Migranti: sui barconi sale la classe media, i più poveri non si spostano, di Milena Gabanelli e Simona Ravizza
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Riprendiamo dal Corriere della Sera del 12/5/2019 un articolo di Milena Gabanelli e Simona Ravizza. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Nord-Sud del mondo.
Il Centro culturale Gli scritti (9/9/2019)
Sembra un paradosso, ma non sono i più poveri della terra a rischiare la vita sui barconi. Se si escludono i Paesi afflitti dalle guerre, i 100 milioni di migranti che nel mondo si sono spostati negli ultimi 25 anni, provengono dalla classe media. Le persone emigrano dai Paesi dove il reddito consente di affrontare le spese di viaggio. Allora quando diciamo che i migranti vanno aiutati a casa loro abbiamo chiaro in testa il «come»? Perché il rischio è di ottenere il risultato contrario.
Emigra la classe media
La maggiore preoccupazione dell’Europa si concentra sull’Africa. I dati elaborati dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) per Dataroom, mostrano un quadro molto chiaro. Negli ultimi sei anni, su 1 milione e 85 mila migranti africani sbarcati in Europa, il 60% proviene da Paesi con un reddito pro capite tra 1.000 e 4.000 dollari l’anno, considerato medio-basso dalla Banca mondiale per il continente africano. Il 29% tra i 4 e 12 mila dollari, ossia medio-alto; il 7% da Paesi dove c’è un reddito alto (sopra i 12.000 dollari) e solo il 5% dai Paesi poverissimi (sotto i mille dollari).
In Italia questa percentuale scende addirittura all’1%. Infatti, nello stesso periodo, su 311.000 arrivi di immigrati africani il 65% proviene da Paesi con un reddito medio-basso, il 33% medio-alto.
Chi parte e da dove
In Italia il numero più alto di arrivi (87.225) è dalla Nigeria, dove il reddito pro capite è di 5.473 dollari l’anno; dal Senegal (30.280 partenze), il reddito medio è di 2.781 dollari; dalla Costa d’Avorio (22.240) e il reddito 2.880 dollari. Indipendentemente dalla posizione geografica, ed esclusi i Paesi con conflitti in corso dove gli spostamenti sono interni e nei Paesi confinanti, là dove il reddito è basso le partenze sono minime. Dal Burundi (reddito 742 dollari), ne sono arrivati 30; dalla Repubblica Centrafricana (731 dollari) 165; dal Niger (reddito di 870 dollari) 1.135 arrivi. I flussi tendono a fermarsi quando il reddito medio supera i 12 mila dollari, ed è il caso del Sud Africa, Botswana e Guinea Equatoriale. La Banca mondiale – che ha osservato i 100 milioni di persone che nel mondo si sono spostate negli ultimi 25 anni – la chiama «gobba migratoria»: sotto i mille dollari le migrazioni sono basse o assenti; tra i 1.000 e i 4.500 aumentano e arrivano al picco; tra 4.500 e 12 mila iniziano a diminuire; sopra i 12 mila si diventa Paese di immigrazione.
Dall’altra parte del mondo
Milioni di arresti e schieramenti permanenti di polizia lungo il confine non hanno impedito ai messicani, negli ultimi 20 anni, di continuare inesorabilmente ad attraversare la frontiera con gli Usa. Nel 1995 il reddito medio pro capite di chi tentava l’espatrio era di 3.829 dollari. Nello stesso periodo quasi nessuna partenza da Honduras e Salvador, dove il reddito era rispettivamente di 937 e 1.590 dollari. Però appena è salito (più che raddoppiato nel 2018), si sono moltiplicate anche le partenze: 77.128 dall’Honduras, 31.636 dal Salvador. Contemporaneamente sono scese quelle dal Messico, dove la popolazione ha raggiunto un miglior tenore di vita.
Gli effetti della globalizzazione
Secondo il Center for Global Development di Washington, che ha analizzato migliaia di censimenti nazionali nel corso di 50 anni, la Grande Migrazione è un effetto collaterale della globalizzazione, che ha determinato il crollo della povertà assoluta. Sembra assurdo, ma uno dei più grandi successi della nostra epoca ha indirettamente messo in moto i barconi. Con l’apertura al commercio e le comunicazioni internazionali ormai a costo zero, viaggiano le merci e in parallelo le persone. Il primo indicatore sono le esportazioni. Nel 1990 dall’Africa erano 127 miliardi di dollari, saliti a 539 nel 2017. Il reddito medio dei Paesi di partenza è passato da 3.300 dollari a 4.700 e il numero di africani in Europa da 4,5 milioni a 9,2 milioni. Oggi il 75% degli abitanti dell’Africa ha un cellulare (contro il 32% di dieci anni fa) e il 20% un collegamento a Internet (contro il 4% di dieci anni fa). È facile sapere qual è la rotta percorribile e in quale Paese ci sono più opportunità. Un viaggio verso l’Italia, come evidenzia l’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Iom) – può costare fino a seimila dollari. Dallo stesso studio emerge che il 53% ha un lavoro nel Paese d’origine, solo il 32% è disoccupato e il 15% studente.
Gli arrivi nei prossimi 20 anni
«Nei prossimi due decenni – spiega il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa – dall’Africa verso l’Europa si sposteranno altri 3,4 milioni di persone. Allarmarsi non serve a nulla, ci vuole consapevolezza sulla sfida da gestire perché il processo è inarrestabile». Possiamo augurarci che sia il più breve possibile e accelerarlo comprando prodotti africani, ma intanto «La gente spesso rifiuta l’immigrazione perché esaspera la sensazione di avere perso il controllo sulla propria vita» sottolinea Il Manifesto del nuovo liberalismo pubblicato dall’Economist.
Come aiutarli a casa loro?
Diciamo che bisogna aiutarli a casa loro. Giusto, ma facendo cosa? Gli studi recenti dimostrano che il sostegno al reddito incrementa le partenze, mentre gli investimenti per lo sviluppo dei servizi incoraggia la popolazione a restare. Basta pensare ai 38 milioni di piccoli produttori agricoli in Nigeria, spesso proprietari di terre che non riescono a coltivare per mancanza di capitali necessari. Per i milioni di africani senza l’acceso all’energia elettrica sarebbe possibile un futuro a casa loro se arrivassero investimenti nelle energie rinnovabili. Servono anche nella sanità, nei trasporti, nell’istruzione (ci sono ancora oltre 400 milioni di africani analfabeti) e soprattutto nello sviluppo tecnologico della rete internet.
Per chi vuole partire un’alternativa può essere quella di formare sul posto, o nei luoghi di transito, le professionalità che servono ai Paesi di destinazione. Un esempio è quello degli infermieri: nei prossimi 15 anni in Europa ne serviranno 590 mila in più rispetto a quelli programmati. Michael Clemens del Center for Global Development di Washington, fa i conti: il costo della formazione di un infermiere professionale in Germania o nel Regno Unito arriva a quasi 100 mila dollari. Un corso completo di tre anni può essere effettuato nei maggiori centri urbani del Marocco e della Tunisia per meno di 14 mila. Insomma, il vantaggio di un «accordo per le competenze globali» è reciproco. Dice l’economista Ugo Gentilini della Banca Mondiale: «Che le persone migrino oppure no, una strategia di sicura efficacia per l’Africa è il potenziamento del suo capitale umano. Crescere tramite l’accesso ai servizi di qualità che formino competenze è essenziale per preparare i giovani a un mercato del lavoro, sia interno che globale».
Il piano Marshall
Allora è lì che andrebbero orientati i 50 miliardi europei di piano Marshall per l’Africa. Ma per attivarlo ci vuole una politica unica e condivisa che abbia la forza di imporre anche nuove regole fra il Nord e il Sud del mondo, usato da decenni come discarica e depredato dalle troppe multinazionali occidentali che operano nei Paesi africani senza pagare le tasse dovute. Fare questo vuol dire pensare al futuro dell’Europa e del proprio Paese. Non del proprio partito.
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