Da Caritas Roma a Caritas Djibouti, uno scambio durato 6 mesi, di Paola Aversa
Riprendiamo dal sito Roma Sette un articolo di Paola Aversa pubblicato il 12/3/2019. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Nord-sud del mondo.
Il Centro culturale Gli scritti (31/3/2019)
Tornata da pochi giorni in Italia, non posso non volgere indietro lo sguardo all’8 settembre scorso, quando fui accolta calorosamente all’aeroporto di Djibouti dal vescovo Giorgio Bertin e da Maria Josè Alexander, direttrice di Caritas Somalia. Ero partita la sera precedente da Roma, eccitata per l’esperienza che mi aspettava ma preoccupata per quello che lasciavo – la famiglia, la casa, il lavoro, gli amici – e soprattutto per quello che avrei trovato al mio arrivo. In fondo sarebbe stata la mia prima esperienza significativa in Africa. Avevo desiderato tanto fare un’esperienza di volontariato “forte”. Non che non avessi avuto modo di sperimentare il contatto con l’umanità più sofferente: oltre al mio lavoro in Caritas Roma al servizio dei poveri della mia città e dei migranti e rifugiati che si rivolgono al nostro Centro di Ascolto Stranieri per chiedere accoglienza e consulenza, da molti anni seguo le vicende del Corno d’Africa collaborando con HEWO, un’associazione che da quasi cinquanta anni opera in Etiopia ed Eritrea con bambini e malati di lebbra e Hiv.
All’inizio non è stato facile abituarmi a questo mondo “nuovo”: il clima torrido, l’abbigliamento e il velo, l’alimentazione, una città completamente diversa da Roma e da quelle europee, il confronto con la cultura islamica. Le differenze sono tante per chi viene dall’Italia. Mi sono stati di grande conforto l’accoglienza affettuosa della piccola comunità di suore, preti, seminaristi e laici della diocesi con i quali ci riunivamo ogni giorno nella cripta per il rosario e la Messa; e condividevamo i piacevoli riti quotidiani: un piatto di pasta mangiato insieme, un the il pomeriggio per raccontarci le nostre esperienze e i piccoli o grandi episodi delle nostre vite. Fin dall’inizio il mio lavoro si è svolto in tre ambiti. Il primo, con Caritas Djibouti, nei servizi di cura ai bambini di strada. Un secondo ambito: la visita alle missioni della diocesi, per capire i loro bisogni e soprattutto raccogliere le loro sollecitazioni e suggerimenti per rispondere alle nuove sfide che la Chiesa è chiamata ad affrontare. Il terzo ambito: il lavoro di studio sulle principali questioni che interessano l’area del Corno d’Africa, raccogliendo dati e visitando i campi profughi, nonché lo studio e la comprensione degli importanti accordi internazionali in materia di migrazioni (Global Compact for Migration e Global Compact for Refugees) che stavano per essere sottoscritti.
Ben presto ho avuto l’opportunità di vivere un’esperienza intensa e inaspettata. Il 16 settembre sono partita insieme a Maria Josè per Hargeisa, capitale del Somaliland, Stato autoproclamatosi indipendente dopo il collasso della Somalia. Arrivate sul posto siamo state accolte calorosamente da padre Tom, uno dei pochissimi preti cattolici, se non l’unico, che coraggiosamente vive ancora in un territorio in cui, malgrado tutti gli sforzi delle autorità locali, sono presenti le milizie fondamentaliste di Al-Shabaab.
La vita per un cristiano che qui vuole vivere la sua fede è molto difficile. L’unica Chiesa di Hargeisa è stata chiusa e i volontari e i missionari espulsi dopo essere stati accusati di proselitismo. Insieme a padre Tom abbiamo pregato e celebrato la Messa in una piccola stanza da lui preparata amorevolmente.
Ad Hargeisa abbiamo visitato l’Ospedale e la Scuola per Ostetriche fondata nel 2002 da Edna Adan Ismail, una donna colta e coraggiosa che da anni si batte per ridurre in Somaliland la mortalità infantile e perinatale (fino ad allora tra le più alte del mondo), per combattere la pratica delle mutilazioni genitali femminili, dei matrimoni precoci, e per favorire l’istruzione e l’emancipazione delle donne.
Dopo la visita ad Hargeisa, ci siamo spostate in aereo a Bosaso, capitale del Puntland (altra ex regione della Somalia autoproclamatosi Stato autonomo), dove ci siamo recate per visitare i campi profughi e verificare con le autorità locali la possibilità di collaborare, come Caritas Somalia, allo sviluppo di altri progetti oltre a quelli già in essere, sempre a beneficio dei migranti e rifugiati. A Bosaso abbiamo incontrato varie personalità locali, tra cui il sindaco della città, nonché rappresentanti locali di alcune Ong. Le autorità locali, per quanto disponibili, non riescono a far molto con le poche risorse a disposizione (il Puntland è una regione poverissima) e i numerosi profughi, yemeniti in fuga ma anche somali ed etiopi precedentemente emigrati, che sbarcano nel porto di Bosaso di ritorno dallo Yemen martoriato dalla guerra, trovano ad aspettarli fame e abbandono.
Porterò sempre nella mente e nel cuore le immagini di questi luoghi, di queste persone, la forza che malgrado tutto li spinge ad andare avanti in condizioni per noi europei inimmaginabili. E non dimenticherò mai la sensazione continua di precarietà con la quale ho convissuto in quei pochi giorni. Malgrado in quelle regioni non ci siano conflitti conclamati, si percepisce chiaramente una tensione continua, testimoniata dalla massiccia presenza in ogni luogo di militari armati. Da madre, ho pensato all’ansia e al timore in cui vive un genitore in questi luoghi, dove in qualunque momento una sparatoria o un attentato possono portarti via un figlio. Questa insicurezza, insieme alla impossibilità di garantire ai propri figli condizioni di vita dignitose, spinge molti genitori a lasciar partire i propri figli, anche minori. Fuori dalle città, lungo le vie che conducono ai porti attraverso il deserto, o viceversa, spesso si vedono bambini e adolescenti in cammino in piccoli gruppi. Nelle città, migliaia di minori, nelle strade, vivono di espedienti, masticando khat (una pianta, molto diffusa nella zona, che contiene una sostanza stupefacente) e sniffando colla, spesso vittime di ogni tipo di abuso. Le precarie condizioni igienico-sanitarie, gli abusi sessuali e la prostituzione contribuiscono alla diffusione anche tra i più giovani di Hiv e altre malattie sessualmente trasmissibili.
Tornata a Djibouti dopo questa esperienza molto intensa, sono stata inserita nel servizio di cura che la diocesi offre proprio ai bambini di strada, che rappresentano un grave problema di cui ora il governo locale, e soprattutto il ministro per la Donna e la famiglia Moumina Houmed Hassam sta prendendo consapevolezza. Grazie anche all’opera di advocacy di Caritas Djibouti, dell’Oim e di altre organizzazioni locali, sembra finalmente poter prendere vita un progetto in cui anche il governo sia coinvolto nell’ampliare a un numero sempre più grande di bambini un servizio di accoglienza notturno, oltre che diurno, come è attualmente quello gestito dalla Caritas. È urgente e fondamentale sottrarre questi minori alla vita di strada e alle violenze e agli abusi, che soprattutto le bambine, avviate ben presto alla prostituzione e al lavoro domestico, debbono subire.
Un’altra esperienza umanamente significativa è stata la visita alla Missione di Ali-Sabieh, gestita dalle Suore della Consolata, dove ho incontrato due persone davvero speciali: suor Anna e suor Marzia, due suore italiane che mi hanno letteralmente affascinato con la storia delle loro vite. Suor Anna ha vissuto tanti anni in Libia occupandosi di disabili e suor Marzia è stata per 40 anni in Somalia. Non ha mai abbandonato il Paese neanche dopo lo scoppio della guerra nel 1991, neanche dopo essere stata rapita e poi rilasciata dai fondamentalisti islamici, e neanche dopo l’assassinio della consorella suor Leonella Sgorbati, beatificata lo scorso maggio. Si rimane quasi increduli nell’ascoltare il racconto delle loro vite coraggiose dedicate agli ultimi e di quanta fantasia abbiano dovuto sviluppare per riuscire a testimoniare il Vangelo in un ambiente e in un’epoca storica in cui non solo essere sospettati di proselitismo ma anche il fatto stesso di essere cristiani poteva costare la vita.
Dopo la visita alla missione di Ali-Sabieh, il nostro piccolo gruppo si è diretto verso il campo di Ali-Adeh. Diversamente da quanto avevo visto nel corso delle precedenti visite dei campi in Somalia, il campo di Ali-Adeh si presenta meglio organizzato. Ospita circa 15mila profughi ed è gestito dall’Onars, l’ente governativo Djiboutiano che si occupa dei rifugiati, in partenariato con Unhcr e altre organizzazioni internazionali. Parlando con gli ospiti ho scoperto che alcuni di loro vivono nel campo da ventisei anni, da quando fu allestito, all’inizio degli anni ’90. Qualcuno, arrivato nel campo da bambino, si è poi sposato e vive ancora lì con la famiglia e i figli, che non hanno mai conosciuto una vita diversa da quella di stenti che si vive nel campo. Oggi il problema per gli ospiti della struttura non è tanto la sopravvivenza (cibo e acqua vengono distribuiti con una certa regolarità) quanto l’inattività. Per quanto gli ospiti del campo siano infatti liberi di uscire e di lavorare, la città è lontana e comunque a Djibouti le opportunità di lavoro sono scarse, per cui molti, semplicemente, trascinano le loro giornate e le loro vite nel campo.
Proseguendo l’incontro con alcuni rifugiati, mi ha molto colpito la storia di Samira, una donna somala di quarantotto anni, arrivata a Djibouti nel 1991 col marito. Qui nel campo ha avuto quattro figli, che ora hanno tra i 22 e i 6 anni. Il più grande, Said, un anno fa ha deciso di partire e tentare “il viaggio”, attraverso Etiopia, Sudan e Libia, diretto in Italia. Durante il viaggio è stato ferito e poi fatto prigioniero da criminali libici, che hanno chiesto un riscatto di 4.500 dollari minacciandolo di morte. Malgrado la madre, con una colletta nel campo, fosse riuscita a raccogliere la somma, Said non è stato ancora liberato ma anzi viene ancora sottoposto a richieste di denaro. La madre è disperata perché da giorni non ha più contatti col figlio. Non sono stati solo la guerra e la miseria a spingere Said, e tanti come lui, ad affrontare i rischi del “viaggio”. Le condizioni stesse dei campi costituiscono dei “fattori di spinta”: molti dicono infatti che la vita nel campo è “un lento morire”. E se è difficile e ci vuole tempo per agire sulle cause primarie che spingono le persone a lasciare il proprio Paese – guerra, carestie, persecuzioni -, più semplice sarebbe organizzare almeno una prima accoglienza dignitosa, e successivamente, creare la possibilità per ognuno di sviluppare integralmente la propria umanità attraverso istruzione e lavoro. Ed ecco che risplendono come fari nella notte i quattro verbi proposti da Papa Francesco alla comunità cristiana come ispirazione nel pensare le migrazioni e come azione nell’affrontare il problema: accogliere, proteggere, promuovere e integrare.
Le realtà cristiane che vivono e operano nelle periferie del mondo con poche risorse e in un ambiente ostile, applicano tutti i giorni nella realtà e nella pratica concreta del loro agire i quattro verbi ispirati dal Papa. Lo si percepisce e lo si apprezza vivendo anche solo per pochi giorni in queste comunità, accanto ai religiosi, alle religiose e ai laici che le animano col loro operare. Questo è quanto ho riscontrato ad esempio nelle visite che ho fatto alle due missioni di Obock e Tadjurà.
Obock è una cittadina affacciata sul mare, il cui porto e le cui spiagge sono luogo di partenza e meta di arrivo per tantissimi migranti e rifugiati per e dallo Yemen e la Penisola Arabica. La missione è stata fondata nel 1885 dai frati Cappuccini, a cui si aggiunsero presto tre suore francescane. Oggi presso la missione di Obock sorge una scuola LEC (Lire, Ecrire, Compter) che accoglie 50 bambini e bambine suddivisi in tre classi. Vi lavorano due insegnanti esterne, oltre al diacono Cyrille che gestisce tutta la missione. La scuola è nata per ospitare i bambini poveri del posto ma oggi è frequentata da bambini di diversa estrazione sociale, anche di famiglie musulmane, che apprezzano la qualità dell’insegnamento e il clima gioioso che si respira. Non viene chiesta una retta ma chi può offre qualcosa secondo le proprie possibilità: non arrivano infatti finanziamenti pubblici ma solo donazioni.
A pochi chilometri dalla missione sorge il campo profughi “Markazi”, abitato quasi esclusivamente da rifugiati yemeniti. Dallo scoppio della guerra civile in Yemen nel 2015 fino a settembre 2018 sono state 38mila le persone arrivate a Djibouti dallo Yemen, ma attualmente solo 4.300 sono rimaste nel Paese: 2mila sono ospitati nel campo Markazi, poco fuori Obock, e 2.300 vivono nella Capitale.
Come gli altri che sorgono nello Stato di Djibouti, anche il campo di Markazi è gestito dall’Onars, con Unhcr e altre organizzazioni internazionali. Il problema più grande per i rifugiati è quello di ottenere il riconoscimento del loro status e avere i documenti che possano consentire loro di vivere legalmente nel Paese e di lavorare. Purtroppo spesso l’analfabetismo e la mancanza di qualunque competenza lavorativa impediscono ulteriori sviluppi che non siano di carattere assistenziale. Una volta soddisfatti i bisogni primari si dovrebbe dar loro la possibilità di imparare la lingua del posto, offrire un’alfabetizzazione di base e/o una formazione che consenta di imparare un mestiere ed emanciparsi integrandosi nella comunità ospite.
Un altro problema molto sentito nei campi è quello dell’insicurezza: i più vulnerabili, donne sole e minori non accompagnati, subiscono impunemente abusi e violenze. Ancor più vulnerabili sono le bambine che, spesso appena adolescenti, vengono date in spose a uomini adulti, da cui divorziano dopo qualche anno ritrovandosi sole senza aver di che mantenere i figli nati durante il matrimonio. Un problema ancora irrisolto è quello di una adeguata assistenza sanitaria: sono infatti diffuse, tra le altre, gravi malattie infettive tra cui Hiv e tubercolosi. Sarebbe inoltre importante individuare progetti che possano coinvolgere anche gli abitanti del posto. Si è visto che, laddove anche le comunità di accoglienza possano beneficiare delle strutture create per i migranti, come scuole, ospedali, pozzi, o possano condividere le stesse opportunità di lavoro e/o di formazione, le migrazioni, anziché come un peso, vengono accolte favorevolmente dalle popolazioni locali come occasione di maggior benessere e sviluppo per tutti.
Ultima tappa è stata la missione di Tadjurà. Anche qui come in Obock la missione si trova proprio sul mare e gode di una vista fantastica. Ho avuto la fortuna di conoscere Philomène, Béatrice e padre Mark. Qui non ho percepito né diffidenza né astio da parte delle persone di fede islamica. Le due donne hanno dedicato la vita alla gente di questo Paese ed è sorprendente vedere di quanto affetto godano tra la popolazione locale. Durante le passeggiate che abbiamo fatto nel villaggio le persone le chiamavano per nome, si fermavano per salutarle affettuosamente e scambiare con loro qualche parola. Presso la missione di Tadjurà Philomène e Béatrice gestiscono la scuola LEC (Lire, Ecrire, Compter) che ospita circa 100 ragazzi dai 9 ai 18 anni. Padre Mark invece gestisce il “Centre d’Apprentissage Cardijn” dove i ragazzi imparano il mestiere di elettricista, idraulico, falegname e saldatore. Una scuola bene organizzata, nella quale padre Mark offre ai ragazzi non solo gli strumenti per non subire un destino di povertà e privazioni ma anche la consapevolezza di poterne essere artefici.
I primi di febbraio, accolto calorosamente dal vescovo Bertin e da tutta la comunità cristiana di Djibouti, è venuto a farci visita il direttore della Caritas di Roma don Benoni Ambarus, che si è trattenuto qualche giorno visitando la diocesi, con le sue scuole e le missioni, in un “gemellaggio” ideale tra la città simbolo del cristianesimo e questa piccola diocesi che, in un Paese di fede islamica, testimonia l’amore di Dio tra i migranti e i sofferenti.
Durante le ultime due settimane della mia permanenza a Djibouti, su invito del vescovo, ho avuto modo di tenere diversi incontri di informazione e sensibilizzazione con i ragazzi e gli insegnanti delle scuole e con la comunità religiosa della diocesi, a cui ho illustrato i principali aspetti delle migrazioni, soprattutto rendendoli consapevoli dei pericoli del “viaggio” e delle leggi restrittive in vigore nei principali Paesi di transito e di arrivo.
Informazioni necessarie soprattutto tra i ragazzi, che per la maggior parte avevano mostrato una percezione alquanto distorta e idilliaca della sorte e del futuro dei migranti, immaginati al loro arrivo accolti a braccia aperte da società accoglienti e generose. Le immagini dei camion sovraccarichi nel deserto, dei barconi sovraffollati, dei morti sulle spiagge e dei lager libici sembravano sorprendere molti di loro. Ma soprattutto, oltre che fornire una corretta rappresentazione della realtà, abbiamo cercato di far passare un messaggio di fiducia nelle loro potenzialità, da sviluppare attraverso istruzione e formazione professionale. Abbiamo cercato di far capire loro che è solo da questi elementi e dal loro impegno che può scaturire un futuro migliore per loro stessi e per i loro Paesi, al cui sviluppo è indispensabile l’apporto delle forze più giovani ed istruite e che, nelle condizioni attuali, sfidare la sorte con l’emigrazione irregolare affidandosi a trafficanti senza scrupoli significa non solo mettere a repentaglio la propria vita ma impoverire loro stessi, le loro famiglie e il loro Paese.
Di questi sei mesi a Djibouti, alla fine, mi resta soprattutto l’immagine di una Chiesa silenziosa ma attiva, in prima linea malgrado le mille difficoltà. Ho visto con i miei occhi e toccato con mano come in queste missioni e in questi luoghi di preghiera e di azione, dove non è possibile annunciare il Vangelo, le persone riescano a testimoniare ogni giorno la propria fede senza bisogno di parole. Ho incontrato persone che ogni giorno, semplicemente, donano la loro vita al servizio degli ultimi della terra. Mi torna in mente una frase con cui San Francesco esortava i suoi confratelli: «Predicate sempre il Vangelo e se fosse necessario, anche con le parole». Frase cara al Papa, che ha affermato anche che il Vangelo deve trasmettersi «per contagio». Ebbene, in questi luoghi dove il Vangelo non lo si può predicare, questi missionari il Vangelo semplicemente lo vivono nel proprio agire quotidiano e lo trasmettono “contagiando” le persone con il loro amore.