La spiritualità del pellegrino russo: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me, peccatore”. La preghiera non lo separava dalla realtà esterna, di mons. Paolo Pezzi
- Tag usati: ortodossia, paolo_pezzi, pellegrinaggio_russia, racconti_pellegrino, russia
- Segnala questo articolo:
Riprendiamo dal sito dell’Arcidiocesi di Firenze una meditazione di S. E. Mons. Paolo Pezzi pubblicata il 24/2/2019. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Maestri dello Spirito.
Il Centro culturale Gli scritti (26/5/2019)
Eminenza, cari Sacerdoti, sono molto onorato e anche un po’ emozionato a dovervi comunicare il frutto delle mie riflessioni sul numero 152 dell’esortazione apostolica di Papa Francesco Gaudete et Exultate.
Vi leggiamo che la preghiera non separava mai il pellegrino russo dalla realtà esterna. Per penetrare questa frase sono riandato al numero precedente della Gaudete et Exultate, il 151, — tra l’altro, sono parole dette da Papa Francesco proprio qui a Firenze (cfr. Francesco, Discorso al V Convegno nazionale della Chiesa italiana, 10 novembre 2015) — dove si dice che la preghiera è contemplazione del volto di Gesù che ricompone la nostra umanità.
La preghiera come rapporto con Cristo.
E infatti Cristo è tutto in tutto attraverso il Suo Spirito, che Egli dona con generosità; Cristo è alla radice della realtà creata dopo la Resurrezione e l’Ascensione; “tutto consiste in Lui”, contempliamo nuovamente ogni anno nella Croce il Venerdì Santo (cfr. Col 1,17); “tutto è stato creato per mezzo di Lui” (cfr. Gv 1,3; Col 1,15-16), eterno Figlio del Padre, generato dall’eternità e incarnatosi nel tempo per opera dello Spirito Santo. Allora la preghiera che non separa dalla realtà esterna, è quella che è ancorata al Volto di Cristo.
Il Papa prosegue rivolgendo a tutti noi quelle domande che un giorno san Bernardo rivolse ai suoi monaci: “Dunque mi permetto di chiederti: ci sono momenti in cui ti poni alla sua presenza in silenzio, rimani con Lui senza fretta, e ti lasci guardare da Lui? Lasci che il suo fuoco infiammi il tuo cuore? Se non permetti che Lui alimenti in esso il calore dell’amore e della tenerezza, non avrai fuoco, e così come potrai infiammare il cuore degli altri con la tua testimonianza e le tue parole?” (cfr S. Bernardo, Discorsi sul Cantico dei Cantici). Penso che ognuno di noi possa lasciarsi interrogare da queste domande non solo per la propria vita spirituale, ma anche per la propria dedizione pastorale, perché il primo rischio di divisione tra preghiera e realtà esterna, tra vita spirituale e attività pastorale è in noi.
Dice il libro dei Proverbi: “Confida nel Signore con tutto il cuore e non appoggiarti sulla tua intelligenza; in tutti i tuoi passi pensa a lui ed egli appianerà i tuoi sentieri” (Pro 3,5-6). Queste parole dicono in altro modo in cosa consista la contemplazione del Volto di Cristo, pensare a Lui il più possibile, così che Egli sia più familiare al cuore dentro le circostanze della vita. La familiarità con Cristo si percepisce dal primo pensiero che ci viene alla mente quando ci svegliamo al mattino, dallo sguardo che poniamo alle persone e alle cose che incontriamo.
Devo dire che le domande di san Bernardo le ho trovato molto provocanti sia per la mia esperienza di preghiera che per la mia azione pastorale. Quelle parole mi hanno anche riportato col ricordo agli anni del seminario, quando forse per la prima volta percepii una continuità di me stesso con la realtà attorno a me; stavo in silenzio, contemplando il Volto di Cristo, e ricordo che dissi in modo consapevole ‘Tu’ a Cristo.
Ero di fronte a una riproduzione dell’icona del Cristo Salvatore di Rubljov, che sta all’origine della mia riscoperta del cristianesimo. Mi accorsi quel giorno pregando in ginocchio di fronte all’icona che tutta la realtà, ed anche la mia storia, le mie scoperte e le mie disfatte, gli incontri fatti, la bellezza del mondo e dei volti umani, la bruttezza e il dolore per il male nel mondo erano come misteriosamente, ma realmente portati dentro quel rapporto. Scoprii così che la contemplazione non è fuga dalla realtà, ma la possibilità di portare in avanti la realtà verso il destino, verso il compimento tutta la realtà.
Ho cominciato così ad amare il silenzio, non perché mi potevo isolare dal mondo. Nel silenzio trova così la sua forza, la sua fonte continua la vocazione sacerdotale. La memoria di essere chiamati da Cristo fluisce dal di dentro di questo rapporto con Cristo.
La memoria del mio essere chiamato costituisce il contenuto ‘materiale’ della contemplazione del Volto di Cristo. La ‘materia’ del mio rapporto con Cristo è costituita dalla memoria stupita della vocazione che Tu, o Cristo mi hai dato e mi dai ora: Tu, o Cristo, mi hai scelto, mi scegli ora, mi hai chiamato, mi chiami ora, non ti ha fermato e non ti ferma tutta la mia indegnità, Tu gliel’hai data nuovamente, Tu ricomponi nuovamente in unità la mia umanità attraverso la memoria della mia vocazione, Tu l’hai purificata e la purifichi da ogni bruttura di peccato attraverso il dono stupendo e inimmaginabile del perdono, della confessione.
Quale stupore per me nel tempo passato nel confessionale, quando vedi riprendere colore e consistenza la vocazione del penitente.
Il silenzio orante non è dunque un’evasione che nega il mondo intorno a noi (cfr. GE, 152). Il silenzio non è negazione di qualcosa, non è un’assenza di voci e di suoni, ma al contrario, è la presenza della Voce che parla al mio cuore. Il silenzio è la Voce del Mistero, ma se io non faccio silenzio, se non lascio tacere il rumore del mio io, non riuscirò ad ascoltare il Tu che mi parla.
Questi versi di Vittorio Gassman, la poesia A Dio in ‘Fermoposta’, mi colpirono molto quando li lessi la prima volta:
Eri, come ‘La lettera smarrita’ di Poe,
nello spazio impensato perché
scontato.
Eri e Sei
— forse ora ho capito —
fra le parole che ho tanto usato e
osato;
…
purché Tu appaia, le fruste parole
si faranno Parola, e col mio io
sepolto finalmente parlerai,
che mai è stato quel che era forse
destinato
ad essere, un io mancato, strangolato.
Parlami a perdifiato. Ti cedo
Ogni suono o silenzio; e già ti vedo
Emergere da quella pila di parole
Inutilmente sparse nel cassetto,
cancellarne rime e rumore,
facendone linguaggio perfetto.
Cancella anche me, cambiami,
conducimi,
ritraducimi, parla Tu per sempre,
Signore.
Dalla tua cima
Su me sei balzato,
mi hai stanato.
Lo vedo e tutto Ti cedo.
Sono io ora a tacere.
E Tu raccontami, o Dio.
Questo Dio, questo Mistero che può essere spesso tanto ‘assente’ e pur più presente di ogni presenza, — “chi sei tu che riempi della tua assenza tutto il mondo, tutto il mio essere?” si domandava il premio nobel Par Lagerkwist — si è reso vicinanza umana, si è fatto familiare in Gesù Cristo. Scrive Solov’ev: “Prima di prendere una decisione importante per la vita personale o sociale, pensiamo nell’intimo della nostra anima alla figura morale di Cristo, penetriamocene soprannaturalmente e chiediamoci: agirebbe Egli così? … A tutti propongo questa verifica che non ingannerà. In tutti i casi dubbi, se vi è possibile riprendervi e riflettere, pensate a Cristo, immaginatelo vivo, come è in verità, e caricatelo di tutti i pesi dei vostri dubbi” (V. S. Solov’ëv, Duchovnyja osnovy dzizni).
Ma non solo nei casi dubbi, ma sempre, o almeno, spesso. Ma pensate a un uomo, un prete che ripeta dieci, cento, mille volte al giorno ‘Signore Gesù, abbi pietà di me peccatore’: che razza di familiarità con Cristo ne nasce, con questa presenza personale e tenerissima, perché questo Cristo è mistero, irriducibile ai progetti umani, ma è, anche, inseparabile dal Suo Corpo la Chiesa, fatta dei volti concreti dei fedeli della comunità convocata da Dio in Gesù Cristo.
Allora questa preghiera ‘Signore Gesù, abbi pietà di me peccatore’, mi rende più familiare la realtà di Cristo e, allo stesso tempo, cresce la familiarità con la comunione della Chiesa, indipendentemente dai nostri limiti personali. Questa familiarità di rapporto con Cristo nella comunione della Chiesa la imparo sempre di nuovo durante il tempo che passo davanti al Santissimo Sacramento, — tendenzialmente ogni mattina prima della Santa Messa, quando non sono in visita alle comunità. Quella Presenza dolcissima e tenerissima, assolutamente indifesa e potente allo stesso tempo, è il cuore del mondo, porta in sé tutta la realtà creata.
San Giovanni Paolo II così scriveva nella sua lettera Mane Nobiscum Domine del 2004 sull’anno eucaristico: “Restiamo prostrati a lungo davanti a Gesù presente nell’Eucaristia, riparando con la nostra fede e il nostro amore le trascuratezze, le dimenticanze e persino gli oltraggi che il nostro Salvatore deve subire in tante parti del mondo. Approfondiamo nell’adorazione la nostra contemplazione personale e comunitaria”.
Parlare di adorazione, di silenzio, del silenzio orante, del rapporto col Tu del Mistero di Dio nella Chiesa, significa per noi preti, parlare anche del riposo, perché contemplare il Volto di Cristo è riposo. Ora et labora per dirla con San Benedetto.
In un testo ormai vecchio degli anni ’50 del secolo scorso, ma che conserva, a mio parere, tutta la sua attualità, il grande educatore e predicatore Gratry così scriveva: “La sera, più che in ogni altro momento è necessario saperla rompere con le nostre abitudini quotidiane. Ogni giornata che finisce col piacere, sappilo è giornata vuota. Che cosa diventa questo tempo? Che cosa sono oggi le conversazioni serali, le riunioni, i nostri giochi, le visite, gli spettacoli? … È riposo, si dirà. Lo nego. Ciò che dissipa non riposa. … Noi oggi manchiamo di riposo assai più che di lavoro. Il riposo è fratello del silenzio! Manchiamo di riposo come di silenzio. Siamo infecondi per mancanza di riposo, più ancora che per mancanza di lavoro. Che è dunque il riposo? Il riposo è la vita che si raccoglie e si ritempra alle sue sorgenti. Il riposo per il corpo è il sonno; quel che avviene in esso lo sa Dio. Il riposo per la mente e l’anima è la preghiera. … Il riposo, morale ed intellettuale, è tempo di comunione con Dio e con le anime, e di gioia in questa comunione. Sta un fatto: noi del riposo abbiamo conservato solo immagini vuote nelle abitudini e nei piaceri della sera. Tu dunque, che vuoi far parlare il silenzio e lavorare il sonno, rendi utile il tuo riposo. Fa in modo che l’interruzione del lavoro sia veramente il riposo; rendi sacre le tue sere. Una vita ben ordinata così renderà sacra la sera! Sacra anche la fine di ogni settimana, con un riposo santo, con un giorno di unione delle anime in Dio” (J. Gratry, Le sorgenti).
Ai miei preti, e anche per me nel limite del possibile, dico di riservarsi il lunedì per il riposo, per la preghiera, e anche per lo studio.
Il pellegrinaggio: coscienza del proprio essere peccatori e obbedienza.
A un incontro, alcuni anni fa, il Cardinal Tauran, scomparso recentemente, disse: “Mentre vi parlo, Dio dà a me l’esistenza. Esistere per un uomo, è essere in relazione con un Altro. Esistere è sempre essere in due”; e concludeva “In Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, la creazione materiale e spirituale, il passato, il presente e il futuro prendono tutta la loro consistenza. Se passiamo dal desiderio alla certezza – è perché qualcuno è venuto a dirci chi è Dio e chi è l’uomo e fare di noi, e di tutti gli uomini di tutti i tempi, dei pellegrini verso la Verità che non è altro che l’incontro che faremo un giorno quando vedremo Dio faccia a faccia. Allora potremo capire che il tempo umano, non è qualcosa che passa, ma qualcuno che viene”.
Potremmo dire che il pellegrino russo ha questa coscienza; camminava in preghiera continua: questa è l’immagine di una preghiera che non separa dalla realtà esterna (cfr. GE, 152), camminare e pregare.
Questa preghiera, che la spiritualità orientale ha comunicato dal Sinai a Damasco, e poi ai greci e bizantini, fino agli slavi russi, chiama preghiera di Gesù o a Gesù, preghiera interiore perpetua, o preghiera del cuore, o più tecnicamente ‘esicasmo’ (preghiera che mantiene la pace e la letizia del cuore), è una preghiera costante, continua e ininterrotta: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore”, o, più semplicemente, “Signore Gesù, abbi pietà di me”.
Di questa preghiera dice il Catechismo: “Il nome di Gesù contiene tutto: Dio e l’uomo e l’intera Economia della creazione e della salvezza. Pregare ‘Gesù’ è invocarlo, chiamarlo in noi. Il suo nome è il solo che contiene la presenza che esso significa. Gesù è risorto, e chiunque invoca il suo nome accoglie il Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per lui. Questa invocazione di fede estremamente semplice è stata sviluppata, nella tradizione della preghiera, sotto varie forme in Oriente e in Occidente. La formulazione più abituale, trasmessa dai monaci del Sinai, di Siria e dell’Athos, è l’invocazione: ‘Gesù, Cristo, Figlio di Dio, Signore, abbi pietà di noi, peccatori!’. Essa coniuga l’inno cristologico di Fil 2,6-11 con l’invocazione del pubblicano e dei mendicanti della luce. Mediante essa il cuore entra in sintonia con la miseria degli uomini e con la misericordia del loro Salvatore” (CCC, 2666, 2667).
Le parole di questa preghiera mettono il cuore del pellegrino in rapporto con Cristo, lo riportano continuamente a Lui, con la coscienza matura di ciò che siamo: siamo niente, o meglio un niente, capace di Dio, con l’aggravante di non reggere la grandezza di questa capacità, siamo dei poveri peccatori.
L’anno scorso è morto mio padre. Tra le sue carte abbiamo trovato alcune poesie degli anni ’40. Alcuni versi, quando forse aveva 20/23 anni, dicono:
“non voglio che si pianga la mia morte
ne’ voglio veder gente con dei fiori…
piegherò il capo innanzi al creatore
dovrò pur scontare il mio peccato
e oserò dire al buon Signore
perdona me che fello son stato”.
Come è importante questa coscienza, che non è per niente ‘depressiva’, pessimista! È una preghiera realista: confidare totalmente in Dio, “tutto posso, in Colui che è la mia forza” dice san Paolo (cfr. Fil 4,13). Questa è precisamente la forza del pellegrino russo, che gli permette di attraversare le più disparate peripezie come l’abbraccio amoroso di Dio, le tentazioni come prove di un più profondo e sincero amore a Dio.
Scrive Dostoevskij: “Ma ditemi: chi non si è mai perso? Noi tutti siamo diretti verso un punto ben preciso, o almeno tentiamo di farlo, dall’uomo più saggio all’ultimo dei criminali, solo che scegliamo strade diverse. … Io ho visto la Verità, ho visto e so che gli uomini possono essere belli e felici senza perdere la capacità di vivere in Terra. … Io ho visto la Verità, non me la sono inventata, l’ho vista, l’ho vista, e la sua immagine vivente ha colmato la mia anima per sempre. L’ho vista in una tale completa integrità, che non posso credere che essa non esista. … L’immagine viva che io ho visto sarà sempre in me, magari riprendendomi se è necessario, ma indirizzandomi sempre verso la retta via. Oh, io … camminerò, camminerò, anche per mille anni ancora” (cfr. F. Dostoevskij, Il sogno di un uomo ridicolo).
Anche in Dostoevskij possiamo vedere una chiara eco dell’incontro con Cristo e del pellegrinaggio della vita, dell’incontro con Cristo-Verità, e perciò anche con Cristo-Via e Cristo-Vita.
In un opuscolo dedicato alla figura del profeta Elia, Adrienne von Speyr meditando sul lungo camminare del profeta, lo legge come un camminare in e per obbedienza a Dio. L’obbedienza, la sequela diviene così la stoffa del cammino, circostanza quotidiana e privilegiata allo stesso tempo, possibilità di certezza che la nostra azione pastorale non sia il canto solitario del cigno, ma l’umile nostra offerta per la costruzione del Regno di Dio. Dio chiama il profeta ad allontanarsi dal campo d’azione in cui è entrato d’impeto, con autorità indiscutibile, impartendogli questo ordine: Vattene di qui, dirigiti verso oriente; nasconditi presso il torrente Cherit, che è a oriente del Giordano (1Re 17,3).
Questa parola può essere rivolta anche a noi e talvolta la voce decisa di Dio risuona attraverso una circostanza più forte di noi a cui non possiamo opporci in nessun modo, che segna per noi — o almeno così appare — una battuta d’arresto. Pensiamo agli anni di Paolo a Tarso, chissà che sofferenza interiore, che attesa, eppure che intensità di esperienza di Cristo saranno stati quegli anni fino all’arrivo un bel mattino di Barnaba…
Scrive la Von Speyr: “Il profeta guadagna quella certezza più profonda, tipica di colui che vive nell’obbedienza, … riconosce con gratitudine i segni che la marcano. Questi segni gli mostrano che non si è sbagliato, che è sulla strada giusta, che porta alla meta fissata da Dio, che il viandante forse non conosce ancora. Vattene via di qui, dice il Signore. … Nell’obbedienza egli deve … rinunciare a quella che considerava una posizione sicura. Se si deve comandare nel nome di Dio, si può assumere un unico atteggiamento: quello dell’obbedienza per non essere privati dell’autorità; … Dirigiti verso oriente. Viene data una precisa istruzione. Elia non deve andarsene per andarsene [si è sempre mandati a qualcuno, per un compito, per una missione], per non essere più là, ma per farsi carico di qualcosa di nuovo. … E nasconditi al torrente Cherit. Adesso Elia deve nascondersi, come se i riflettori della pubblica scena non si adattassero più a lui, … Il nascondimento è contemplazione, è solitudine, abbandono, impotenza. Esso appare come la fine di una libertà che finora era stata concessa. Esso ha ultimamente questo unico senso: essere nell’obbedienza a Dio” (Adrienne von Speyr, Elija).
Quella di Elia è l’esperienza dell’obbedienza nel cammino, attraverso il pellegrinaggio. Per essere profeti attraverso la vocazione, per essere degli autentici padri del popolo a noi affidato, non occorre essere persone perfette. Cristo non chiamò dei perfetti, Cristo non ci chiama quando siamo sulla soglia della morte, e il cammino di perfezione è così compiuto per quanto ci è dato di intuire. Attraverso la vocazione sacerdotale, Gesù ci fa camminare, inizia un cammino che è anche di perfezione, ma magari non come lo programmeremmo noi, Lui ci fa degni della chiamata che ci ha fatto. È necessario perciò ‘essere’ in cammino, oggi, ora, nell’istante presente.
E, perciò, è anche necessario voler continuare a essere in cammino, rialzarsi dalle cadute, come diceva Dostoevskij. Occorre essere decisamente, liberamente in cammino, cioè è necessario che io riconosca con chiarezza quali sono le zone d’ombra della mia vita e della mia persona che non ho ancora veramente consegnato a Cristo e che accetti di camminare verso un cambiamento, che accetti di mendicare la guarigione da certe ferite, la forza di grazia necessaria per correggermi.
E poi è altrettanto necessario che io viva la mia tensione alla conversione, esponendomi allo sguardo dei fratelli del presbiterio e del vescovo che mi accompagnano e perciò mi “guidano”, mi “correggono”, dal latino cum-regere, reggersi assieme nel cammino. E perciò occorre desiderare il loro giudizio come strumento della carità con cui Dio mi soccorre nella mia debolezza. Solo così potremo veramente indicare la via di Cristo a coloro che incontriamo: se ne sperimentiamo in noi stessi la convenienza e possiamo dunque parlare non per sentito dire, ma in forza di qualcosa che viviamo. Perché resta pur vero che posso comunicare solo ciò che vivo.
Ma pensate a un giovane —tornerò più avanti su questo punto —in noi un giovane deve poter vedere persone che stanno consegnando la loro vita a Cristo ora, persone perciò che non sono sedute, ma in cammino. Non dobbiamo avere paura del sacrificio che questo cammino comporta, e comporterà fino alla fine. Per parlare veramente al cuore dei giovani e guidarli verso Cristo, servono uomini attratti da Lui, dominati dal desiderio di somigliare a Lui. Un rinnovamento autentico e profondo della vita della Chiesa non nascerà da piani pastorali generali né da nuovi codici di comportamento o protocolli di trasparenza, se questi non saranno strumenti nelle mani di uomini in cammino, cioè che si lasciano rinnovare, liberare quotidianamente.
La familiarità con gli uomini
Nel secondo dei racconti dice il pellegrino russo: “L’attività spirituale (ossia la preghiera interiore), la conoscenza contemplativa e i mezzi per elevare l’anima non debbono essere tenuti per noi, ma bisogna comunicarli con la scrittura o con il discorso per il bene e l’amore di tutti. E la parola di Dio dichiara che ‘il fratello aiutato dal fratello è come una città alta e forte’ (cfr. Pr 18,19). Bisogna soltanto fuggire con tutte le nostre forze la vanità e vegliare perché il buon grano dell’insegnamento divino non sia disperso dal vento”.
A me sono tornate alla mente le parole che san Paolo scrive ai Filippesi dal carcere. Dalla situazione di incertezza in cui si trova, Paolo è mosso a scrivere dal desiderio puro di comunicare Cristo ai fratelli: “Purché in ogni maniera, per convenienza o per sincerità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene… Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno… Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. … Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù” (cfr. Fil 1;18b; 1,21; 3,8-9a.12).
Che plasticità in queste parole di Paolo! Che fiducia riposta in Cristo, che certezza di vita! E Paolo non è certo un uomo distante dalla vita, dalla realtà, dagli uomini. Ma è proprio questo affidamento a Cristo, tendere a Lui con Lui che gli rende così vicini i Filippesi. È infatti la familiarità di Cristo al cuore per mezzo di questa invocazione costante che rende familiari anche le altre presenze dei fratelli uomini. È come abolita ogni estraneità, è l’amore di Cristo (cfr. 2Cor 5,15-17) a diffondersi, ad abbracciare: “caritas Christi urget nos”, la carità di Cristo ci urge, ci spinge, ci possiede, ci abbraccia… “quando mi capitava di incontrare delle persone”, scrive ancora il pellegrino russo, “esse mi parevano così care come se fossero stati membri della mia famiglia” (cfr. Racconti di un pellegrino russo, 41).
La familiarità con Cristo porta a una familiarità con le persone che ci sono vicine, con chi vive
con noi, con i collaboratori parrocchiali, con i parrocchiani, con le persone che incontriamo. Si stabilisce una familiarità nuova, il cui fondamento è Cristo stesso.
Voglio ora riprendere una questione che a noi preti deve stare particolarmente a cuore: i giovani. Nell’anno passato ho riflettuto molto su un aspetto della familiarità con gli uomini che è il rapporto dei sacerdoti con i giovani, la proposta che essi fanno ai giovani. Certo a questa mia riflessione ha contribuito molto anche il Sinodo dell’ottobre scorso.
Parlando ai vescovi italiani riuniti per l’assemblea generale della CEI, nel maggio dell’anno scorso, Papa Francesco sollevò esplicitamente il punto focale che sta alla radice del distacco dei giovani dalla Chiesa, quello della crisi delle vocazioni. Francesco diceva: “È la nostra paternità quella che è in gioco qui! Quanti seminari, chiese e monasteri e conventi saranno chiusi nei prossimi anni per la mancanza di vocazioni? Dio lo sa. È triste vedere questa terra, l’Italia, che è stata per lunghi secoli fertile e generosa nel donare missionari, suore, sacerdoti pieni di zelo apostolico, insieme al vecchio continente entrare in una sterilità vocazionale senza cercare rimedi efficaci. Io credo che li cerca, ma non riusciamo a trovarli!” (Francesco, Discorso in apertura dei lavori della CEI, 21 maggio 2018).
Non riusciamo a trovare rimedi adeguati, dice il papa, che — al di là dello specifico problema delle vocazioni — permettano di ricreare le condizioni per un incontro positivo dei giovani con la Chiesa che cresca fino a diventare un senso stabile di appartenenza. Questa situazione di crisi non tocca una Chiesa astrattamente intesa, tocca invece proprio noi come sacerdoti in modo molto diretto. Bene, sono personalmente convinto, che una nuova capacità di interpellare realmente la vita dei giovani possa trovare il suo fondamento innanzi tutto in un vero rinnovamento del sacerdozio, cioè di noi stessi, nella conversione e nella comunione.
“Andremo verso l’uomo, perché questo è l’ostacolo, la crosta da rompere: la solitudine dell’uomo, di noi e degli altri. Sta qui la nostra felicità. Sapevamo e sappiamo che dappertutto, dentro gli occhi più ignari o più torvi, cova una carità, un’innocenza che sta in noi condividere. Sono uomini quelli che attendono le nostre parole, poveri uomini come noi quando scordiamo che la vita è comunione”.
Queste parole, non ve lo immaginereste neppure, forse, le scrisse Cesare Pavese sul primo numero dell’Unità, in pieno 1945, quando l’Italia era tutta in macerie e milioni di persone in quasi tutta Europa, in Africa, in Asia erano morte in circostanze orribili, ma soprattutto i cuori erano rimasti ripieni di odio e violenza. Pavese scriveva queste cose sull’Unità!
Senza forse nemmeno poterlo immaginare, Pavese gridava il bisogno di familiarità, lui parla addirittura di comunione. Un bisogno dunque che è insito nel cuore dell’uomo, e che l’uomo investito dalla grazia di Cristo, e che gli ha donato la vita per partecipare col proprio sacerdozio alla salvezza degli uomini, riesce finalmente a leggere e ad offrire ai suoi fratelli uomini, soprattutto ai più giovani.
È una desiderata conversione a Cristo che porterà noi preti a una rinnovata familiarità coi giovani. E questo richiede che noi sacerdoti viviamo una reale comunione e amicizia tra noi. La forza della nostra paternità sta nel nostro essere cordialmente in comunione. I giovani sono letteralmente attratti da una esperienza di comunione.
La comunione del presbiterio si esprime in quella che, nella Fraternità San Carlo, dove sono cresciuto come sacerdote, chiamavamo ‘generazione comune’. La generazione comune è innanzi tutto una concezione di sé. Prima ancora che una concezione del proprio operare pastorale, è anzitutto un ‘noi’ che il prete scopre alla radice del sentimento del proprio ‘io’. Generare in comunione significa quindi concepirsi come appartenenti, sentirsi mandati insieme, sentirsi parte di un unico corpo, di una realtà perciò più grande del proprio io, e alla quale invece apparteniamo, una unità che è evidentemente più grande delle immagini che ciascuno ha della propria realizzazione individuale o del bene della Chiesa che serve.
Un secondo aspetto della conversione che ci porta a una familiarità con gli uomini è la maturità spirituale del sacerdote. In questo senso occorre una riscoperta gioiosa della verginità per il Regno. La verginità non è solo una condizione di necessità, è anch’essa un cammino. In forza del suo compito nella Chiesa, il sacerdote ha una grande possibilità di influenza sulle persone che entrano in contatto con lui e sugli ambienti in cui opera.
Se dunque il sacerdote non ha raggiunto una sufficiente maturità spirituale e una vera libertà interiore, coscientemente o incoscientemente, nella sua azione inseguirà un tornaconto personale. A seconda dei casi, sarà un bisogno — non riconosciuto o non adeguatamente contestato — di affermazione personale, cioè ultimamente di potere, o di carrierismo, di conferma psicologica, di ritorno affettivo. Sono queste le spinte nascoste che spesso portano i preti a introdurre nella loro azione di servizio alla Chiesa criteri mondani.
Da queste zone irredente nelle persone dei sacerdoti derivano nella Chiesa divisioni, — come scrive San Clemente I Papa ai Corinzi — confusione dottrinale e morale, debolezza di guida, oppure, specularmente, una tendenza all’arbitrio nell’esercizio della propria funzione che può portare fino agli abusi e agli scandali che ahimè continuano a provare la fede e la vita stessa dei fedeli in tanti posti del mondo.
Occorre evidentemente il fascino della verginità vissuta in un cammino di conversione continua; questo può rinnovare il sacerdozio, questo attrae i giovani. Anni fa lessi una testimonianza di Wanda Połtawska, dopo il suo primo incontro con il cardinal Wojtyła nel confessionale della cattedrale di Cracovia: “Sull’altare della Madonna di Ostra Brama, una riproduzione eccezionalmente bella: nel buio la sua immagine è visibile per il luccichio della corona. E nel confessionale quel sacerdote, così attento, così concentrato nell’ascolto di quanto dicevo e anche di quanto non sapevo esprimere; e la sua reazione. Non gli chiesi di essere il mio padre spirituale, non dissi niente del genere, quello venne fuori da solo, quando come conclusione mi disse, come nessun sacerdote aveva fatto prima: “Vieni la mattina alla messa, vieni ogni giorno”. Prima mai nessun sacerdote me l’aveva detto, anche se alcuni mi avevano proposto un incontro, mi avevano invitato ad andare da loro; quel sacerdote invece non mi aveva detto: “Vieni da me”, ma: “Vieni alla messa”. Molto tempo dopo, quando potei ormai osservare da vicino come egli celebrava la messa, capii che per lui quel comportamento era ovvio, perché viveva di Dio. Lui non voleva dare se stesso agli uomini, ma condurli a Cristo, per così dire, attraverso se stesso, ma non a se stesso. Fu per me ovvio che avrei accolto l’invito e sarei andata al mattino alla messa, e tutte le mattine, perché quello era il senso dell’invito”.
La familiarità con il mondo esterno.
E ora l’ultimo punto. Questa familiarità nuova con Cristo e con la comunità ecclesiale ed umana riguarda anche il creato, la realtà che ci circonda. Conclude il n. 152 della Gaudete et Exultate, citando un altro brano dei Racconti del pellegrino russo: “Non solo sentivo questa luce dentro la mia anima, ma anche il mondo esterno mi appariva bellissimo e incantevole” (Racconti di un pellegrino russo, 129).
Anche un laico come Pasolini, chissà, forse sul ciglio della riscoperta della fede, poteva sentire questo anelito alla bellezza, a una familiarità nuova con la realtà.
“Gli occhi guardano. Per questo sono fondamentali. Sono gli unici che possono accorgersi della bellezza. La bellezza può passare per le più strane vie, anche quelle non codificate dal senso comune, e dunque la bellezza si vede perché è vita, e quindi reale. Diciamo, meglio, che può capitare di vederla, dipende da dove si svela. Il problema è avere gli occhi. Il non saper vedere, non guardare le cose che accadono, gli occhi chiusi, occhi che non vedono più, che non sono più curiosi, che non si aspettano che accada più niente forse perché non credono che la bellezza esista. Ma sul deserto delle nostre strade lei passa, rompendo il limite finito e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio” (P. Pasolini).
Dice il salmista:
“I Tuoi occhi sono aperti sul mondo,
le Tue pupille scrutano ogni uomo” (cfr. Salmo 10).
Penso che questa consapevolezza di essere guardati, scrutati, conosciuti dal mistero di Dio possa essere all’origine della possibilità di vedere il mondo bellissimo e incantevole.
Certo, la condizione per poter realmente vedere il mondo bellissimo e incantevole resta il desiderio di Cristo, come lo ricorda san Colombano in una splendida lettura del Breviario: “Tu sei tutto per noi: la nostra vita, la nostra luce, la nostra salvezza, il nostro cibo, la nostra bevanda, il nostro Dio. Ti prego, o Gesù nostro, d’ispirare i nostri cuori col soffio del tuo Spirito e di trafiggere col tuo amore le nostre anime perché ciascuno di noi possa dire con tutta verità: Fammi conoscere colui che l’anima mia ama (cfr. Ct 1,6 volg.); sono infatti ferito dal tuo amore” (San Colombano).
Così il teologo bizantino Nicolas Cabasilas descrive questo tipo di persone, che toccate dalla luce di Cristo nel profondo delle loro anime, rivedono il mondo esterno a loro con nuovi occhi :“Uomini che hanno un desiderio così potente che supera la loro natura, e bramano e desiderano tutto ciò a cui l’uomo aspira urgentemente. Questi uomini sono stati toccati dallo sposo in persona. Egli stesso, lo sposo, ha portato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela quale sia il dardo, e l’intensità del desiderio lascia intuire chi sia chi l’ha scagliato” (cfr. J. Ratzinger, La bellezza. La Chiesa).
Questa bellezza del mondo si comunica poi all’autocoscienza dell’io, e provoca così uno stupore per la propria bellezza ritrovata. Diceva Santa Caterina: “Ho gustato e veduto… il tuo abisso, o Trinità eterna, e la bellezza della tua creatura… Tu infatti, o Trinità eterna, sei creatore e io creatura; ed ho conosciuto che tu … sei innamorato della bellezza della tua creatura” (Santa Caterina da Siena).
[Tutto questo dinamismo di familiarità col mistero di Dio, e con gli uomini, che si compie nella familiarità con l’essere, col mondo, senza evidentemente annullare l’identità del singolo, o scadere in un panteismo infruttuoso e alla fin fine nichilista, si potrebbe esprimere utilmente, mi pare, con la trasmissione del contenuto e del metodo dell’esperienza di fede di generazione in generazione, che troviamo nell’alveo dell’idea di tradizione].
Grazie dell’attenzione! Spero che queste meditazioni possano essere utili alla vostra vocazione sacerdotale e alla vostra missione pastorale.