Ricordo di Francesco Ginese, morto tragicamente all’università La Sapienza, di Paolo Affatato
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Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 27/6/2019 un articolo di Paolo Affatato. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Università.
Il Centro culturale Gli scritti (28/6/2019)
«O figlio, figlio, figlio, figlio, amoroso giglio! Figlio, chi dà consiglio al cor me’ angustïato?». La lauda drammatica Donna de Paradiso, celebre testo di Jacopone da Todi, bene esprime il dolore straziante di una madre, la Vergine Maria, che abbraccia suo figlio ormai senza vita.
E solo Lei, la Madre celeste, può comprendere e accogliere la sofferenza nel cuore di una madre dei nostri giorni, che si vede strappare per sempre la vita di un figlio, il figlio primogenito, in circostanze improvvise quanto imprevedibili, perfino incredibili.
Francesco Ginese, venticinquenne originario di Foggia, era quello che si può definire un ragazzo d’oro. Studente modello, brillante, estroverso, dopo una laurea alla Luiss di Roma si era affacciato sul mondo del lavoro e aveva appena ottenuto un impiego a tempo indeterminato per curare le relazioni istituzionali di una multinazionale farmaceutica. Socievole, allegro, attento al prossimo, era cresciuto in una famiglia numerosa (con tre fratelli e una sorella), palestra delle relazioni umane.
Il suo percorso di vita terrena si è bruscamente interrotto nel primo pomeriggio di domenica 23 giugno, in seguito a un incidente dalla dinamica che può apparire perfino banale. Con due amici, il giovane aveva scavalcato un cancello della città universitaria La Sapienza a Roma: era una comoda ma imprudente scorciatoia per partecipare alla “notte bianca” dell’università, manifestazione organizzata annualmente, in modo autonomo, da gruppi studenteschi, e articolata con iniziative artistico-culturali come dibattiti, sport, musica, danze, live painting. Francesco non è riuscito, per una tragica avversità, a scavalcare quel cancello. Una delle punte lo ha trafitto, recidendo l’arteria femorale.
In pochi minuti lo shock emorragico si è rivelato fatale. Vani i soccorsi, altrettanto vana la gara di solidarietà avviata, in men che non si dica, con la donazione di sangue. Dopo trentasei ore di agonia, il suo cuore ha cessato di battere. Lasciando il cuore spezzato di una madre, Concetta, l’angoscia del padre, Roberto, il pianto dei fratelli e di una moltitudine di amici — impressionante la presenza di giovani che semplicemente gli volevano bene — che hanno vegliato, sperato e pregato.
Quel giovane aitante dal carattere scanzonato, che sapeva sognare in grande, si chiamava Francesco perché i suoi genitori, e poi egli stesso, sono cresciuti in una chiesa francescana: la parrocchia di Gesù e Maria retta dai frati minori, nel centro della città di Foggia, è sempre stata per il territorio della cittadina pugliese un punto di riferimento per le iniziative pastorali e sociali che la contraddistinguono.
Francesco segue lì, accanto a Roberto e Concetta, membri di una fraternità laica francescana, il percorso per ricevere i sacramenti e il cammino degli “araldi”, i seguaci più piccoli del santo di Assisi. E manifesta ben presto la sua innata propensione per le relazioni umane e la prossimità ai più poveri, ai deboli, agli emarginati, a cui dedicherà spontaneamente e volontariamente parte del suo tempo di studente.
Nel convento francescano è nata infatti trent’anni fa una struttura al servizio di senzatetto, immigrati, ragazze madri: la casa d’accoglienza «Sant’Elisabetta d’Ungheria». Roberto Ginese ne diventa il responsabile e con lui il giovane Francesco impara e sviluppa la sensibilità del samaritano del Vangelo, colui che vede, si ferma, tocca la sofferenza degli uomini.
Quello spirito non lo abbandonerà mai, né tra i banchi universitari dell’università di Confindustria, né tra i colleghi del master griffato «Il Sole 24 ore» che Francesco frequenta con la stessa naturalezza con cui frequenta e aiuta i senza fissa dimora.
Francesco lascia oggi nei suoi, e nel cuore di un’intera città che ne celebra la “nascita al cielo”, un vuoto incolmabile ma non la disperazione. Lo si comprende dalle parole che, per fede, la sua famiglia gli rivolge: «Francesco, volevi festeggiare la “notte bianca” a Roma: Dio ti preparava, invece, un giorno eterno e radioso, senza oscurità, in cielo. Volevi entrare in fretta alla festa alla “Sapienza”: lo Spirito di Dio ti ha donato la Sapienza che viene dall’alto, pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti. Tu non hai mai scavalcato nessuno nella vita e, d’altra parte, nemmeno lo sapevi fare: Gesù in persona ora ti spalanca il cancello d’oro del cielo e ti accoglie tra le sue braccia amorose».
Di fronte alla tragedia di un figlio che muore tra le braccia dei genitori, profondi sono gli interrogativi di fede che bussano al cuore di Dio per chiedere perché. La risposta non c’è, ma la strada la indica sant’Agostino, con quelle parole che dedicò a sua madre Monica e che oggi tutti coloro che l’hanno amato pronunciano pensando a Francesco: «Signore, non ti chiediamo perché ce l’hai tolto, ma ti ringraziamo per avercelo donato. I nostri occhi, pieni di lacrime, sono fissi nei tuoi, pieni di luce».