Liliana Segre racconta la sua storia d'amore con il marito cattolico
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Riprendiamo sul nostro sito l'intervista di Luciano Piscaglia a Liliana Segre per TV2000. Per approfondimenti, cfr. la sezione Voci dalla Shoah.
Il Centro culturale Gli scritti (22/9/2019)
«Mi capì vedendo il tatuaggio». Liliana Segre, il primo amore al ritorno da Auschwitz «Con Alfredo sono rinata, rischiavo di impazzire», di Alessia Rastelli
Riprendiamo dal Corriere della Sera del 13/8/2012 un articolo di Alessia Rastelli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Voci dalla Shoah.
Il Centro culturale Gli scritti (4/8/2019)
«So cos'è, mi disse vedendo il tatuaggio sul mio braccio. E io mi sentii capita, senza bisogno di dire niente». È il primo incontro di Liliana Segre - ebrea sopravvissuta ad Auschwitz, - con Alfredo. «L'uomo che poi è diventato mio marito - racconta -. E senza il quale, forse, sarei diventata una di quelle donne che entrano ed escono dai manicomi, considerate "strane" dalle loro stesse famiglie».
Vita nuova . Vita rinata grazie all'amore. A sentir parlare la Segre, sembra che quel miracolo dei sentimenti che Dante fissa per sempre nel titolo della sua opera per Beatrice, non appartenga solo al mondo di carta della letteratura ma alla realtà. Persino quando viene intaccata dal male più profondo: Liliana fu deportata quando aveva tredici anni.
«Al ritorno dal lager ero un animale ferito, diversa dalle mie coetanee, una ragazza goffa che non riusciva a integrarsi con gli altri e avvertiva in tutti un nemico - confessa -. Ma nonostante tanto orrore e solitudine, con Alfredo e per Alfredo sono riuscita di nuovo a dare e ricevere amore».
Estate del 1948. La Segre ha 18 anni. Dopo lo sterminio nazista vive con i nonni materni, di origini marchigiane, unici superstiti della sua famiglia. Abita a Milano ma per le vacanze si sposta al mare, a Pesaro. «Uscivo sempre accompagnata, come si usava all'epoca - racconta -. E già il giorno del primo bagno l'ho conosciuto».
Alfredo Belli Paci, cattolico, laureato in Giurisprudenza, era allora un praticante in uno studio legale di Bologna. «Ma nel 1943 era stato uno dei seicentomila "no", uno dei soldati italiani catturati che non vollero aderire alla Repubblica sociale e furono rinchiusi nei campi di prigionia» spiega Liliana. «Fu spostato in sette diversi lager. Per questo li aveva visti, quelli come me» aggiunge con pudore, senza mai nominare la parola «deportati».
Il miracolo semplice di Alfredo è avere fatto di lei una donna normale. «Proprio io - racconta la Segre -, traumatizzata dai distacchi, lontana anni luce dall'idea di avere un fidanzato. Piuttosto, dopo tutto quello che avevo passato, mi proiettavo nel futuro da sola, mi concentravo nello studio e sognavo di fare la giornalista».
Poi però, ricorda, sono arrivate le emozioni delicate di una giovane donna - di una giovane donna qualunque, sottolinea -, di quell'età. Il primo bacio, dato scappando alla sorveglianza dei nonni, a pochi passi dall'hotel di Pesaro dove lei soggiornava. Gli appuntamenti clandestini nei caffè di Milano. Il fidanzamento ufficiale e il matrimonio. «Alfredo mi ha preso per mano, affascinato da me proprio perché ero così diversa da tutte le altre: più matura nella testa ma ingenua sentimentalmente, un bocciolo ancora tutto da schiudersi» confessa la Segre.
Il segreto: la solidità. «Non si è spaventato e non è scappato di fronte alla mia storia - dice Liliana -. Per me ha messo da parte i suoi stessi traumi di prigioniero. Sono stata sempre e solo io, in famiglia, la persona da proteggere».
Nei primi tempi del matrimonio ma anche negli anni successivi, quando l'entusiasmo e la felicità di giovane sposa non sono più bastati a ovattare gli echi di un passato con cui fare i conti. Parla di una depressione molto forte, la Segre, quando aveva 46 anni e perse l'anziana nonna, ultimo legame con la famiglia distrutta. Poi, intorno ai 60 anni, la consapevolezza di non avere ancora «fatto il proprio dovere» e la scelta di diventare una testimone della Shoah.
«Quando lo comunicai ad Alfredo si preoccupò che per me fosse troppo doloroso. Ma mi appoggiò» ricorda Liliana. «Da allora - prosegue - ho girato centinaia di scuole e parlato a migliaia di studenti. Ogni volta mio marito mi aspettava a casa e mi chiedeva "Come è andata amore mio?". E io varcavo la soglia e riuscivo a lasciare tutto fuori. Da quando è morto, invece, quattro anni fa, è molto più difficile rientrare e rimanere da sola con i miei fantasmi».
Resta quello che con Alfredo ha costruito. «Siamo stati una famiglia, abbiamo auto tre meravigliosi figli e tre nipoti» dice Liliana, ancora a Pesaro in questa estate di oltre sessant'anni dopo. Insieme con lei c'è Filippo, il più piccolo dei nipoti, di otto anni. «Pochi giorni fa - racconta la Segre - mi ha detto: "Nonna, tu sei il mare, io sono un'onda". Allora penso che non avrei potuto chiedere di più. E che, nonostante Auschwitz, alla fine ha vinto la vita».
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