È ora di riscoprire la religiosità popolare, trade-union fra culture. Si torna a discutere di pietà popolare: va abolita o riformata? Che relazione c’è con l’ecclesiologia e la pastorale? La provocazione culturale della rivista “Ricerche di storia sociale e religiosa”, di Marco Roncalli
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Riprendiamo da Avvenire del 26/2/2019 un articolo di Marco Roncalli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Ecclesiologia.
Il Centro culturale Gli scritti (22/9/2019)
Già Gabriele De Rosa, scrivendo la storia della pietà e del sentimento religioso non solo del Mezzogiorno, ma anche del Veneto e del Lazio, aveva individuato nelle devozioni popolari il filo rosso in grado di unire regioni distanti, ma appunto vicine “spiritualmente” Se in alcuni casi spunti per una rinnovata attenzione sul tema della pietà popolare sono state le origini culturali e i tratti pastorali latino-americani, di cui sono ricchi l’esperienza e il magistero di papa Francesco - così affermano ad esempio i collaboratori di “Studia patavina”, la rivista della Facoltà teologica del Triveneto, introducendo un recente numero monografico dal titolo «Pietà popolare, culto, devozioni» - questo non vale per tutti i curatori dell’ultimo numero di “Ricerche di Storia Sociale e Religiosa” che dedica contributi allo stesso argomento sotto il titolo «La religione popolare tra storia e scienze sociali».
Sì perché, in questo caso, gli interventi pubblicati sulla rivista con il marchio delle Edizioni di Storia e Letteratura, vanno fatti risalire - come premette nell’editoriale Giuseppe Maria Viscardi presentandoli - a un convegno immaginato da Sofia Boesch Gajano, già nell’aprile 2011, ben prima dell’elezione di Jorge Bergoglio. Un convegno dove tornare appunto sul vissuto religioso, sostare sulla storia della pietà, del sentimento religioso, per rendere omaggio a Gabriele De Rosa, lo studioso - mancato proprio dieci anni fa - che, scrivendo la storia sociale e religiosa del Mezzogiorno, ma anche del Veneto e del Lazio, aveva individuato nella religione popolare il filo rosso in grado di unire regioni distanti, ma appunto vicine “spiritualmente”.
Un convegno al quale ci si va ancora preparando (ma i tempi non sono ormai maturi?), del quale il Seminario di studi dell’Associazione per la storia sociale del Mezzogiorno e dell’Area Mediterranea svoltosi a Potenza nel 2015 davvero può considerarsi una tappa preliminare propedeutica non a caso, forse, ancora una volta svoltasi nella terra che ha dato i natali a don Giuseppe De Luca. Ovvero all’erudito “prete romano” teorico della “storia della pietà”, artefice di un Archivio italiano per la storia di questa pietà, che benché da lui quasi mai palesata come “pietà popolare”, si è riverberata su una storia della Chiesa in tutta la sua pienezza.
Con l’apporto fondamentale del lavoro di umili preti e laici, della vita di parrocchie e santuari, della pratica di riti e antiche consuetudini, mai, dunque, ridotta a storia giuridica, del Papato, degli episcopati, dei rapporti fra Stato e Chiesa, e nemmeno a storia di disciplinamento da parte delle gerarchie pronte a intervenire solo nei casi di insubordinazione, o a storia di dispute teologiche.
Anche se, e lo dimostra proprio Viscardi nel suo contributo dopo essersi interrogato sulla religione popolare tra storia e scienze sociali (nella persistente assenza di un lessico condiviso, e detto con Fernand Braudel, di un dialogo un po’ tra sordi), oggi è forse proprio il ruolo dei teologi a tornare sotto i riflettori, essendo chiamati a ragionare di nuovo sull’argomento e a rifarsi delle domande (religione popolare ed ecclesiologia: una relazione da eludere? Religione popolare: riforma o abolizione?).
E qui, il salto inatteso che Viscardi finisce per proporre copre distanze non indifferenti nel tempo e nello spazio, sotto più profili. Perché da De Luca che nel 1951 citava Galileo - «Il sonar l’organo non s’impara da quelli che sanno far organi, ma da chi li sa sonare» - facendo seguire il suo sapido commento e cioè «i teologi fanno gli organi, quanto a saperli sonare è un’altra cosa», si arriva a due teologi che questo fenomeno l’hanno studiato per davvero: Harvey Cox e Leonardo Boff.
Il primo, ministro della Chiesa battista statunitense, è l’autore di The Seduction of the Spirit. The Use and Misuse of People’s Religion. Il secondo, ex francescano, l’autore di Igreja: carisma e poder. Ben noto il ruolo del primo in quella che è stata definita la «teologia radicale», e del secondo nella «teologia della liberazione».
Nella cornice di riferimento, per quanto a chi scrive sembrino due figure lontanissime da De Luca e da Gabriele De Rosa (del quale Viscardi propone persino definizioni che raffronta evidenziando analogie), da loro-oltreoceano rappresentanti per così dire di teologie secolarizzate, ma calati nel vissuto cristiano delle classi popolari, scossi dal “grido dei poveri” - arriva con qualche autocritica l’invito finale per tutti: riandare «alla scuola della religione popolare».
A parte il richiamo alla lezione dell’antropologo Carlos Castaneda (autore del saggio A scuola dallo stregone), in ogni caso si tratta - osserva Viscardi - di «un atteggiamento di grande umiltà e attenzione, che dovrebbe essere fatto proprio da tutti gli intellettuali che si apprestano a studiare non solo la cultura e la religione popolare, ma qualsiasi altro tema». Atteggiamento che troppo spesso resta merce rara.