Nelle notti della movida. Lo scenario, l’ambientazione, la prassi delle notti romane è il contesto in cui si è consumata la tragedia del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, di Antonio Polito

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 04 /08 /2019 - 14:51 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal Corriere della Sera del 30/7/2019 un articolo di Antonio Polito. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Giovani e Nelle nostre città.

Il Centro culturale Gli scritti (4/8/2019)

Il palcoscenico sul quale si è consumata la tragedia del vicebrigadiere Rega è la movida. Non la causa, né il movente, anche se la droga c’entra eccome. Ma lo scenario, l’ambientazione, la prassi delle notti romane. Interi quartieri della capitale, ma se è per questo anche di altre città italiane, sono stati appaltati a una microeconomia del divertimento che ne ha fatto dei parchi a tema. In quella piazza di Trastevere, nella sera fatale, c’erano tutti gli ingredienti della movida romana. C’erano i turisti stranieri in cerca di sballo a basso costo, c’erano gli spacciatori di cocaina e i truffatori che spacciano aspirina, c’erano l’ebbrezza da birra e da shottino, c’erano il caldo e il caos, c’era persino il parcheggiatore abusivo egiziano.

C’era quella selva di piccole illegalità che, sommate, fanno il degrado, di fronte al quale ognuno si sente autorizzato ad andare un po’ più in là. Le nostre città d’arte, Roma più di tutte, sono un’attrazione anche perché qui i turisti possono fare cose che a casa non possono fare, e trasgredire è bello in vacanza.: fare la pipì su un muro o l’amore su una panchina, lasciare la bottiglia di birra su un monumento o fumarsi uno spinello sui gradini di Trinità dei Monti: tutto è possibile. Non c’è neanche bisogno di pagare il biglietto d’ingresso: i centri storici italiani sono i più grandi locali a cielo aperto del mondo.

È anche un fatto «democratico», perché apre la città a tutti. I sostenitori della movida dicono che i ragazzi avranno pure diritto a fare un po’ di casino, e che se non puoi pagarti un aperitivo sulla terrazza-bar, almeno la birra nella piazza di sotto deve esserti consentita. È giusto. Un tempo, quando erano gli intellettuali come l’assessore Nicolini ad occuparsene, si chiamava «fruizione». Voleva dire che se un bene è comune, e la città è comune per definizione, tutti devono poterlo usare. Il «benecomunismo» è l’ideologia del sindaco de Magistris a Napoli, che ne ha fatto una delle grandi capitali della movida italiana. Solo che Nicolini riempì le notti romane di spettacoli all’aperto per liberarla dal coprifuoco degli «anni di piombo»; così come il termine «movida» fu coniato in Spagna per descrivere il ritorno dell’allegria dopo il franchismo. Ma oggi, al posto degli eventi culturali e di Almodóvar, tra i fast food e i motorini, a Trastevere è rimasto solo il cinema America, e qualche pestaggio dei «fasci» a chi ne indossa la maglia.

Da anni si combatte, quartiere per quartiere, la battaglia tra residenti e movida, e non solo nelle grandi città. Viene presentata di solito come una lotta tra reazione e progresso, tra anziani che vogliono dormire e giovani che vogliono sballare, tra vecchi borghesi e nuovi proletari. Ma è un conflitto più complesso, suscettibile di segnare il futuro delle nostre città. Le quali, oltre che «fruizione» sono anche «funzioni»: servono cioè a chi le abita per spostarsi, per riposare, per parcheggiare, per andare in trattoria o all’ufficio postale. Se queste «funzioni» sono impedite, i residenti trasformano i loro appartamenti in B&B e se ne vanno, e con loro se ne va la vita diurna: resta solo una desertificazione da movida che può produrre nuovo conflitto sociale e nuove emarginazioni, come nelle città americane, divise tra inner cities e suburbs. E invece i nostri centri sono «storici» proprio per il mix originale di ceti e funzioni, e la borghesia si chiama così perché è nata nei borghi medievali, dove convivevano commercio e artigianato, industria e professioni, cattedrale e broletto.

Bisognerebbe trovare il giusto mezzo: il turismo è la grande forza motrice del secolo, porta soldi, sarebbe velleitario e autolesionista pensare di chiudersi ai flussi, né si può avere la puzza al naso per quello cosiddetto «low cost». Però neanche possiamo accettare di trasformarci nel parco giochi del terzo millennio. I fenomeni devono essere governati, come si dice. Cominciando con il restaurare standard accettabili di legalità. Quando si parla di «tolleranza zero» in Italia si pensa sempre ad arresti e condanne. Ma in realtà questa proposta della sociologia americana nacque intorno alla teoria della «finestra rotta»: se resta rotta, la gente si abitua al degrado e ne rompe un’altra. Meglio dunque aggiustarla subito. A New York funzionò. Da noi basterebbe un’illuminazione migliore (a Roma da qualche tempo di notte ci si vede molto poco); divieti di sosta rigorosi; barriere architettoniche e marciapiedi virtuali, con i paletti a delimitare la corsia per le auto e impedire parcheggio in doppia fila e zig zag tra i pedoni; controlli sui bar che vendono alcolici ai minori; verifiche igieniche nelle cucine dei fast food, per separare l’imprenditoria buona dalla gramigna e far emergere il lavoro nero; rimozione dei tavolini abusivi che ostruiscono strade e marciapiedi; fioriere, aiuole, decoro urbano. In una piazza pulita, ordinata, non invasa da auto e cassonetti di immondizia strapieni, uno spacciatore si vede di più, e magari se ne sta alla larga.

«Le città sono piene di gente. Gli alberghi pieni di ospiti. I treni pieni di viaggiatori. Le strade piene di passanti»: la sindrome del «pieno» non è nuova, la descriveva già Ortega y Gasset negli anni 30, di fronte al fenomeno nascente della società di massa. Ma dentro quell’inevitabile «pieno», bisogna sempre saper fare uno spazio, per la legalità e la civiltà.

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