nel quadro di una sostanziale convivenza. Se ne lamentò più volte papa Gregorio IX, osservando a fine 1232 che i saraceni, per procurarsi mattoni e legno per i loro edifici, stavano praticamente distruggendo la chiesa di S. Pietro in Bagno (proprietà del monastero di S. Lorenzo di Aversa), e chiedendo l'anno seguente che nella città venisse autorizzata la presenza dei Domenicani, con l'obiettivo di una conversione in massa. Conversione sostanzialmente fallita: i cristiani rimasero minoritari, al punto che lo stesso vescovo, per comunicare, dovette imparare a esprimersi in arabo. Più che all'interno della città, contrasti armati si verificarono nel territorio rurale e nei confronti delle località vicine, dei loro contadini e dei loro allevatori, che si videro spesso sottrarre fertili campi e razziare raccolti e animali. Ed è certo in questa contraddizione mai risolta, aggravata dalle differenze di fede, una delle cause di fondo della decisione dell'angioino Carlo II di chiudere definitivamente, con la distruzione totale della città saracena, l''esperimento' federiciano.
Fonti e Bibl.: Niccolò Jamsilla, Historia de rebus gestis Friderici II imperatoris ejusque filiorum Conradi et Manfredi Apuliae et Siciliae regum, in G. Del Re, Cronisti e scrittori sincroni napoletani, II, Napoli 1868, pp. 105-200; E. Sthamer, Die Verwaltung der Kastelle im Königreich Sizilien unter Kaiser Friedrich II. und Karl I. von Anjou, Leipzig 1914 (trad. it. L'amministrazione dei castelli nel regno di Sicilia sotto Federico II e Carlo I d'Angiò, a cura di H. Houben, Bari 1995); P. Egidi, Codice diplomatico dei Saraceni di Lucera, Napoli 1917; Annales Siculi, in R.I.S.2, V, 1, a cura di E. Pontieri, 1927-1928; Riccardo di San Germano, Chronica, ibid., VII, 2, a cura di C.A. Garufi, 1936-1938. A. Haseloff, Die Bauten der Hohenstaufen in Unteritalien, I-II, Leipzig 1920 (trad. it. Architettura sveva nell'Italia meridionale, a cura di M.S. Calò Mariani, presentazione di C.A. Willemsen, I-II, Bari 1992); P. Pieri, I Saraceni di Lucera nella storia militare medievale, "Archivio Storico Pugliese", 6, 1953; J.-M. Martin, La colonie sarrasine de Lucera et son environnement. Quelques réflexions, in Mediterraneo medievale. Scritti in onore di Francesco Giunta, II, Soveria Mannelli 1989, pp. 797-811; Miscellanea di Storia Lucerina. Atti del III Convegno di studi storici (Lucera, 1989) II, Foggia 1989 (in partic.: P. Corsi, Aspetti di vita quotidiana nelle carte di Lucera del secolo XIII, pp. 35-75; J.-M. Martin, I saraceni di Lucera, pp. 9-34); N. Tomaiuoli, La fortezza di Lucera, ivi 1990; J.-M. Martin, Foggia, Lucera, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle decime giornate normanno-sveve (Bari, 21-24 ottobre 1991), Bari 1993, pp. 333-363; R. Licinio, Castelli medievali. Dai Normanni a Federico II e Carlo I d'Angiò, presentazione di G. Musca, ivi 1994; C.T. Maier, Crusade and Rhetoric against the Muslim Colony of Lucera: Eudes of Châteauroux's Sermones de Rebellione Sarracenorum Lucherie in Apulia, "Journal of Medieval History", 21, 1995, pp. 343-385; J. Taylor, Lucera Sarracenorum: una colonia musulmana nell'Europa medievale, "Archivio Storico Pugliese", 52, 1999, pp. 227-242.
Saraceni di Sicilia, di Annliese Nef-Henri Bresc
Riprendiamo sul nostro sito alcuni brani della voce “Saraceni di Sicilia” dall’enciclopedia Federiciana (2005) della Treccani disponibile on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Basso medioevo.
Il Centro culturale Gli scritti (11/8/2019)
SARACENI DI SICILIA. - I temi incrociati dei rapporti tra Federico II e i musulmani di Sicilia, dei legami dell'imperatore con i sovrani musulmani e della sua politica relativa alle crociate rientrano senz'altro fra quelli che richiederebbero una nuova sintesi, tenendo conto dei lavori svolti in modo dispersivo e basati essenzialmente su fonti non testuali. Per il resto le nostre conoscenze, sostanzialmente, risalgono ancora alla summa di Michele Amari. Le celebrazioni dedicate a Federico II qualche anno fa si sono concentrate soprattutto sulle manifestazioni artistiche, culturali e auliche dell'epoca federiciana, anche se numerose sono le fonti situate sul versante arabo che meriterebbero una rilettura più attenta da quest'angolazione; si tratta di una situazione discordante rispetto al rinnovamento degli studi su questo tema per il periodo normanno.
All'origine della sorpresa degli storici vi è un paradosso basato sul contrasto fra gli eccellenti rapporti di Federico II con i capi dei governi musulmani, la profonda complicità intellettuale e morale che con loro condivise, il mantenimento dell'ideale di un Regno pluralista per lingua e religione, e la brutalità delle repressioni interne che misero fine all'esistenza di quella che costituiva la comunità musulmana nell'isola. Alla fine del suo regno i musulmani in Sicilia non erano altro che individui isolati, senza più un culto organizzato né quadri, mentre Lucera mantenne per mezzo secolo l'organizzazione decentrata, l'autonomia e i principi pluralisti dello stato normanno.
I rapporti con il mondo dell'Islam. Sovrano di un Regno che comprendeva una significativa minoranza musulmana, Federico II ereditò dalla dinastia normanna l'ampio disegno strategico di Ruggero II, ispirato da Giorgio d'Antiochia, abbandonato dopo la crisi del regno di Guglielmo I e riesumato sotto Guglielmo II. Si trattava di prolungare la conquista della Sicilia all'Ifriqiyya per instaurarvi, secondo i metodi che avevano presieduto al primo insediamento dei normanni nell'isola, un 'Regno arabo' fondato sull'autonomia delle città soggette a tributo. All'interno il grande disegno normanno consisteva nel mantenere un dominio fondato sulla giustizia regia, uguale per tutte le comunità, in cambio dei servizi fiscali e militari che tutti i sudditi erano tenuti a prestare. L'eredità dei diritti siciliani sul territorio maghrebino ora governato dagli Hafsidi, seppur lontana e astratta in quel momento, non fu abbandonata: Federico II cercò di riprendere Djerba nel 1223, un'iniziativa che preannunciava le future conquiste da parte di Ruggero di Lauria e Manfredi Chiaromonte, i tentativi di re Martino, e in seguito di Alfonso d'Aragona. La rifondazione del Regno siciliano sul territorio dell'Ifriqiyya fu uno dei principi, esplicito o implicito, della politica imperiale e regia.
Il fallimento del 1223 indusse Federico II a un compromesso con gli Hafsidi: il trattato del 20 aprile 1231 garantì ai siciliani l'accesso ai mari africani e assicurò che Pantelleria restasse siciliana; la popolazione musulmana avrebbe mantenuto uno statuto di autonomia tributaria che evocava, ad esempio, quello dell'età normanna per Malta (Bresc, 1971). Il prefetto era musulmano, qā'id o ḥakam, ma nominato dall'imperatore e il tributo, pagato in moneta hafside, esprimeva i legami che l'isola conservava con Tunisi. Pantelleria era soggetta a un vero e proprio regime di ripartizione paritaria, in quanto la metà del tributo veniva trasferita al tesoro hafside, l'economia dell'isola rimaneva proiettata verso l'Africa, i musulmani continuavano ad essere amministrati da ufficiali della loro legge e non più da cristiani arabi come era avvenuto sotto Giorgio d'Antiochia. Questo statuto di mudéjar fu tuttavia disapprovato dai dottori dell'Islam e il potere hafside, associandosi al dominio degli infedeli su un manipolo di musulmani, sanzionò la sua debolezza e si assunse dei rischi. Federico II, da parte sua, manifestò realismo e duttilità.
L'assetto concepito da Federico per Gerusalemme e messo in atto con il trattato di Giaffa sottintendeva lo stesso realismo: la pienezza dei suoi diritti sul Regno di Gerusalemme, attraverso la moglie, e il suo dovere di crociato, come imperatore, non implicavano che Federico pensasse a una crociata lunga e accanita. Le capacità di mobilitazione dei cavalieri dell'Italia meridionale e della Sicilia erano limitate, la flotta siciliana dipendeva dalla collaborazione delle repubbliche marinare. Lo scacco di Damietta aveva messo in risalto le capacità di resistenza degli Ayyubidi e ricordato che non esisteva più una forza cristiana autonoma in Oriente; il Regno di Gerusalemme dipendeva interamente dall'Europa latina e Federico doveva approfittare delle divisioni del mondo musulmano. La ripartizione dei poteri su Gerusalemme nel 1229, accettata con difficoltà dall'entourage del sovrano ayyubide, implicava nei due principi una cultura politica e filosofica orgogliosa ed elitaria, un'assoluta sicurezza della scelta divina. Per questa via furono assicurati la pace e il pellegrinaggio, e la restaurazione di Gerusalemme come capitale del Regno davidico di Federico fu permessa senza colpo ferire. I due grandi principi e i loro rappresentanti obbedirono quindi a un disegno divino di pacificazione già messo in atto da al-Malik al-Kāmil dopo la riconquista di Damietta.
Ayyubidi e Hafsidi furono ugualmente portati a riconoscere in Federico l'attitudine al dominio e il rapporto altero con il carattere divino del potere. Non sembra che fosse stato preso in considerazione un intervento per chiedere a Federico di alleggerire il peso della sua mano sui musulmani ribelli di Sicilia. I discendenti dei principi hammuditi dell'isola tentarono peraltro di avvertire il sovrano ayyubide presentando alla sua corte, a Harran, un resoconto della deportazione a Lucera che è apparso inverosimile agli storici e che è riportato nel Ta'rīkh al-Manṣūrī di al-Hāmawī (Amari, 1889, pp. 42-65). Eppure si tratta senz'altro del racconto migliore e più fedele di un "grande sovvertimento", anche se le cifre sono senz'altro gonfiate: l'imperatore sarebbe giunto con duemila cavalieri e sessantamila fanti, e centosettantamila saraceni avrebbero preso la via dell'esilio. Questi numeri sono palesemente inverosimili, ma un'informazione dev'essere comunque considerata attendibile: secondo l'hammudita, una metà dei saraceni deportati morì nel corso del viaggio sulle strade della Calabria e della Puglia, e si tratta di una percentuale che corrisponde a quella di altre grandi deportazioni.
Élite intellettuale e cultura politica: la continuità della corte normanna. La violenza di Federico nei confronti dei suoi sudditi musulmani ribelli sembra quindi essere stata ben compresa dai sovrani dell'Islam, in nome di questa cultura politica della maestà e della sovranità di origine divina. Già al tempo di Ruggero II la situazione non si presentava diversa, se l'imām fatimide Ḥāfiẓ si congratulò con il sovrano siciliano per aver represso una rivolta nell'isola musulmana di Djerba. Questa comunanza politica si fondava anche su rapporti personali eccellenti con gli ambasciatori e su una curiosità condivisa per la ricerca scientifica. Le relazioni diplomatiche erano mantenute in lingua araba e si avvalevano di siciliani arabofoni che appartenevano all'ambiente degli intellettuali e dei traduttori della corte, come il capo dei notai Giovanni "de Panormo" e l'astronomo capo Teodoro di Antiochia. Federico si adoperò anche per mantenere, nel solco della tradizione regia palermitana, una scuola di palazzo di schiavi letterati destinati a rinforzare la sua cancelleria araba, a fornire traduttori e scrivani. Affidata al maestro Gioacchino, fu installata a Lucera nel 1239 (Bresc, 2000). Sull'altro versante il sultano ayyubide affidò i suoi interessi a un membro illustre dell'élite intellettuale della sua corte, Fakhr al-Dīn, figlio dello shaykh degli shaykh, stimato e onorato da Federico II che gli conferirà l'ordine cavalleresco permettendogli di fregiarsi dell'aquila imperiale, che egli inalbererà sulle mura di al-Manṣūra nel 1250. Scienza delle armi e sapere filosofico sono quindi intimamente legati nella sfera del potere.
L'interesse personale di Federico per il sapere si riallaccia a quello dello zio Guglielmo il Malo e del nonno Ruggero II. Come loro, l'imperatore conosceva l'arabo e poteva avere anche accesso diretto alle fonti astronomiche, matematiche e filosofiche: a partire dal 1233 intrattenne una corrispondenza in arabo con il toledano Judah ben Salomon ha-Cohen sulla geometria. Inoltre si appoggiava a un gruppo di notai e traduttori del palazzo palermitano. L'élite degli intellettuali di corte (Michele Scoto, Teodoro di Antiochia, Jacob Anatoli) coltivava le scienze che permettevano il controllo sulla natura, l'alchimia, l'igiene e, probabilmente, la magia. L'astronomia, con le sue implicazioni astrologiche, rimase al centro dell'attività della corte. La curiosità personale di Federico si indirizzò verso la logica, la medicina, la geometria, l'aritmetica e le scienze speculative. A partire dal 1229 l'imperatore rivolse agli studiosi dei paesi musulmani quesiti ai quali darà risposta il dissidente Ibn Sab῾īn di Ceuta: eternità del mondo, finalità e fondamenti della teologia, numero e senso degli attributi dell'essere.
Il governo della Sicilia insulare rimase infine, come sotto i normanni, affidato a un'élite burocratica pluralista di tecnici e uomini politici fidati di origini diverse. I grandi nobili dell'Italia meridionale devoti alla dinastia assunsero le funzioni militari, le famiglie di notai e di cavalieri del palazzo palermitano ‒ Calvellis, Dumpno, Ebdemonia, Gusla, Naptale, Panormo, Philosopho ‒ assicurarono l'amministrazione della giustizia e degli uffici, e un musulmano convertito occupò la carica centrale, quella di secreto, che oltre alla gestione del fisco imperiale nell'isola attendeva anche a una infinità di compiti politici. Oberto Fallamonica, figlio dello shaykh ῾Abd al-Raḥmān, era senz'altro un cristiano convertito di recente: portava nome e cognome di un genovese, probabilmente il suo padrino, firmava in arabo e disponeva di una cancelleria araba. Fu qā'id di Palermo nel 1229, poi secreto della città, infine incaricato dell'amministrazione dell'intera isola dal 1239 fino alla morte dell'imperatore.
Si può notare, infine, che l'esercito di Federico, impegnato in Italia nei conflitti con le forze pontificie e le città lombarde, includeva contingenti saraceni, anche quando l'armata era mobilitata contro i musulmani di Sicilia. Questo reclutamento mostra la fedeltà che Federico si attendeva dai musulmani, completamente nelle mani del sovrano e isolati in un paese cristiano. L'imperatore prestò così il fianco alle critiche feroci dei partigiani della S. Sede, ma in questo modo si mantenne interamente nel solco della tradizione militare di Ruggero II e dei suoi contingenti di arcieri, all'epoca sotto il comando di qā'id cristiani. Sotto Manfredi e Carlo d'Angiò, invece, i musulmani, insigniti dell'ordine cavalleresco, saranno alla testa di queste forze.
Una situazione deteriorata che porta alla rottura. È difficile comprendere la decisione presa da Federico II di deportare i musulmani di Sicilia a Lucera senza fare un rapido passo indietro: se pure è arduo valutare l'immigrazione degli arabo-musulmani nell'isola sotto la dominazione islamica, una serie di indizi ‒ cronache, toponimi, onomastica ‒ consente di intravedere una situazione regionale variata, all'interno della quale i Valli di Mazara e di Noto appaiono profondamente arabizzati, senza che ciò sia sinonimo di un'immigrazione massiccia, mentre invece il Val Demone svolge un ruolo di conservazione della memoria greca insulare.
Al tempo della conquista dell'isola da parte degli Altavilla, le località si sottomisero a certe condizioni, secondo formule che ricordano stranamente la prassi musulmana in materia (Johns, 2002), a dispetto del carattere vago delle descrizioni fornite dai cronisti Amato di Montecassino e Goffredo Malaterra. È certo, inoltre, che l'imposta di capitazione versata dai non musulmani (dhimmī) nel periodo precedente (la ǧizya) era ormai dovuta dagli ebrei e dai musulmani: il modello d'imposizione musulmano in questo caso è invertito. Gli studi recenti, in compenso, hanno scartato l'idea di un villanaggio comune a tutti i musulmani della Sicilia normanna (Nef, 2000; Johns, 2002). I contadini arabo-musulmani, come i greci, erano soggetti a una doppia imposta, una capitazione e un'imposta fondiaria. È probabile, inoltre, che il loro progressivo allontanamento, senz'altro spiegabile con il degradarsi della situazione, i cui termini ci sfuggono per la mancanza di documentazione, avesse comportato un rafforzamento del loro legame con la terra alla fine di questo periodo (cf. i documenti di Guglielmo II riguardanti l'arcivescovato di Monreale nel 1183: I diplomi greci, 1868-1882, pp. 245-286).
Se appare difficile pensare ancora oggi a una suddivisione dei gruppi di popolazione fra musulmani dei casali e/o greci delle 'terre' fortificate, è innegabile che la politica di popolamento lombardo sviluppata dagli Altavilla sfociò nella formazione di un cordone di castra fra i Valli di Noto e di Mazara, le due regioni maggiormente arabizzate. Vaccaria, Sperlinga, Nicosia, Maniace, Capizzi, Randazzo, Piazza, Mazzarino, Butera furono le piazzeforti interessate da questa politica di popolamento latino.
Inoltrandosi nel secolo, l'equilibrio al quale aveva dato origine lo statuto di inferiorità regolamentata degli arabo-musulmani appare quindi sempre più precario. Tuttavia, è intorno all'esercizio del potere che si cristallizzarono le tensioni. I convertiti, in gran parte eunuchi originari delle regioni extrainsulari che le fonti descrivono come agenti indispensabili dell'amministrazione centrale, focalizzarono gli odi. In genere si analizza come primo segno tangibile del solco che si era scavato fra i gruppi culturali ‒ e che non tarderà ad approfondirsi ‒ il processo contro l'eunuco Filippo di Mahdia, emiro di Ruggero II: accusato di tradimento in occasione dell'attacco di Bona nel 1153, perché avrebbe agevolato la partenza delle élites dalla città, fu messo al rogo di fronte al palazzo reale nel 1153. Nel 1161 le comunità musulmane furono vittime di violenze; gli oppositori più estremisti di Maione di Bari, principale consigliere di Guglielmo I, si rifugiarono nelle piazzeforti lombarde del Val di Noto dove scoppiarono pogrom contro i musulmani. Con questo gesto i ribelli denunciavano i privilegi di cui avrebbero goduto gli eunuchi convertiti della corte normanna. Accusate di essere docili strumenti della monarchia ‒ sia a Palazzo che fra le truppe che giunsero a combattere contro i ribelli ‒, queste comunità musulmane furono vittime di massacri, prima a Palermo, dove erano state disarmate l'anno precedente per ordine di Maione, poi, come in una sorta di propagazione, in Val di Noto.
In un certo senso quest'evento pose fine a una delle condizioni sine qua non del pagamento della ǧizya, almeno in teoria, secondo il diritto musulmano: l'impegno del sovrano a garantire la sicurezza dei sudditi che la versavano. Fu uno dei leaders di questo movimento di opposizione, Tancredi ‒ bastardo di Ruggero duca di Puglia, figlio di Ruggero II, quindi nipote di Guglielmo I ‒, a salire al trono nel 1190.
La fine della monarchia normanna e la crisi delle comunità arabo-musulmane. I pogrom contro i musulmani che scoppiarono nuovamente a Palermo alla morte di Guglielmo II, nel 1189, illustrano il rapporto fra l'indebolimento dell'autorità regia, garante dello statuto dei musulmani, e il rifiuto della tirannia di cui erano ritenuti responsabili gli eunuchi di corte. Fu però l'ascesa al potere di Tancredi a far precipitare gli eventi. Se nel 1161 questi gruppi di convertiti si erano spostati dal Val di Noto verso il Sud dell'isola, nel 1191 i musulmani di Palermo raggiunsero il 'rifugio' del Corleonese e delle regioni più meridionali capeggiati da cinque reguli che avevano rifiutato di servire il nuovo sovrano (Riccardo di San Germano, 1936-1938, p. 64; Gesta Regis Henrici, 1867, p. 141).
Una volta conclusa la pace con Riccardo Cuor di Leone nella primavera del 1191, Tancredi fu libero di porre fine alla ribellione; gli agitatori allora preferirono concludere un accordo che prevedeva, per chi se ne era allontanato, il ritorno ai casali alle condizioni di cui avevano goduto in precedenza. Per alcuni anni la situazione sembrò pacificata, incluso il periodo sotto la sovranità di Enrico VI e di Costanza. Alla morte dell'imperatrice, nel novembre 1198, mentre alcune consorterie si contendevano il controllo della reggenza, i musulmani si schierarono al fianco di Marcovaldo di Annweiler contro il papato e i suoi rappresentanti locali, in questo caso i prelati palermitani. I baroni siciliani ne approfittarono per impadronirsi dei possedimenti delle chiese e, in particolare, dei coltivatori musulmani: questi ultimi scelsero l'anacoresi e una pericolosa libertà. Ne derivò quindi un'estrema confusione: i grandi baroni si assicurarono il controllo delle città essenziali per il potere regio all'epoca assente, come per esempio Guglielmo Capparone ad Agrigento, e i monaci benedettini di Monreale tennero i castelli di Monreale, Iato e Calatrasi per conto di Marcovaldo. Nel luglio 1200 uno scontro militare combattuto fra Palermo e Monreale si concluse per Marcovaldo e i suoi alleati con una rovinosa sconfitta, nella quale perse la vita Magded, uno dei capi militari arabo-musulmani.
Questa vittoria offrì al pontefice sovrano Innocenzo III l'opportunità di un'apertura diplomatica con cui cercò di ottenere la neutralità dei musulmani. Nel 1206 indirizzò una missiva ai qāḍī, ai qā'id e a tutti i "sarraceni" di Sicilia, chiedendo loro fedeltà al giovane re Federico II. I toponimi menzionati nel documento erano tutti situati tra il Corleonese e l'entroterra agrigentino (Iato, Entella, Platano e Celso). Il tentativo non ebbe alcun esito. Conferma però che la struttura giudiziaria e politica delle comunità musulmane all'epoca era ancora in piedi: a Palermo il qāḍī (archadius, alcalde) interviene nel 1202 in un giudizio, nel 1207 viene menzionato il suo giardino e nel 1211 il mulino sull'Oreto che forniva il suo reddito.
La rottura di Federico II con i musulmani di Sicilia: da Palermo a Lucera. Gli anni seguenti videro Federico II impegnato in Germania e questa vacanza di potere favorì l'emergere di un'autorità musulmana nel cuore della Sicilia dove Muḥammad Ibn ῾Abbād (Mirabetto), in data sconosciuta, divenne il capo della ribellione. Assunse quindi il titolo califfale di amīr al-muslimīn ('principe dei musulmani'), d'ispirazione almoravide, e batté moneta: dei denari modellati su quelli di Federico II (D'Angelo, 1975). Il solo testo che fornisca qualche notizia in più su questo personaggio è il Ta'rīkh al-Manṣūrī di al-Hā-mawī. Secondo l'autore, Ibn ῾Abbād, originario di Mahdia in Ifriqiyya, era giunto in Sicilia durante l'adolescenza e qui aveva sposato la figlia di Ibn Fakhir, al quale succedette alla testa della ribellione. Nulla consente di avvalorare questa versione, ma la relativa precisione cronologica del racconto e lo scarso interesse che rappresenta l'invenzione di un simile dettaglio rendono plausibile la nascita extrainsulare del ribelle. Le grandi città e i centri religiosi della Sicilia occidentale, in particolare Palermo, Agrigento e Monreale, furono bersaglio di attacchi e vi furono presi di mira i simboli cristiani. La veemenza della battaglia fu all'origine della leggenda, ripresa da al-Ḥimyarī, che una figlia di Ibn ῾Abbād avrebbe proseguito la rivolta nel sito fortificato di Entella allo scopo di vendicare suo padre rimasto vittima di un tradimento dell'imperatore, il quale l'avrebbe fatto annegare dopo la sua resa (cf. De Simone, 1984: nella descrizione di Entella). Un grande dār isolato è stato scavato a Entella nel punto più elevato del sito: comprendeva una porta fortificata, due corti fiancheggiate da lunghe stanze, un piccolo bagno turco e una scala che conduceva a un piano o a una terrazza (A. Coretti, Entella, in Federico e la Sicilia, 1995, pp. 92-118). La sua architettura corrisponde ai canoni classici della grande casa dei paesi islamici; restituisce l'immagine di una società aristocratica e permette di farsi un'idea delle istanze sociali e religiose della rivolta.
Di ritorno in Sicilia nel 1220, Federico II ordinò che i beni e i contadini che dipendevano dall'arcivescovato di Monreale fossero restituiti. In quell'anno la comunità di Palermo sembra essersi disgregata: il qāḍī vendette al monastero greco di S. Maria della Grotta un cimitero musulmano, detto El Mungus, situato fuori delle mura all'altezza di Porta Termini. Il quartiere di Seralcadi, abitato tradizionalmente da musulmani, non fu più che una stazione di sosta nella quale transitavano i prigionieri diretti in Puglia.
A partire dal 1221 fu lanciata la controffensiva imperiale, in cui furono coinvolte importanti truppe. Se pure le circostanze della morte di Ibn ῾Abbād, attribuita all'imperatore, sono rimaste oscure, essa dovrebbe risalire all'incirca al 1222. Tuttavia quest'evento non coincise con la conclusione della rivolta e nel 1223 Federico II pose sotto assedio Iato. I primi prigionieri furono quindi tradotti a Lucera. Gli scavi hanno dimostrato che Iato era stato un rifugio sovrappopolato: il sito della città antica presenta un'urbanizzazione di case strette e addossate l'una all'altra, e l'imperatore eresse un castello d'assedio per bloccarne l'accesso. Fino al 1225 continuarono i combattimenti fra i ribelli e i baroni che appoggiavano l'imperatore: in questa data avvenne la capitolazione che alimentò il popolamento di Lucera. Il decennio successivo fu segnato da disordini durante i quali l'imperatore alternò le minacce ai favori, mentre gli esiliati tentavano di riguadagnare la Sicilia. La guerra si era estesa al Val di Noto: il barone di Pietraperzia fu preso prigioniero e spogliato dei suoi beni nei pressi di Piazza Armerina; il vescovo di Agrigento fu catturato dai rivoltosi e incarcerato per quattordici mesi nel castello di Guastanella, intorno al 1230; i saraceni avevano nelle loro mani anche la cattedrale, da cui espulsero il clero, e le campagne. Nel 1239 la corrispondenza di Federico II documenta che i saraceni erano ancora abbastanza numerosi per svolgere delle mansioni al servizio della corte imperiale, in particolare come pastori: avevano preso in affitto, ad esempio, le sue greggi di pecore (Historia diplomatica, V, p. 502). Ma i raffinati lavori agricoli che spettavano ai saraceni ora erano stati affidati agli immigranti ebrei del Gharb, che li sostituirono come coltivatori di piante tintorie, henné e indaco.
Nel 1243 ripresero i combattimenti intorno a Iato ed Entella. Nel 1246 la ribellione fu stroncata definitivamente e i saraceni siciliani, quando venivano localizzati, erano trasferiti a Lucera. Per la Sicilia occidentale fu un colpo terribile che la lasciò dissanguata: scomparve una serie di siti fortificati, come al-Khazan, Calathali, Calathamet, Entella, Hasu, Iato, Mirga, Platano, Qal῾at al-Jalsu, Qal῾at al-Tarīq, tutti situati all'interno (o in prossimità) dei confini dell'arcivescovato di Monreale e nell'entroterra agrigentino (cf. Dagli scavi di Montevago, 1990). La regione in seguito fu teatro di vari tentativi di ripopolamento, in cui i Teutonici svolsero un ruolo non trascurabile come concessionari di terre abbandonate. Non rimase che un numero esiguo di saraceni liberi, artigiani e mercanti, a Palermo e Messina, considerati cittadini ma ormai privi di un'organizzazione comunitaria religiosa, senza contare gli schiavi sempre numerosi ma d'origine straniera, prigionieri maghrebini e neri islamizzati.
Conclusioni. Federico II, quindi, impiegò oltre due decenni per riprendere il controllo di uno spazio insulare sottratto alla sua autorità dalla ribellione arabo-musulmana. Spese in quest'impresa anni preziosi, dall'aprile 1222 al marzo 1225. Ma sarebbe sbagliato vedervi la riduzione di una frontiera interna che di fatto non è mai esistita. Il problema fu più politico che territoriale. La soluzione, radicale, che si privilegiò fu l'unica che si confacesse a una concezione dell'autorità regia che non tollerava di essere rimessa in discussione in alcun modo. È importante sottolineare che le comunità arabo-musulmane rappresentarono solo uno dei gruppi che si scontrarono con questa prassi di potere. La colonia di Lucera, in compenso, corrispose abbastanza bene alla concezione imperiale della posizione e della funzione di queste comunità all'interno dell'edificio regale: una nobiltà al servizio del sovrano, isolata dalla popolazione, sottomessa e a profitto della grandezza regia; una situazione, tutto sommato, alquanto vicina a quella della corte degli Altavilla. Questa caratteristica dà una risposta alla sorpresa espressa da David Abulafia che si è chiesto perché Federico II non abbia cercato di trasformare le spedizioni militari in crociata religiosa. Ma non era quello l'obiettivo, proprio come la ribellione non era presentata dalle fonti come un ǧihād: qui era in gioco la possibilità per i musulmani di restare entro i confini dello spazio insulare e di partecipare alla vita politica, economica e culturale.
La guerra saracena ebbe anche ripercussioni sul Regno siciliano di Federico II: senza dubbio contribuì a stabilire e a giustificare l'annualità della colletta, le nuove imposte indirette e i monopoli dei nova statuta. Le mobilitazioni dell'esercito furono massicce nel 1223 e nel 1225, ma fu anche il canto del cigno dello stato demiurgico di tradizione bizantina: la deportazione in massa e l'insediamento forzato di popolazione favorivano il rafforzamento delle frontiere e preparavano l'assimilazione. Federico, come i normanni, fece ricorso a questi trasferimenti che si accompagnavano alla distruzione simbolica delle città ribelli: gli abitanti di Celano raggiunsero Malta nel 1224, quelli di Centorbi e di Capizzi andarono a ripopolare Palermo nel 1233 e molti spostamenti locali consolidarono i centri creati da Federico, sia le città (Augusta, Eraclea/Terranova) che i casali. Ma con la costituzione del blocco di Lucera il sistema fu spinto all'eccesso, al prezzo di una mobilitazione di forze esorbitanti.
La guerra, infine, modificò l'equilibrio delle culture: l'arabismo, a lungo assunto congiuntamente dai musulmani, dai cristiani di rito greco e dagli ebrei, ebbe ormai come unici supporti gli ambienti degli ufficiali di palazzo a Palermo, riuniti intorno alla chiesa dell'ammiraglio Giorgio d'Antiochia (la Martorana), e gli ebrei, rafforzati da un'ondata d'immigrazione proveniente dal Gharb. Dagli anni Ottanta del Duecento gli ebrei furono gli unici eredi della cultura araba nell'isola (Bresc, 2001): parlarono e scrissero in arabo fino alla loro espulsione nel 1492-1493. Furono loro a fornire i traduttori e gli interpreti di cui si avvalsero gli Angioini, poi gli Aragonesi e gli ambienti intellettuali palermitani: maestro Mosè di Palermo (1278), Faraj ben Salomon di Agrigento (1282) e il convertito Guglielmo Raimondo Moncada, maestro d'arabo e di cabala di Pico della Mirandola nella seconda metà del XV secolo.
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Traduzione di Maria Paola Arena