Filosofia del calcio, di Bernhard Welte: una recensione di Pietro Gibellini
Riprendiamo da Avvenire dell'8/7/2010 una recensione di Pietro Gibellini, apparsa con il titolo originario “Se la filosofia dà un calcio in paradiso”. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.Welte sottolinea nella sua riflessione fenomenologica l'apparente paradosso del gioco: se giocare è una delle azioni più libere che l'uomo possa compiere, d'altro canto proprio il gioco esige delle regole certe che liberamente il giocatore accetta. Sullo stesso tema, vedi su questo sito Perché amiamo il calcio?, di Joseph Ratzinger.
Il Centro culturale Gli scritti (17/7/2010)
Si cominciò con Manlio Scopigno, l’allenatore che portò allo scudetto nel 1970 il Cagliari di Riva e Bonimba: l’epiteto di filosofo non so se gli derivasse da un diploma o gli fosse dato honoris causa per le sue battute spiritose. Si fece onore coi piedi il brasiliano Socrates, cui si ispirò un film con Banfi, alias Oronzo Canà allenatore nel pallone del sudamericano Aristoteles. Il lessico calcistico ha poi inglobato la filosofia del 1-1-2 contrapposta al pensiero del 4-3-3; mentre, a sentire i giornalisti sportivi, per vincere servono più gli strizzacervelli che i preparatori atletici.
Ma in questo delizioso libretto della Morcelliana, intitolato Filosofia del calcio (pp. 80, euro 8), il discorso è serissimo. Oreste Tolone, specialista di antropologia filosofica, ha tradotto e raccolto due saggi di Bernhard Welte (1903-1983), maestro di studi filosofico-teologici all’università di Friburgo e pensatore di fama internazionale. Invitato in Argentina nel 1978, dove si svolgevano i mondiali di calcio, tenne delle lezioni sul tema, cui aggiunse nel 1982 (l’anno del trionfo in Spagna di Zoff e Paolo Rossi) un saggio sul gioco.
La tesi, sviluppata con grande eleganza e sottigliezza, è sorprendente: il successo del calcio sarebbe legato alla sua capacità di immaginare in concreto un’immagine del mondo utopica, anzi escatologica. Un mondo di regole certe e condivise, un giudice-arbitro imparziale e incontestabile, una corale armonia con i compagni per il conseguimento del bene comune, una trasformazione dei nemici in avversari con cui disputare lealmente. Non solo: gli avversari, lungi dall’essere il male da vincere, sono l’alterità con cui occorre dialogare, necessaria presenza perché il gioco possa aver luogo. Non è una vera utopia, un’immagine anticipata di paradiso? La tesi è originale e assai suggestiva, ma non è l’unica avanzata da pensatori e letterati per capire la ragione del successo del gioco, sconfinato nel tempo e nello spazio. Ne dà conto Tolone nel saggio introduttivo che contestualizza il discorso di Welte e lo arricchisce – la metafora è d’obbligo – a tutto campo.
Innanzitutto ricapitola la storia del gioco con la palla, già noto ai greci antichi, dove non ebbe però ospitalità nelle Olimpiadi (come in quelle moderne, dove fu introdotto a denti stretti e mal tollerato perché più palese era il non-dilettantismo degli atleti). Passò poi ai latini, che lo consideravano un esercizio particolarmente utile ai legionari: occorre ricordare infatti che la palla (costituita volta per volta da tele rigonfie di paglia o di cenci, comprese vesciche di animali, o da una stessa vescica e dunque di forma per lo più ovale) era l’oggetto da portare oltre la linea nemica utilizzando tutti i mezzi fisici, giusta come nel calcio fiorentino del Rinascimento. Dove però l’adozione del termine calcio fa capire che i piedi erano diventati strumento per colpire il pallone, oltre che gli stinchi della squadra rivale. Pare che proprio le legioni romane l’avessero introdotto in Inghilterra, dove lo sport nacque nella sua veste moderna nell’Ottocento, quando alcuni college si accordarono sulla proibizione di prendere la palla con le mani, distaccandosi così dallo stile diffuso in altri collegi, a partire da quello di Rugby che diede il nome allo sport della palla ovale.
La «palla» divenuta sfera, avverte il curatore, è cuore del gioco nella lingua, che relega «calcio» allo scritto inamidato, ma usa «pallone» nel parlato quotidiano (e nei dialetti lombardi sopravvive ancora la dizione deformata di foot-ball, aggiungo). Passando poi alle interpretazioni avanzate per spiegare il successo di questo sport, Tolone le raggruppa in alcune teorie principali. La prima è una chiave pedagogica. Il gioco sarebbe una simulazione della società, al cui ingresso i giovani si preparerebbero senza i rischi di errori gravi, come appunto accade nelle simulazioni. Imparerebbero la dinamica della alleanza, del rispetto delle regole, dell’impegno individuale e collettivo, a dosare generosità e calcolo, rischio e prudenza, a usare qualche astuzia consentita. Imparano insomma a sapersi muovere nel gruppo degli amici e degli avversari.
Un’altra linea interpretativa lo vede come uno sfogo emotivo attraverso cui la società civile canalizza istinti primari sedimentati nei millenni. Il calcio surrogherebbe dunque l’istinto di caccia, individuale o di gruppo (buona mira, reparti coordinati), ovvero quello ad esso correlato della guerra. Tant’è che le arene romane ospitavano tanto le venationes di bestie feroci che i combattimenti dei gladiatori. La mira della freccia o il duello fisico verrebbero sostituiti dal proiettile inoffensivo e dall’abile dribbling.
Connessa a questa chiave, è l’interpretazione etologica, alla Desmond Morris, che giustapporrebbe la passione degli uomini per l’agonismo e per la conquista del territorio (in forma di rettangolo verde) al disinteresse per quello sport mostrato generalmente dalle donne, eredi delle ataviche raccoglitrici di bacche e frutti nella savana, e oggi appassionate di shopping.
Diversa invece la soluzione proposta da uno scrittore come Wystan Hugh Auden. L’uomo si sentirebbe intrappolato dalla rete deterministica che frena la sua libertà e mortifica i suoi bisogni creativi. Si troverebbe allora di fronte a due strade, quella della trasgressione sistematica delle regole, secondo una deriva anarchica o propriamente criminale, o quella di crearsi delle regole tutte sue, svincolate da ogni utilità pratica che non sia la gratifica in sé che il gioco, come ogni attività ludica, riserva ai suoi adepti. Qualche anno fa il collega Dànilo Mainardi tenne la lezione che a Ca’ Foscari accompagna la consegna dei diplomi ai neo-dottori di ricerca. E, portando vari esempi dalla sua esperienza di zoologo, arrivò alla conclusione che chi dedica la propria vita allo studio riesce a prolungare lungo l’arco della vita quella emozione che i cuccioli provano nella magica stagione dell’infanzia. Sarebbe, in senso tecnico, una neotenia, un anomalo protrarsi di comportamenti immaturi che di solito appare patologica e che invece, sposata all’esperienza dell’uomo cresciuto, diventa una libera risorsa.
Vi è, in questa chiave, una valutazione positiva, di tipo etico o spirituale, che fa capire come un campetto di calcio negli oratori di paese abbia forse tolto più di un ragazzo a vie sbagliate. È in questa direzione che Tolone conclude il suo saggio, con pagine che introducono assai bene i due scritti di Welte: con il quale condivide il merito di averci davvero fatto capire che c’è una filosofia del calcio.
Dunque il calcio e il sapere sono coniugabili, contrariamente a quanto farebbero supporre i Maradona e gli Adriano. Se ne consola chi, come il sottoscritto, lasciò il tendine rotuleo su un campo di calcio, giocando con i ragazzi quando aveva vent’anni e venti chili di troppo. Ronaldo riuscirono a recuperarlo, almeno in parte. A chi scrive sono restati i libri e un po’ di nostalgia.