Ha il velo l'Africa che sfida il business dell'immigrazione clandestina, di Nico Spuntoni
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Riprendiamo da La nuova Bussola Quotidiana del 17/7/2019 un articolo di Nico Spuntoni. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Immigrazione e integrazione e Nord-Sud del mondo.
Il Centro culturale Gli scritti (21/7/2019)
Ecco l'Africa che sfida il business dell'immigrazione clandestina. Non sono bianche, né ricche, né tedesche; ma nere, povere e nigeriane. Sono le suorine del Sacro Cuore di Gesù e percorrono in lungo e in largo l'arcidiocesi di Benin City per sensibilizzare la popolazione locale sui rischi dell'emigrazione illegale. È un volto poco conosciuto della Chiesa e delle attività di volontariato d'ispirazione cattolica presenti in Africa, ma che merita di essere raccontato in quanto onora tra mille difficoltà il sacro principio di salvare vite umane.
Benin City, città della parte meridionale della Nigeria, è uno dei centri principali del traffico di migranti diretto verso le coste italiane attraverso la rotta del Nord Africa. Le prime partenze da qui ci furono già negli anni '80. Quest'area, non a caso, è stata anche la 'culla' della mafia nigeriana, 'padrona' del business criminale della prostituzione e del traffico d'organi in Europa. L'immigrazione clandestina è la linfa degli affari sporchi di queste organizzazioni molto ramificate in patria e in fase d'espansione anche nei Paesi d'accoglienza.
L'esistenza di simili interessi dà bene l'idea del coraggio delle religiose del Sacro Cuore di Gesù che, consapevoli di sfidare “in casa” gruppi noti per la loro crudeltà e spregiudicatezza, non rinunciano ad andare di villaggio in villaggio, di parrocchia in parrocchia, a mettere in guardia - specialmente le donne - dai pericoli a cui si va incontro intraprendendo i cosiddetti "viaggi della speranza" verso l'Italia, tramite la Libia.
Le suore mettono a conoscenza le loro connazionali e i loro connazionali dell'incubo che si cela dietro alla promessa alettante di un buon lavoro in Europa: la schiavitù sessuale e l'espianto di organi a cui molto spesso le vittime sono condannate tramite minacce di ritorsioni sui familiari o di far ricorso ai riti voodoo. Alle persone che incontrano durante questa loro attività, le sorelle del Sacro Cuore di Gesù non si limitano a parlare di questi pericoli, ma offrono anche un'alternativa grazie ad un centro formativo da loro gestito nella regione che prepara i giovani non scolarizzati ad acquisire le competenze necessarie per entrare nel mondo del lavoro.
All'interno della struttura, la Congregazione cura programmi in cui si insegna a cucire (anche abiti tradizionali africani), a cucinare e a realizzare grafici, oltre a prevedere borse di studio per i più indigenti e a fornire servizi di microcredito a madri sole e a vedove.
La Congregazione si preoccupa, poi, di agevolare il reinserimento in società delle vittime della tratta che decidono di tornare a casa. Un percorso complesso, da affrontare superando giudizi e pregiudizi e che spesso richiede un passaggio intermedio in edifici 'protetti'. Uno di questi a Benin City è gestito dal Comitato per il sostegno della dignità delle donne (COSUDOW) coordinato da suor Emeneha, delle Figlie della Carità di San Vincenzo de' Paoli, un altro ordine impegnato sul territorio nella campagna di sensibilizzazione contro la tratta.
Anche queste religiose vanno di villaggio in villaggio e chiedono di parlare con i capi locali per metterli al corrente della sorte che spetta prima in Libia e poi in Europa a quei giovani e quelle giovani che decidono di affidarsi ai mercanti di vite umane. Il sostentamento di simili centri e di queste attività ha, ovviamente, un costo che spesso le religiose fanno grande difficoltà a coprire. Per realtà come queste, che raccontano più di ogni dibattito il volto oscuro dell'immigrazione clandestina, non ci sono appelli o mobilitazioni sui media dei Paesi occidentali.
Così come 'scomodo' ad una certa narrazione radicata del fenomeno migratorio è l'impegno di quei migranti ritornati in patria che hanno deciso di dedicarsi a convincere i loro connazionali ad abbandonare il proposito di partire. Operano anch'essi in Nigeria, sono i Volunteer Field Officers (Vfo) e collaborano con il programma Migranti come Messaggeri (MaM). Riconoscibili per le magliette blu che indossano e i poster con le immagini dei 'viaggi della speranza' che portano con sé, queste persone si recano nei mercati più frequentati di Benin City e condividono le loro esperienze con la gente del posto. Le storie personali, testimoniate spesso dalle ferite che portano sul proprio corpo, sono molto spesso gli argomenti più convincenti per far cadere quel mito, duro a morire nelle popolazioni locali, della vita migliore a cui vanno incontro i migranti tentando la traversata del Mediterraneo.
Non di rado, questi volontari diventano oggetto di insulti e aggressioni durante le loro azioni nei mercati della capitale dello Stato di Edo. È radicato nelle popolazioni locali, infatti, un giudizio benevolo nei confronti delle migrazioni illegali, a cui hanno contribuito le 'campagne pubblicitarie' via passaparola che vanno nell'interesse dei trafficanti e tutte incentrate sul mito del 'miracolo europeo'. Questi migranti ritornati in patria sono doppiamente coraggiosi: agendo in questo modo, vincono il senso di vergogna - purtroppo molto diffuso agli occhi delle rispettive comunità - di non avercela fatta e, al tempo stesso, sfidano pubblicamente gli interessi di criminali senza pietà. La testimonianza diretta di queste persone costituisce lo strumento più forte per scoraggiare chi è intenzionato a rivolgersi ai trafficanti e grazie a loro sono già centinaia i nigeriani che ci hanno ripensato.
Jude Ikuenobe, sopravvissuto al deserto ed oggi uno dei Vfo più attivi, ha spiegato bene a IPS News il senso di ciò che fanno: "Il messaggio è che anche se le cose vanno male a casa, questo non sarà mai un buon motivo per andarsi a suicidare. Perché quando cerchi di viaggiare verso l'Europa attraverso il deserto e il mare, è come se ti andassi ad uccidere (...) dobbiamo far capire loro che l'immigrazione irregolare non porterà il successo atteso".