In nome della libertà individuale abbiamo rotto tutto. La crisi della società italiana e il ruolo della Chiesa. Intervista a Giovanni Orsina, di Andrea Monda
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Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 10/7/2019 un’intervista a Giovanni Orsina di Andrea Monda. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Laicità e diritti.
Il Centro culturale Gli scritti (14/7/2019)
La riflessione sulla crisi della società italiana ed europea secondo Giovanni Orsina, Direttore della School of Government presso la Luiss e professore di storia comparata dei sistemi politici europei, deve partire dall’origine, cioè dalla crisi dell’autorità, di ogni tipo di autorità.
Da dove nasce questa crisi?
L’autorità, sia civile sia spirituale, appare oggi in grandissima difficoltà. Una crisi che nasce dall’evoluzione o trasformazione finale della modernità, il cui ultimo approdo coincide col relativismo radicale, se non col nichilismo. Il tentativo della modernità è quello di costruire un ordine privo di a priori, un ordine che non si appoggia su nessun tipo di verità data, in cui tutto è discutibile, tutto è umano. Questo è il grande sogno della modernità fin dalla fine del Settecento, da quando viene compiuta quella che Del Noce chiama “l’opzione politica per l’ateismo”: l’idea che possa fondarsi un ordine interamente umano. Dopodiché, negli ultimi due secoli ci sono stati tanti elementi che hanno controbilanciato questo sogno, costruendo via via una serie di a priori ai quali l’ordine politico e sociale si è potuto agganciare. Negli ultimi cinquant’anni, però, questi a priori si sono sciolti tutti: da qui l’ingresso nella fase terminale della modernità, e lo sforzo di capire se sia possibile costruire un ordine umano capace di autosostentarsi. I sociologi degli anni Novanta, come Anthony Giddens o Ulrich Beck, parlano di “modernità riflessiva”: gli individui si costruiscono un’identità riflessivamente, le società si costruiscono un ordine riflessivamente, la politica viene costruita riflessivamente, il che vuol dire che anche l’autorità è riflessiva. Cioè l’autorità si costruisce man mano da sé, si costruisce e si smonta costantemente, non c’è un’autorità data e definita una volta per tutte; ci sono solo una serie di punti di equilibrio che via via evolvono. La grande domanda è: sono possibili l’ordine riflessivo, la personalità riflessiva, l’autorità riflessiva — o finiscono in buona sostanza per coincidere con la dissoluzione della personalità, dell’autorità e dell’ordine?
A me sembra che la grande scommessa sia questa. Questa è stata la grande utopia degli anni Novanta: costruire un mondo di individui integralmente liberi, disincarnati, sradicati, che si costruiscono da soli, godono dei diritti garantiti dal mondo giuridico e agiscono sul mercato. Un mondo senza più il potere, una società completamente liquida, che però ha un ordine, un ordine liquido che si ricostruisce giorno dopo giorno, appunto riflessivamente. Se uno legge gli scritti degli anni Novanta (penso a personaggi come David Held o Kenichi Ohmae con la sua La fine della Stato-nazione) ci sono tanti libri che dicono: il mondo delle strutture è finito, punto, scordatevi di ricostruirlo. Il nostro orizzonte è l’orizzonte della ricostruzione costante e continua di elementi di tenuta e di organizzazione. Questo secondo decennio del XXI secolo a me appare come il momento in cui questa utopia sta entrando in crisi. Il problema è quindi da una parte il fatto che l’utopia degli anni Novanta sta entrando in crisi, dall’altra l’avvenuta dissoluzione dell’autorità. Da questo sorgono due domande. La prima l’autorità va ricostruita? E, se sì, come fare a ricostruirla? La seconda: questa crisi di un’idea di modernità riflessiva è una crisi strutturale oppure è soltanto un momento di difficoltà, ma il nostro orizzonte è comunque quello? Infine bisogna aggiungere che se da una parte questa ricostruzione costante e continua non funziona, è anche vero però che il mondo di ieri non c’è più. Questo è un enorme problema, innanzitutto per il potere politico: la modernità tradizionale contro cui la Chiesa ha sbattuto la testa duramente, non esiste più. Quella modernità aveva una sua durezza e quindi lo scontro era forte ma era uno scontro strutturato, adesso non si riesce più a capire che tipo di scontro sia.
Papa Francesco cita spesso Bauman e la condizione liquida della società. Forse quelli che noi chiamiamo populismi e sovranismi sono una reazione a questa condizione, un voler dare alla piccola comunità locale una consistenza, un calore contro la “freddezza” dell’Europa con la sua banca e i suoi protocolli burocratici.
Certamente, credo anch’io che questi sovranismi siano una reazione, un sintomo della malattia, non la causa. E bisogna curare non il sintomo ma la malattia alla fonte.
Questi studiosi, questi sociologi degli anni Novanta sono molto interessanti perché poi loro immaginano che in questa società liquida la politica rinasca sotto una nuova forma, ad esempio Ulrich Beck, il sociologo tedesco, con il suo saggio The Reinvention of Politics. La loro tesi è la seguente: l’idea del partito strutturato, organizzato, l’identità, la classe, lo Stato, tutto questo non c’è più. Però comunque i rapporti di potere ci sono ancora: sono molto più complessi, multilivello, sovranazionali, in una commistione tra potere statuale e società civile. Quindi la nuova politica è una politica di micro-organizzazioni, di organizzazioni temporanee, oppure di grandi campagne culturali che devono gestire e cambiare questi rapporti di potere. In fondo la campagna del #Me Too è un classico modello di nuova politica, così come lo è Greta Thunberg. Il #Me Too non è la politica secondo la logica dello Stato, della classe, ma dei rapporti di potere quotidiani, che si ritiene debbano essere riequilibrati a vantaggio delle donne. La politica quindi non si fa con la grande organizzazione del partito a livello dello Stato nazionale, ma si fa con una campagna culturale transazionale che deve cambiare le relazioni individuali, e anche quella è una mobilitazione politica. Tutto questo, però, è molto insoddisfacente, molto fragile, spesso si rivela come una grande esplosione emotiva, ma poi la cosa finisce perché non è ancorata a ordinamenti stabili o inquadrata dentro istituzioni. Se la politica è il desiderio degli esseri umani di avere un controllo sulla propria vita, uno strumento collettivo di controllo sulla nostra esistenza, allora questa nuova politica è molto insoddisfacente. I sovranismi sono la risposta a questo. Qual è lo slogan della Brexit? Let’s take back control, riprendiamo il controllo. Il tema del controllo sulla propria vita è un tema fondamentale. Che cosa offre Salvini? Offre il controllo sui confini dell’Italia e sul destino degli italiani come collettività. Possiamo discutere quanto questo sia praticabile o realistico, però io capisco quelli che lo votano, perché dicono io vorrei come collettività riprendere il controllo sul mio destino che sento che ho perso e non mi viene più soddisfatto dalle agenzie tradizionali, dai partiti tradizionali e nemmeno da queste forme di nuova politica.
Una crisi quella che stiamo vivendo che secondo alcuni è innanzitutto antropologica. Qualche elemento: l’innalzamento dell’aspettativa dell’età media, la tecnologia e infine la paura che gioca anche a livello politico grandi effetti, e poi la tecnologia. Siamo stati tutti colti di sorpresa e non sappiamo come affrontare la situazione totalmente nuova, “il cambiamento d’epoca” di cui parla il Papa?
C’è un’effettiva differenza di “quantità” che diventa differenza di “qualità”. I classici questa roba l’hanno prevista: la perdita di a priori, la crisi della ragione, la nascita di un ordine interamente umano nel quale non ci sono postulati, non ci sono valori non negoziabili, ma è tutto discutibile, tutto provvisorio, tutto autonomamente generato dall’uomo. E hanno previsto anche la degenerazione verso un processo di relativismo radicale, e in ultima analisi di nichilismo, che alla fine porta a un mutamento antropologico che riduce l’uomo in una creatura vuota che torna alla sua animalità, ai suoi istinti, ai bisogni primari. Penso alla distopia che Tocqueville descrive nella Democrazia in America: uomini che hanno perso qualunque criterio di giudizio, sono tutti uguali, non riconoscono più aristocrazie né eccellenze, non hanno neanche più criteri per distinguere le eccellenze, il bene dal male, quindi sono tutti quanti schiacciati in una massa uniforme, al di sopra della quale si erge un potere, come lui dice, “previdente e mite” che dà loro il soma, come lo chiamerebbe Huxley, cioè dà loro il cibo, le soddisfazioni materiali. Se alla fine hai eliminato Dio e tutti i valori nel nome della libertà resta il nulla e allora l’unica cosa che importa è la felicità quotidiana, temporanea. Tutte cose previste, ma senza dubbio abbiamo assistito a una grande accelerazione: la tradizione regge fino agli anni Cinquanta e poi viene messa in discussione negli anni Sessanta. Allora a che cosa si ancora l’ordine politico e sociale a partire dagli anni Sessanta? Alla scienza. Anche lì Del Noce vede molto chiaramente lo scientismo come soluzione. In fondo, ancora oggi noi cosa leggiamo sui giornali? La nostra vita si allungherà, non dovremo più lavorare. Noi in realtà stiamo entrando in un mondo di utopia (o distopia) scientistica, e basta guardare le serie televisive per rendersene conto (ne cito due tra le tante: Altered carbon, The 100). La crisi degli esperti oggi nasce dal fatto che negli ultimi decenni abbiamo messo un peso sulla scienza che la scienza non può sopportare come ad esempio il compito di risolvere i problemi dell’aldilà e del senso dell’esistenza.
Oggi sembra che l’uomo occidentale si trovi tra Scilla e Cariddi, da una parte liquida la religione come una vecchia fantasia superstiziosa che porta con sé fondamentalismo, fanatismo e violenza, dall’altra sente il vuoto, avverte la mancanza della religione, e si aggrappa anche a un malinteso senso della comunità, per cui vanno bene anche i simboli religiosi esibiti come strumenti d’identità il che equivale a un tradimento netto dell’essenza della religione stessa.
Questo è il punto cruciale: in nome della libertà individuale abbiamo rotto tutto. Anche la demonizzazione del fatto religioso è vista appunto nel nome di una libertà individuale che si presume debba essere priva di limiti. Quindi, siccome la religione è un elemento di vincolo, di legame, di costruzione identitaria, allora non va bene perché la tua identità, individuale, deve essere libera, te la devi poter costruire come vuoi. Dentro c’è una demonizzazione dell’identità, cioè l’identità viene letta soltanto nelle sue degenerazioni. Il progetto modernista, essendo un progetto di liberazione radicale dell’individuo, ha buttato via l’acqua sporca ma pure il bambino dell’identità. Il dilemma del modello liberaldemocratico è che quando hai liberato tutti gli individui e li hai isolati e li hai “liquefatti”, non hai neanche più la possibilità di svolgere un’azione collettiva. La politica perde potere, ma la politica è quello che ti garantisce la libertà individuale. Osservare il dogma della massima libertà individuale ha indebolito le comunità politiche che erano quelle che garantivano la libertà individuale. Questo il paradosso.
Su questo contesto s’inserisce un aspetto molto inquietante, la polarizzazione estrema della discussione e del clima pubblico. Da un lato ci sono i radicali della società liquida, dall’altra i sovranisti, tutti sul versante del ritorno della collettività, dei valori, delle identità. Una polarizzazione che sta acquisendo una dimensione geografica, con appunto the people from anywhere al centro delle città, la gente cosmopolita e liberale, e la gente invece che rivuole le radici nei piccoli borghi, nei piccoli paesi, nel contado the people from somewhere. In questa situazione mediare e ricucire i rapporti è molto difficile.
La modernità ha spinto molto su libertà e eguaglianza ma ha trascurato la fratellanza che era però l’elemento di mediazione tra le prime due, che le teneva insieme. Forse è qui che il cristianesimo può giocare un ruolo, richiamandoci alla responsabilità verso il prossimo, verso l’altro visto come un fratello?
Sono d’accordo. Il problema però è che si è fratelli rispetto a qualcosa, e questo ci riporta al problema delle basi dell’ordine sociale. La tesi dei diritti individuali nel liberalismo nasce con un ancoraggio giusnaturalistico: tutti gli uomini sono nati uguali. Tu in quanto uomo, in quanto appartenente alla razza umana, sei titolare di diritti. Perché? Da dove viene questo ragionamento? È evidente che questo ragionamento ha una radice religiosa fortissima. Poi i liberali lo laicizzano, ma, in partenza, il punto cruciale è quello dell’essere stati creati a immagine e somiglianza di Dio. Tanto è vero che la Dichiarazione d’Indipendenza Americana dice “noi crediamo che tutti gli uomini siano creati uguali”. Non “siano” o “siano nati”, ma “siano creati”. Questo fatto che siamo tutti creati a immagine e somiglianza di Dio, dà a tutti dà dignità e ci rende tutti fratelli. Col tempo la dottrina dei diritti dell’uomo non solo si è laicizzata, ma si è anche completamente distaccata da un’idea condivisa di natura. Ma se una natura umana non c’è più, perché la natura è un costrutto culturale, allora che cosa è la razza umana, e chi vi appartiene? Tutti gli esseri umani? E perché? E perché non solo i bianchi — o i gialli, o i neri, se è per questo? E poi c’è tutto il tema dei diritti degli animali. Se l’uomo non è creato a immagine e somiglianza di Dio, ma è in totale continuità con il resto della natura, allora il “taglio” all’umanità è un taglio arbitrario. Potrei tagliare agli italiani, potrei tagliare ai bianchi, o potrei tagliare ai mammiferi superiori, o potrei tagliare ai mammiferi in generale o a tutti gli esseri viventi. Il “taglio”, e di conseguenza la nozione di fratellanza fra i “tagliati”, aveva senso perché c’era un’idea forte di razza umana, e la razza umana era tale non in virtù del Dna, ma in virtù del fatto che siamo tutti creati a immagine e somiglianza di Dio. Allora il problema che io vedo della fratellanza è questo: senza una nozione “dura” di natura umana, noi siamo fratelli rispetto a che cosa? Fukuyama, nel celebre La fine della storia, ha posto l’enfasi sul tema hegeliano del riconoscimento reciproco, ma perché il riconoscimento reciproco deve necessariamente essere universale, cioè su scala mondiale? Un italiano ha veramente interesse a essere riconosciuto da un cinese o a riconoscere un cinese? Personalmente, da cristiano e da liberale, non ho alcun dubbio — ma, appunto, da cristiano e da liberale, ossia da persona convinta che tutti gli uomini siano creati a immagine e somiglianza di Dio. Mio figlio tredicenne, che come tutti i ragazzini svegli ha un talento nel mettere il dito sulla piaga, mi risponde: “sì, ok, tutti uguali e tutti fratelli — ma solo se Dio esiste”. Non lo sa ma in qualche modo sta citando Dostoevskij: «senza Dio tutto è permesso».
La Chiesa può quindi essere d’aiuto in questa crisi epocale come lo è stata in passato?
A volte penso che forse questa è l’epoca nella quale uscirà un profeta, nei prossimi decenni, magari tra vent’anni o anche più, però a me sembra che sia maturo il tempo per un profeta, non so se dall’interno o dal di fuori della Chiesa. Da credente e da cristiano mi auguro che emerga dall’interno. In fondo, la “svolta comunicativa” promossa da Papa Francesco rappresenta un tentativo di muovere in una direzione profetica. Non so se poi non ci sia bisogno anche di molta maggiore durezza, di maggiore scandalo, cioè di qualcuno che rompa duramente col “senso comune modernista”.
Forse da questo nascono gli attacchi contro Francesco, un Papa molto amato ma anche molto contrastato. La sua forte critica al paradigma tecnocratico ha il suo “costo”, suona davvero scandalosa.
A volte però sembra che quelli che gli dimostrano più amicizia siano quelli che, diciamo, lo leggono meno come scandalo, che lo recuperano di più “al secolo”. Se da una parte l’Europa è vecchia, a ogni modo, dall’altra io vedo anche la Chiesa in grande difficoltà. Forse l’altra cosa che potrebbe cambiare i giochi è il cataclisma, cioè una grande crisi, una grande frattura, un reset per usare un gergo informatico. Potrebbe essere economico, potrebbe essere ecologico, potrebbe essere militare, potrebbe essere un punto di frattura…. C’è un po’ l’aria di quelle scosse che poi a un dato punto ti portano a un punto di frattura. Ma anche lì ci vuole tempo, e poi nessuno se lo augura. Mentre un profeta uno se lo può augurare, un cataclisma no.
La tecnologia e il grande impatto sulla vita degli uomini che ruolo può giocare?
Io sono uno di quelli che pensano che la tecnologia non sia portante, cioè che non sia quello il punto. L’eccesso di enfasi e fiducia nella tecnologia, la degenerazione della scienza in scientismo, si sviluppano perché c’è un buco, c’è un vuoto: riempiono uno spazio. Se quello spazio fosse pieno, scienza e tecnologia starebbero al posto che compete loro. Dopodiché è evidente che la tecnologia ha un ruolo fondamentale, innanzitutto come acceleratore dei processi storici, e da questo punto di vista il suo impatto è impressionante. È anche un acceleratore della mutazione antropologica. Se la gente va a cercarsi le informazioni su internet, è perché non si fida degli esperti. Viene prima la sfiducia negli esperti, e poi viene il fatto che, siccome non mi fido del mio commercialista o del mio medico, mi vado a cercare le informazioni su Internet. La sfiducia negli esperti, perciò, non è generata da internet. Dopodiché, il fatto che ci sia internet genera un circolo vizioso per il quale quella sfiducia trova una risposta e si alimenta. Quindi questo è un acceleratore mostruoso, è un amplificatore, un alimentatore di processi, e poi certo è quello che rende plausibile il sogno di onnipotenza umana e quindi l’idea che sia possibile costruire un mondo completamente de-divinizzato, completamente basato su principi compiutamente e completamente immanenti, quindi del tutto privi di Dio. D’altra parte fin dal XIX secolo la filosofia non fa altro che cercare di ricostruire Dio — Marx, l’idea del paradiso in terra, l’idea dell’utopia —, cioè di dare una risposta immanente al desiderio umano di assoluto. Questo secondo me è molto evidente.
La tecnologia sembra offrire all’uomo un potere assoluto, “divino”. Dio diventa irrilevante, inutile. Se posso immaginare che in futuro si viva per tre, quattrocento anni, conducendo una vita di piaceri, di comodità, in cui tutti i problemi saranno risolti, che me ne faccio dell’ipotesi Dio? Però io sono ancora convinto del fatto che un essere che sta nel tempo ed è in grado di pensare l’assoluto non potrà mai essere felice. L’homme révolté di Camus viene spesso letto come un inno a una rivolta sociale — ma quella di Camus è una rivolta metafisica, ontologica, è la rivolta contro la morte. Quella dimensione lì, anche se l’uomo vivesse all’infinito, e ammesso che fosse possibile, resterebbe un problema: anche chi vive all’infinito vive nel tempo, circondato di cose che muoiono ed esperienze che finiscono. Il desiderio di uscire dalla finitudine secondo me non sarà mai soddisfatto, a dispetto del divertissement pascaliano che la tecnologia sembra offrire come soluzione del problema della morte.