Chiesa in Italia oggi e catechesi degli adulti: una sfida e un compito prioritario per gli anni '90: la questione della fede, di Camillo Ruini

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 20 /07 /2010 - 22:45 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo alcuni passaggi da una relazione dell'allora segretario generale della CEI Camillo Ruini, Chiesa in Italia oggi e catechesi degli adulti: una sfida e un compito prioritario per gli anni '90, pubblicata in Ufficio Catechistico Nazionale, Adulti e catechesi nella comunità. Orientamenti per la catechesi degli adulti/2, Leumann, Torino 1991, p. 25. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (17/7/2010)

(pp. 20-23)

I. CULTURA DELLA SOGGETTIVITÀ

Tutti sappiamo, ed è cosa ovvia, che, mentre assistiamo a questa caduta dei falsi assoluti, risulta molto vitale quella che noi chiamiamo cultura della soggettività, della provvisorietà, e – aggiungo – della relatività (nel senso in cui ne parla la nostra filosofia tradizionale): relatività e relativismo in base ai quali ogni affermazione, ogni posizione, ogni ideale viene relativizzato e così reso inevitabilmente provvisorio. Non è certo il caso di demonizzare la cultura della soggettività, di cui riconosciamo anzi i valori, in quanto, sia pure in maniera inadeguata, in maniera frammentata, vuol fare riferimento al soggetto umano e alla sua importanza: ciò è indubbiamente un fatto positivo, qualcosa che come cristiani non possiamo che valorizzare.

Aspetti negativi

Tuttavia, in questa cultura della soggettività, ha luogo anche di fatto, incontestabilmente, una soggettivizzazione della fede, non soltanto nel senso di una fede resa personale, che è un dato evidentemente positivo, ma di una fede che diventa troppo relativa al singolo soggetto, alle sue esperienze, alle sue inclinazioni. Una fede che, anzitutto sul piano oggettivo, viene frazionata con una scelta che spesso non la coglie nella sua integralità, ma solo in qualche sua parte, e viene anche «relativizzata», cioè considerata dal soggetto come un punto di vista tra gli altri; un punto di vista interessante, che ha una sua validità, ma che non può andare al di là di questo livello: sta tra gli altri, e allo stesso livello degli altri.

Fede relativizzata nel campo morale e in quello del dogma

Questo aspetto è più visibile nella fede che riguarda i comportamenti morali, ma non credo che sia proprio solo del campo morale. È un fenomeno generale che coinvolge la fede nella sua globalità e che emerge di più nei profili morali perché sono quelli che più immediatamente riguardano il vissuto della gente, rispetto ai quali la gente è costretta a esprimersi, a prendere posizione se non a parole, con i fatti e i comportamenti.

Se interrogassimo la gente sotto quelli che potremmo chiamare i profili dogmatici della fede, credo che – ammesso che la gente sia in grado di esprimersi in maniera consapevole su tali profili – troveremmo gli stessi problemi. Il relativismo è dunque oggi un problema generale della fede.

C’è la tendenza, per esempio, a ridurre la fede alla soddisfazione del bisogno religioso. Certamente la fede non può non soddisfare il bisogno religioso, se c’è, ma questo non basta, non è questo il tutto della fede, anzi, se la riduciamo a questo profilo, certamente la snaturiamo, perde la sua natura teologale. Conseguentemente l’appartenenza alla Chiesa è spesso un’appartenenza debole, non molto impegnata, che non coinvolge fino in fondo, e che a sua volta è soggetta a queste categorie di soggettivizzazione e di relativizzazione: «Appartengo a condizione che... appartengo per certi profili... comunque non mi immedesimo, non considero questa mia appartenenza come un riferimento centrale della mia personalità».

Profilo prevalentemente terreno della Chiesa

Aggiungo che l’immagine oggi più diffusa nella coscienza collettiva dell’opinione pubblica riguardo alla Chiesa è quella che tendo a chiamare «immanente»; una Chiesa cioè molto considerata sotto il profilo terreno e assai poco considerata sotto il suo profilo trascendente. Sappiamo che nella Chiesa i due profili terreno e trascendente stanno insieme e formano l’unica realtà della Chiesa. Il profilo terreno oggi è molto considerato, l’altro molto meno. Dobbiamo dire che è sempre stato così e forse è naturale che sia così, ma bisogna tener presente che a uno sguardo di fede il profilo terreno è sempre riferito al profilo trascendente. Quando questo riferimento non è più forte, allora vuol dire che la Chiesa è poco guardata con l’occhio della fede, ma è guardata con un altro tipo di approccio.

In questa chiave si spiega un fenomeno curioso, messo in luce anche da alcune inchieste: la Chiesa è poco collegata a quelli che sono gli interrogativi religiosi più profondi, è vista più come una realtà socialmente influente, in senso positivo o anche in senso negativo secondo i giudizi, ma è meno considerata come una realtà che risponde agli interrogativi profondi della persona: quelli che riguardano il senso della sua esistenza, in parole più specificamente religiose, il suo rapporto con Dio. Abbiamo un forte individualismo religioso tuttora presente malgrado l’impegno profuso in questi anni di far comprendere e crescere la Chiesa come soggetto comunitario; questo perché la domanda religiosa spesso slitta verso altri approcci, che non stanno dentro alla dimensione propriamente ecclesiale.

(pp. 24-25)

II. PROPRIETÀ E CENTRALITÀ DELLA EDUCAZIONE DELLA FEDE

La prima considerazione che ne traggo e che mi sembra ovvia è questa: l’evangelizzazione, nel senso anche di educazione alla fede, quindi in senso pieno, globale, acquista una crescente priorità e centralità di lunghissimo periodo: l’abbiamo affermata come Chiesa italiana già negli anni ’70. Priorità in particolare rispetto ad alcuni importanti problemi del rapporto Chiesa-mondo, i quali per certi aspetti entrano anche loro evidentemente nell’evangelizzazione. Preme sottolineare che questi problemi non stanno al centro, dove potrebbero stare se si potesse supporre una adesione tranquilla alla fede, alla Chiesa, ecc.; allora l’accento e la preoccupazione maggiore della pastorale potrebbero essere forse rivolti a questi problemi. Ma oggi non si ha questa situazione di adesione tranquilla, né alla fede né alla Chiesa, e quindi la priorità va su quelle realtà che sono le più essenziali. Possiamo dire, in altre parole, che c’è bisogno di un reincentramento sulla trascendenza, sul contenuto centrale della fede che è il Dio di Gesù Cristo e quindi la nostra vita in Cristo.

La questione della fede nella nostra epoca

Non è solo una questione di contenuti, pure essenziali alla catechesi e alla evangelizzazione, ma anche e prima ancora del motivo della fede.

Dio che si rivela e si comunica

Il motivo della fede è Dio che si rivela e si comunica. In altre parole, il problema riguarda, prima che il contenuto della fede, il credere, l’atto, la scelta del credere, quella che in termini tradizionali si chiama «fides qua creditur» (la fede con la quale si crede) prima ancora della «fides quae creditur» (la fede che si crede). Si tratta, in altri termini, di aprire l’orizzonte umano alla Rivelazione. Questa è l’istanza decisiva, di fronte a cui la Chiesa si trova da molto tempo e non solo in Italia. Non è affatto un problema nuovo, ma certamente quello centrale del cammino della Chiesa nell’epoca moderna, all’Illuminismo in poi.

(pp. 27-28)

Rompere queste chiusure, perché? Semplicemente per aprire alla Rivelazione. Non solo dunque per aprire genericamente all’orizzonte della trascendenza, ma a un orizzonte nel quale la trascendenza prende l’iniziativa e si fa prossima, si rivela e si mette in dialogo salvifico con noi. Quindi aprire alla Rivelazione cristiana.

La verità che salva

Qui, inevitabilmente si pone la questione della verità, insieme a quella della trascendenza. Non possiamo evitare questo problema. Si può affermare in termini un po’ provocatori che in ultima analisi, essendo questione di verità e di trascendenza, è anche questione metafisica. In questo senso la Chiesa si fa custode nel nostro tempo di qualcosa che appartiene al patrimonio essenziale dell’umanità e che è appunto l’apertura metafisica. Non voglio fermarmi su questo problema: è chiaro che la catechesi non ha il compito di fare ragionamenti metafisici, nel senso tecnico e formale. Quello che voglio dire è che comunque la catechesi non può solo educare a una mentalità di fede basata sul «comportamento come se Dio si fosse rivelato, come se Gesù Cristo fosse veramente il Figlio di Dio, ecc.». L’obiettivo della catechesi è più impegnativo: è convincere la gente che veramente Dio si è rivelato in Cristo, che veramente Cristo è il Figlio di Dio. Sono cose ovvie per noi, però sono il vero punto di sfida che abbiamo davanti nella pastorale concreta, di fronte e in dialogo con la nostra gente, compresi i praticanti. Nemmeno bastano gli argomenti di utilità: «La fede è bella, è utile, serve socialmente, serve a vivere meglio...». Tutto questo è giusto e vero, dobbiamo ricordarlo, ma guai se ci limitiamo a questo livello.

Gli argomenti di utilità, anche di quella che potremmo chiamare «utilità nobile» (che si riferisce ai problemi esistenziali), non sono un approccio sufficiente a far decidere la vita per Gesù Cristo. Né il come se, né l’utilità saranno mai motivi per i quali uno spende la propria vita. Sappiamo che la formazione cristiana ha un obiettivo altissimo: quello di portare alla sequela di Cristo, ad esser disposti a prendere la croce, addirittura al martirio. Questo non è accidentale. È costitutivo della figura del cristiano. E pertanto il come se e la convinzione di una utilità non bastano. Ci vuole una convinzione assoluta, che appunto è la convinzione di fede.

Solo questa fa spendere la vita e rende autenticamente missionari. Altrimenti rimaniamo in un orizzonte di relatività, nel quale ciascuno si tiene la propria convinzione. Con questo non voglio dire che dobbiamo costringere a credere, ma che dobbiamo possedere la convinzione di aver ricevuto in dono una verità che salva e che esige un impegno totale ad esser vissuta e ad esser comunicata.

(pp. 29-30)

Sul versante oggettivo

Su questo versante non credo che dobbiamo in alcun modo cedere a un’alternativa tra il discorso su Dio e il discorso sull’uomo. È fondamentale quel che affermano sia il Concilio sia Giovanni Paolo II, in particolare nella Dives in misericordia, sulla necessaria integrazione in Cristo di teocentrismo e antropocentrismo. Questa formulazione, a mio avviso, è più esplicita e indica qual è la vera portata del cristocentrismo. L’integrazione in Cristo del teocentrismo e dell’antropocentrismo costituisce una della caratterizzazione qualificanti l’evangelizzazione e la catechesi degli adulti.

Evangelizzazione e catechesi nell’ottica religioso-morale-salvifica

Va precisato brevemente il significato di questo binomio, evangelizzazione e catechesi, riferito agli adulti. La catechesi degli adulti rientra nell’evangelizzazione intesa nel suo senso pieno. Anche se intendiamo evangelizzazione in un senso più ristretto, di primo annuncio, dovremmo tener presente che in un Paese come l’Italia è sempre difficile distinguere quali sono i soggetti a cui va rivolto il primo annuncio e quelli a cui deve essere rivolta la catechesi.

C’è un dato curioso che emerge dalle indagini che si stanno facendo in rapporto alla campagna di informazione per il sostegno economico alla Chiesa: i praticanti, secondo le statistiche, sono il 20-25 per cento della popolazione, ma secondo l’autocoscienza della gente sono il 70 per cento. Perché il 70 per cento dice: «Io in Chiesa qualche volta ci vado, mi considero quindi praticante, se non fossi praticante non ci andrei mai». È una mentalità curiosa, per cui poche persone si considerano del tutto fuori della Chiesa. Una grande parte si considera almeno parzialmente dentro la comunità cristiana. E questo ha precise conseguenze per la pastorale della Chiesa, che vanno attentamente valutate.

L’evangelizzazione e la catechesi non solo possono, ma devono farsi carico di tutta la realtà umana e dei problemi di oggi. Affermare che urge un ricentramento sull’orizzonte della trascendenza non significa affatto eliminare dalla catechesi tutto lo spessore di problemi che l’uomo incontra nella sua vita, nel vissuto quotidiano, che è poi quello che di gran lunga interessa di più la gente. Tutto questo deve rientrare nell’evangelizzazione e nella catechesi, però dentro l’ottica loro propria che è quella religioso-morale-salvifica, e non sostituendo mai la proposta esplicita di Cristo. Così facendo non operiamo affatto, come potrebbe sembrare, un restringimento intraecclesiale o intrareligioso. Al contrario, ponendo le questioni di fondo, la questione della verità, coinvolgiamo essenzialmente l’uomo, perché il vero problema che lo interessa è anzitutto quello di chi egli veramente sia.

Mettere al margine questa domanda comporta una serie di conseguenze negative. Nel campo del vissuto concreto, dell’etica, della cultura, della stessa economia, della politica, la minaccia più grave che incombe anzitutto sulla nostra civiltà occidentale è proprio il mettere tra parentesi questo tipo di domanda sulla verità dell’uomo, e quindi il non percepire più la dimensione vera dell’uomo, che non si riduce solo a una componente della natura. Annunciando la verità sull’uomo, ponendo questo problema, la Chiesa fa dunque un enorme servizio alla società. E anzitutto alla persona, se è vero che la persona soffre di crisi di identità. Alla fine la risposta che decide dell’identità del singolo soggetto è la risposta che riguarda più ampiamente l’uomo. Solo rispondendo alla domanda «Chi è l’uomo?» si può costruire davvero la propria soggettività e identità personale.

(pp. 31-32)

Fede teologale e apertura al concreto dell’esistenza

La fede è vita, è scelta globale che non si fa soltanto con l’intelligenza e la volontà. Impegna fino in fondo la persona, perché implica tutto me stesso e la piena sequela di Cristo. E tuttavia la dimensione dell’intelligenza non può mai essere messa tra parentesi, non può mai essere isolata, sostituita, eliminata. Se la eliminiamo, rimaniamo fatalmente in un ambito di fragilità. Ma è proprio a partire dalla pratica concreta dell’amore cristiano che si aprono per la catechesi e per l’evangelizzazione le migliori possibilità: sia verso i vicini sia verso i lontani. Si aprono possibilità di aggregare quella che possiamo chiamare «la Chiesa più ampia», che abbraccia anche coloro che, senza esserne pienamente consapevoli, nel concreto della loro vita dicono di sì al Dio di Gesù Cristo.

La via della carità è la via che più facilmente aggrega questa Chiesa più ampia. È anche la via privilegiata di una evangelizzazione e catechesi «equivalente», attraverso il linguaggio del gesto e della testimonianza che può raggiungere molte persone non raggiungibili altrimenti. Ma questo itinerario tende oggettivamente, per sua dinamica intrinseca, alla confessione esplicita della fede e all’appartenenza piena alla Chiesa. Noi dobbiamo offrire, nel rispetto della persona e della sua libertà, vie che portino alla confessione esplicita, all’adesione esplicita. Questo è molto importante per il modo in cui in concreto si organizzano la catechesi e l’evangelizzazione.

Abbiamo fatto riferimento all’esperienza dell’amore. Ma c’è anche un’altra forma di esperienza strettamente collegata, che non possiamo mai dimenticare quando parliamo del nostro rapporto con Dio. C’è un passaggio, che deve essere in qualche modo esperienziale, dalla intersoggettività umana alla intersoggettività trascendente, cioè al rapporto con Dio Padre-Figlio-Spirito: la nostra immanenza nella Trinità e l’immanenza di Dio Padre, Figlio e Spirito in noi. È l’esperienza che è data nella preghiera comunitaria, liturgica, e nella preghiera personale. L’esperienza di Dio è anzitutto quella che si fa nella preghiera e nel mettersi in ascolto.

Il cammino della Chiesa italiana per quanto riguarda la riforma liturgica è stato nel complesso sereno e ha portato molti risultati positivi, senza provocare quelle tensioni acute che ci sono state in qualche Paese vicino. Ma c’è la necessità di andare oltre, curando quella pedagogia della fede che si sviluppa non solo nella catechesi ma anche attraverso i riti. Va curata pertanto l’attitudine dei riti a esprimere il senso della presenza e del mistero di Dio.

La catechesi degli adulti, e dei giovani in particolare, non può prescindere da questa capacità di interrogazione e di risposta che parte dall’esperienza umana globale e che però si pone, anche in termini riflessi, le domande ultime. C’è necessità di educare e di esplicitare la fede teologale partendo dal concreto dell’esperienza, ma cogliendo tutto ciò che è implicito in questa esperienza e cercando sempre di superare la pur importante dimensione del bisogno religioso.

(p. 33)

Occorre promuovere il laicato anzitutto sotto il profilo decisivo della maturità della fede e quindi della capacità della missione negli ambienti in cui vive. Si tratta di realizzare quella unità di fede e di vita attraverso la quale si attua l’inculturazione della fede. È anche un possibile punto di incontro, forse il più realistico, fra le varie esperienze che sono nate in questi ultimi trenta-quarant’anni all’interno della Chiesa. Esperienze che hanno vari problemi ma anche un indubbio dinamismo missionario. Quando la Chiesa mette al centro questa dimensione missionaria, forse è più facile integrare le energie. Occorre comunque promuovere una maturazione globale del laicato: solo un laicato maturo nella fede ecclesiale può infatti assumere in maniera costruttiva responsabilità nella vita e nella missione della Chiesa. Così facendo la Chiesa offre anche un essenziale servizio alla società nel suo complesso: il servizio della carità e insieme il servizio dell’evangelizzazione. Così la Chiesa diventa fonte di speranza. E la «ricaduta» di questa speranza teologale sulla società può avere un’enorme valenza di vitalità sociale.