[Dall'immobilità al movimento. Inizio e fine]. Lectio Divina guidata da Sandro Rotili su At 3,1-16 (Il paralitico alla Porta Bella)
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Riprendiamo dal sito della diocesi di Arezzo (http://www.diocesiarezzo.it/index.php?option=com_zoo&task=item&item_id=2054&category_id=86&Itemid=442) la lectio divina guidata da don Sandro Rotili, OSB Cam in occasione del Convegno pastorale diocesano il 3/9/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Maestri dello Spirito.
Il Centro culturale Gli scritti (14/4/2019)
Atti 3,1-16
Che cosa mi colpiva nel racconto degli Atti.
Mi colpiva la vivacità, la vivacità del racconto nelle sue mille sfaccettature. Per esempio la vivacità dei verbi. Di movimento. Penso che la fede sia un fatto di movimento, sia, perdonate, un fatto di gambe, di sequela, dove ti portano i piedi. E non solo un fatto di testa. Non solo di definizioni che circoscrivono. Penso che la fede, stando a questo testo e alle Scritture Sacre sia uno sporgersi. Ed ecco nel racconto i movimenti, su cui sosterete o avete già sostato.
La vivacità dei piedi. Dentro un racconto di guarigione di un paralitico che sembra dire l'assenza del movimento, la paralisi che ferma le gambe: subito sottolineata dal racconto. A fronte del salire dei due, Pietro e Giovanni - "salivano al tempio per la preghiera verso le tre del pomeriggio" e ci salivano senza problemi, con le loro gambe, piedi in cammino, gambe in forza per salire - sottolineata è la rigidità dell'uomo storpio, che non va da sé, lui senza autonomia di piedi: "qui veniva portato un uomo storpio". "Portato". Dipendeva da quelli che lo portavano. E poi "lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta Bella". "Lo ponevano", mi colpiva il verbo, quasi fosse una cosa da deporre, senza energia. Lì poi doveva stare tutto il santo giorno, in dipendenza dagli altri che lo venissero a riprendere e in dipendenza, per sopravvivere, da quello che poteva raccattare in elemosina. Impedito di gambe, ma impedito anche - e immagino che gli costasse - impedito anche dell'ingresso nel tempio. Non stava forse scritta nel libro del Levitico una esclusione per chiunque portasse una deformità, ciechi, zoppi, uno sfregiato, un deforme? (cfr. Lv 21,18). L'immobilità e l'esclusione. Una situazione che spesso racconta di noi.
Alla fine del racconto - lo abbiamo ascoltato - riesplode quasi spumeggiante il movimento. A ritmi incalzanti. È scritto: "Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e balzato in piedi camminava ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio". Sembra di vederlo, era accaduto l'inimmaginabile, i piedi lo reggevano e a prova di una energia che non aveva mai sperimentato. Lui nato storpio da grembo di madre, eccolo camminare con gli altri e non portato dagli altri. E non solo camminava, ma anche saltava, proprio dentro lo spazio del sacro, quello che da sempre gli era stato precluso.
Dall'immobilità al movimento. Inizio e fine.
Che cosa aveva cambiato la situazione? Che cosa sta in mezzo? Perdonate se mi esprimo così, in mezzo sta un gioco di sguardi. Vi dicevo che la fede ha a che fare con i piedi e le gambe, è nel segno della sequela. Ma a dare spinta di energia a piedi e gambe stanno gli occhi, quegli occhi cui Luca sembra dare luminosa importanza con sfumature particolari dei verbi. Scrive: "Questi vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio domandò loro l'elemosina. Pietro fissò lo sguardo su di lui insieme a Giovanni, gli disse: "Guarda verso di noi", l'uomo si volse verso di loro aspettandosi di ricevere qualcosa da loro". "Vedendo...fissò lo sguardo... guarda verso di noi... si volse...".
C'è un vedere, quello dello storpio all'inizio, un vedere nell'orizzonte di una normalità immobile, un rito immobile quotidiano: sei fuori dalla porta, vedi, chiedi, ricevi. Per decine e decine di anni così.
E c'è lo sguardo di Pietro. Di Pietro è scritto: "Fissò lo sguardo su di lui". Fissò! Dunque non uno sguardo che vede e cancella, come quello del sacerdote e del levita della parabola, vedono quel poveraccio e cancellano, non come tanti nostri sguardi, vediamo cancelliamo. Pietro e Giovanni andavano al tempio, li aspettava la liturgia del pomeriggio, li portava un desiderio, forse quello del salmo: "Gli occhi miei sollevo ai monti", ma lo sguardo ai monti non aveva cancellato lo sguardo a quello storpio. Quando succede, quando succede che il servizio a Dio offusca, toglie spinta al servizio al povero non è fede. È liturgia vuota. Pietro fissò lo sguardo, lo fermò sullo storpio e si fermò.
Pensate, lo sguardo che fissa, siamo ben lontani dal nostro sguardo, dallo sguardo di chi l'elemosina la fa scivolare nella mano dell'altro senza guardarlo, come se volessimo toglierei un disturbo, un imbarazzo. Se è così non succede niente, niente più che un’elemosina. Che lascia l'immobilità, lascia l'altro immobile.
Pietro fissa. E mi sono chiesto, perdonate l'impertinenza, mi sono chiesto da chi lo avesse imparato. Imparato a passare e a fissare. E, perdonate se oso rispondere che a passare e fermarsi, fermarsi con lo sguardo, a non andare oltre senza sostare glielo aveva insegnato Gesù. Lo aveva insegnato a loro che spesso passavano senza veramente vedere, senza vedere per esempio Zaccheo, l'uomo che si era creato un luogo di avvistamento sull'albero e Gesù alzò lo sguardo, o l'uomo cieco, loro se ne andavano imperterriti discutendo di peccato e non peccato e lui lo fissò. Gesù uno che passava e fissava e si fermava, così tutto il vangelo.
Ma quello che Pietro forse non aveva più potuto cancellare dalla memoria era lo sguardo di Gesù su di lui, sì, proprio su di lui: rimase con lo sguardo su di lui la notte in cui all'intenerirsi delle prime luci in cielo - ed era sta notte di rinnegamento, del suo rinnegamento - gli era passato accanto dopo che il gallo aveva cantato. "È scritto: "...un gallo cantò. Allora il Signore si volse e fissò lo sguardo su Pietro" (Lc 22,60- 61). Quello sguardo l'aveva segnato, per sempre, era di misericordia. Aveva imparato. Chissà se, come Pietro, anche noi abbiamo imparato a passare, a fermarci, a guardare con sentimenti di compassione. Voi mi capite, la chiesa della compassione, non quella che ti incenerisce col giudizio.
Ed ecco l'invito, questa volta rivolto allo storpio, a guardare: "Guarda verso di noi" E l'invito deve essere risuonato strano alle orecchie dello storpio. Eppure Pietro diceva proprio così: "Guarda verso di noi". Ma lui già li guardava! Sì, ma era come se Pietro e Giovanni gli chiedessero di fissarli, di fermare gli occhi su di loro, come se gli volessero dire di andare al di là dell'immagine di possibili portatori di denaro che si era fatta di loro, come se l'invitassero a comunicare con qualcosa di loro che andava oltre quella immagine, o se volete, più in profondo: "Guarda verso di noi!". Li guardò e dalle loro parole cominciava a capire chi erano, e cosa avevano e che cosa non avevano, su che cosa contavano e su che cosa non contavano. Sentiva bene. Pietro gli diceva: "Non possiedo né oro né argento, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!". Non possedevano denaro, possedevano un nome. Ma che forza avesse quel nome lo vide quando, alla presa della mano di Pietro che lo sollevava, sentì sciogliersi quel suo corpo contorto. Il denaro quel corpo non lo avrebbe di certo sciolto, quel nome l'aveva sciolto, sollevato. Corpo e spirito insieme. Lo capì per quell'energia di risurrezione, che gli era passata dentro e lo faceva camminare come restituito a dignità.
"Nel nome di Gesù, il Nazareno cammina". E lo sentì dire e ripetere e ancora ripetere da Pietro, quasi fosse cosa da battere a memoria, davanti a una folla ammirata, sentì quel collegamento che lui aveva sentito nel suo corpo, il collegamento tra quel nome e il vigore che gli era stato restituito come uomo.
Pietro dirottava lo sguardo, lo faceva puntare su un altro. Diceva: "Proprio per la fede risposta in lui il nome di Gesù ha dato vigore a quest'uomo che voi vedete e conoscete; la fede in lui ha dato a quest'uomo la perfetta guarigione alla presenza di tutti". E l'invito era a distogliere da loro lo sguardo: "Perché continuate a fissarci?" diceva Pietro. È un altro da fissare.
Ebbene mi prendono molti pensieri e nascono domande e preghiere.
Un pensiero va nell'orizzonte che ci interroga su vera o falsa salvezza. E colgo nel racconto quasi un invito a non ridurre a un'elemosina il nostro sogno, a non dare affidamento a chi ci promettesse una salvezza fatta di vantaggi terreni economici che ci mantengono però schiavi, schiavi di chi ci porta in giro e ci deposita dove vuole, schiavi di chi ci lascia attorcigliati su noi stessi o in balia degli altri. La fede in Gesù, fede vera, è quella che ci rende liberi dalla schiavitù dei nostri egoismi. Fede vera è quella nel nome di Gesù, un nome che ci fa saltare di gioia, che ci rende liberi, liberi e resistenti ai faraoni, di ogni estrazione. La fede in Gesù è libertà dai gioghi.
Ma, ancora, il cambiamento, ci ha ricordato Pietro, non viene dal nostro nome, ma da quello di Gesù, dalla sua energia di. resurrezione che come linfa di vita scorre nelle vene di questa nostra umanità. Dovremmo come chiesa ritrarci, non ci fa bene una sovraesposizione come chiesa, ci lascia vuoti e inerti: non fissate noi, fissate un altro, dovremmo additare lui e invece spesso, troppo spesso, in esibizione siamo noi. L'importante non è che si parli della chiesa - pensate quanto se ne parla in questi giorni - ma che si parli di lui, non è nel nostro nome che ci si salva, o che solleva qualcuno dalla sua immobilità come uomo. Mi chiedo: ma noi per primi fissiamo lo sguardo su Gesù, sul suo vangelo?
E ancora su che cosa contare oggi, oggi che si parla molto di strategie. Un invito che mi sembra di cogliere nel nostro brano è ad esaminarci seriamente, sinceramente, su che cosa confidiamo: "Non ho né ora né argento, ti dico nel nome di Gesù...". Saremmo in inganno come chiesa e come credenti in Gesù se pensassimo che abbiamo bisogno di questo e di quest'altro, di questi beni e di questi altri, di questi mezzi e di questi altri, di queste difese e di queste altre, di questi appoggi e di questi altri. Come faccio a dire che conto sulla forza del nome di Gesù se mi copro di cose, se sono in cerca di appoggi terreni, se voglio essere chiesa imponente. Chiunque potrebbe dirci: "Ma dove è mai il vostro Dio se il vostro modo di procedere è quello dell'ambizione, se le vostre strategie sono quelle corrotte di tutti. E poi dite di contare su Dio? Ma voi contate su ben altro! Dietro le vostre macchinazioni c'è ben altro. Ben altro di Dio". Non facciamo bestemmiare il nome di Dio.
Dei cristiani troviamo scritto nel Concilio: "Camminano al seguito del Cristo povero, umile e carico della croce" (LG 41). Voi mi capite, solo le mie mani vuote, vuote di ricchezza e di potere posso dire che la mia forza è il Signore, che la mia forza e il mio segreto è la concretezza dell'amore che lui mi ha lasciato come su comandamento.
Il gesuita biblista Silvano Fausti, nella sua rubrica sul mensile "Popoli" in cui sta "rileggendo" la figura di Pietro a partire dalla Parola di Dio, scrive: "Se Pietro avesse avuto danaro, avrebbe fatto l'elemosina, cosa buona. Se ne avesse avuto tanto, avrebbe fatto un istituto per zoppi, cosa ancora migliore. Ma l'unico mezzo per risuscitare l'uomo dalla sua morte religiosa e civile, è la povertà: Dio e mammona, danaro e nome di Gesù sono incompatibili. Ciò che possediamo ci possiede: ci rende paralitici e contorti come lo storpio.
La brama di possedere è idolatria (Ef 5,5), l'amore del denaro radice di ogni male (1Tm 6,10). Ciò che ostacola la missione della Chiesa non è la mancanza di beni. Una sola cosa sempre le manca, come a Davide per vincere Golia, simbolo del male: liberarsi dall'armatura dei privilegi che ha, per fraternizzare con tutti".
Che cosa dunque ci rimane se non fissare lo sguardo su Gesù povero umile carico della Croce, come lo aveva fissato Pietro dopo il canto del gallo? E portarne il contagio nei nostri occhi e nella nostra vita? Conta la vita. Mi colpisce molto quanto è scritto al capitolo quinto degli Atti degli Apostoli, dove è detto che "sempre più in quei giorni venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne, tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro" (At 5,14-15).
Pensate, allora bastava un'ombra.
Noi siamo la comunità che porta dentro questa dinamite. E poi, naturalmente infine in quanto luogo la resurrezione è correttamente divenuto quello che San Paolo chiama: "camminare in novità di vita. Camminare in novità di vita". Cioè la nostra vita mortale può contenere la dinamis della resurrezione. La può contenere, la può esprimere, cioè è un involucro che regge, può reggere. Per cui abbiamo tutte le pagine dell'etica cristiana.
Ecco puoi essere mansueto e non violento, puoi essere buono e non malvagio, puoi essere dolce e non crudele, puoi essere semplice e non doppio, puoi dire la verità e non nasconderla o mascherarla. Puoi essere paziente e non irascibile. Puoi non vendicarti e perdonare. Puoi essere gioioso e non triste. Cioè puoi essere quello che aveva detto Dio ad Abramo quando lo chiamò, vi ricordate? lo farò di te una benedizione per tutte le famiglie della terra. Cioè puoi essere una benedizione, puoi cioè vivere in una maniera tale che chi ti sta accanto ad un certo punto dirà: felice me che mi sono trovato accanto questa persone che è stata una benedizione. Cioè la gente dirà: Dio mi ha benedetto perché mi ha fatto incontrare questo cristiano. Ecco qua cosa diventa poi questa resurrezione. La novità di vita. Ecco, allora, se la nostra Pasqua ci porterà fino a questi lidi possiamo essere contenti e ringraziare Dio.