Europa, l’Oscura, di Alessandro D’Avenia
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Riprendiamo dal Corriere della Sera del 27/5/2019 un articolo di Alessandro D’Avenia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Europa.
Il Centro culturale Gli scritti (23/6/2019)
Europa, bellissima figlia del re di Tiro, sta raccogliendo fiori vicino al mare. All’improvviso compare un toro dal manto bianco che si avvicina ai suoi piedi. Lei, affascinata dal prodigioso animale, si siede sulla sua groppa e quello che crede solo un gioco si rivela, invece, un rapimento: il toro entra in mare e la porta a ovest fino alle spiagge di Creta, dove rivela la sua identità, è Zeus che le fa violenza.
Il padre manda i figli a cercare la sorella, ma nessuno si reca sull’isola, di cui però la ragazza diverrà l’amata regina. Europa, nome d’origine incerta, secondo il dizionario etimologico dell’audace Giovanni Semerano affonda le radici nel termine erebu, usato dagli antichi popoli del vicino Oriente semitico per indicare l’Occidente: «dove il Sole sparisce». Europa è quindi l’Oscura: rapita e violata si riscatta, tramonta e risorge. Proprio dove nessuno la cerca rinasce dalle sue ceneri.
Paolo Rumiz ha provato a rintracciarla proprio tra le sue ceneri, nel recente libro: «Il filo infinito». Seguendo le ferite del terremoto che ha colpito il centro Italia tre anni fa, l’ha trovata a Norcia, una sera, tra i resti degli edifici della piazza principale: «Le rovine della Cattedrale erano illuminate. Dietro il rosone, la navata non c’era più. Fu lì che vidi la statua al centro della piazza. Mostrava un uomo dalla barba venerabile e dalla larga tunica, sollevava il braccio destro come per indicare qualcosa fra cielo e Terra. Era intatta in mezzo alla distruzione, e portava la scritta SAN BENEDETTO, PATRONO D’EUROPA. Fu un tuffo al cuore. Fino a quel momento non avevo minimamente pensato al Santo e al suo rapporto con Norcia, con il terremoto, con la terra madre del Continente a cui appartenevo. Cosa diceva quel santo benedicente, in mezzo ai detriti di un mondo? Diceva che l’Europa andava alla malora?», no, anzi «ricordava che alla caduta dell’Impero romano era stato proprio il monachesimo benedettino a salvare l’Europa. Ci diceva che i semi della ricostruzione erano stati piantati nel peggior momento possibile». Nel 476 d.C. infatti l’ultimo imperatore d’Occidente viene assassinato e i barbari dilagano ma, tra le rovine dell’Impero romano, Benedetto aggrega attorno alle sue piccole comunità uomini e donne che ritrovarono la vita buona, fatta di lavoro, relazioni, educazione e preghiera. Per lui ciò che contava era rimanere fedeli alla cura dell’essenziale: il Creatore e le creature, in ognuna delle quali c’è il suo Logos, cioè una ragione d’amore e di compimento.
Ma gli uomini di Benedetto come riuscirono nell’impresa? Rumiz così li descrive: «erano riusciti a salvare l’Europa senz’armi, con la sola forza della fede. Con l’efficacia di una formula: ora et labora. Avevano salvato dall’annichilimento la cultura del mondo antico, rimesso in ordine un territorio in preda all’abbandono. Una terra “lavorata”, dove – a differenza dell’Asia o dell’Africa – era quasi impossibile distinguere fra l’opera della natura e quella dell’uomo». Sono parole che evocano un passato perduto? No. È l’anima perenne dell’Europa: la sua vocazione è proprio in quei due verbi che coniugano ciò che la mano può fare. La mano umana, che Kant definiva «il cervello esteriore della mente», staccatasi dalla terra si apre al mondo e al cielo, per fare il mondo e rivolgersi al cielo. La mano, che si ferma, studia, prega e poi lavora, sa che tutto quello che gli viene incontro, cose e persone, è da custodire e coltivare. E come Benedetto educò le mani della gente?
Nato a Norcia nel 480 d.C. da famiglia agiata, il ragazzo va a Roma per gli studi, ma la città versa nel degrado, così decide di ritirarsi poco lontano, sull’Appennino laziale, dove matura l’idea di una comunità ristretta, al servizio di Dio e del mondo. Il monastero è infatti un’intera società costruita nei modi della famiglia. L’abate (dall’ebraico abbà: padre), si prende cura dei figli: i monaci e la gente che abita nelle terre circostanti. Non importa se liberi o schiavi, nobili o contadini, dotti o ignoranti, romani o barbari: tutti fanno tutti i mestieri senza distinzione. Ognuno, dentro e fuori dal monastero, è chiamato a un doppio lavoro: quello di Dio e quello delle mani, che Benedetto chiama rispettivamente «opus Dei» (preghiera e studio) e «opus manuum» (il lavoro manuale). Quest’ultimo non è più per gli schiavi ma per tutti, in quanto compito originario dell’uomo, posto da Dio nel giardino, come narra la Genesi, perché lo custodisca e lo porti a perfezione. L’Europa viene così seminata «in una rete di fattorie modello, di centri di allevamento, di focolai di cultura, di fervore spirituale, di arte di vivere, di volontà di azione, in una parola, di civiltà ad alto livello che emerge dai flutti tumultuosi della barbarie. San Benedetto è senza alcun dubbio il Padre d’Europa». Sono parole del grande sociologo Léo Moulin che, nel suo «La vita quotidiana secondo San Benedetto», mostra gli effetti dell’arte di vivere benedettina: persino la parola «Parliamentum» fu coniata in latino medievale in ambito monastico, per indicare la prima assemblea sovranazionale delle abazie nel 1115. L’Europa sbocciò dalla sintesi benedettina di trascendente e terreno, come mostra la realizzazione di veri e propri capolavori: viticultura e apicultura, arte medicinale con le piante, agricoltura di terreni difficili, un sistema embrionale di depositi e prestiti, gli scriptoria per copiare e meditare i testi antichi, l’istruzione dei bambini, l’architettura delle abazie... La regola benedettina non era una mera reazione al vuoto di potere, ma l’affermazione della vocazione perenne dell’uomo: prendersi cura del mondo e degli altri, dissodando il cuore, la mente e la terra. Un umanesimo ascendente e discendente, anima dell’Europa: pensiero e azione ispirati dal fatto che la realtà è il compito che Dio affida all’uomo, per il fiorire suo e dei suoi fratelli. Un umanesimo attento alla cura tanto dell’anima quanto della tavola: quanti sanno che parole come colazione, pietanza, pranzo affondano le loro radici nella vita benedettina?
A cavallo tra il secondo e il terzo millennio, il filosofo Alasdair MacIntyre nel suo ponderoso capolavoro, «Dopo la virtù», analizzando la crisi della modernità a partire dai limiti del modello liberista e marxista, scrive: «la grandezza di Benedetto sta nell’aver reso possibile l’istituzione del monastero centrato sulla preghiera, sullo studio e sul lavoro, nel quale e intorno al quale le comunità potevano non solo sopravvivere, ma svilupparsi in un periodo di oscurità sociale e culturale. Gli effetti della visione di Benedetto e la loro ricaduta erano in gran parte imprevedibili. Anche il nostro è un tempo di attesa di nuove e inattese possibilità di rinnovamento. Ma è anche un periodo di resistenza prudente e coraggiosa nei confronti dell’ordine sociale, economico e politico dominante». Rifarsi a Benedetto non significa imitare un modello archeologico, ma inventarne uno ispirato alla «costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi. Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso». L’Europa è sorta dall’arte di vivere di Benedetto, da cui si è sviluppata una cultura del lavoro senza precedenti, basata sulla ricerca di armonia tra natura e civiltà, seme di Medioevo e Rinascimento, fioritura di tutto ciò che è umano nell’uomo: la sua vita terrestre e celeste. I nuovi Benedetto dovranno rilanciare la paideia europea, un umanesimo trascendente e immanente (aperto all’altro e all’Altro) che sappia rispondere, con un rinnovato «ora et labora», alle sfide contemporanee, ma senza ritirarsi dal mondo, anzi rinnovandolo dall’interno, a partire dal lavoro e dalla famiglia. Altrimenti avremo l’illusione della salvezza «da fuori», che Kavafis descrive in Aspettando i barbari, una poesia su ciò che accade alle civiltà in cui la messa in scena del potere in realtà soffoca la vita: tutti sono paralizzati dall’imminente arrivo dei barbari, ma: «S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti./Taluni sono giunti dai confini,/han detto che di barbari non ce ne sono più./E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?/Era una soluzione, quella gente».
La vita del singolo e dei popoli non viene da fuori, ma dalla liberazione delle energie interiori, oggi imprigionate da paura, individualismo e nichilismo. Il letto da rifare è ritrovare l’armonia tra lavoro delle mani e lavoro di Dio: senza un senso trascendente e immanente, terrestre e celeste, della vita, il mondo diventa il teatro del caso e quindi della legge del più forte. La mano, se guidata solo da pulsioni immediate ed egoistiche, si chiude e volge contro la terra e gli altri, incapace di fare il mondo e le relazioni. «Un vento profumato penetrava le rovine e sentivo che nel mio mondo parole chiave come silenzio, dedizione, spirito di sacrificio erano state liquidate o avevano smarrito il loro senso. La stessa parola “Europa” si era perduta»: il vento di rinascita di cui scrive Rumiz non è nel voto, che darà uno stipendio a politici febbrilmente solerti durante le campagne elettorali e quantificherà chi siederà sul trono di spade, ma nell’azione quotidiana e costante di anime (da anemos, «vento» in greco) veramente europee, come quella di Benedetto.
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