1/ Duecento anni di «Infinito». Alla ricerca della voce di Dio, di Davide Rondoni 2/ Alessandro D'Avenia: "Carezze al mondo ferito. Leopardi eroe moderno". L'insegnante e scrittore: così ci insegna ad amare la felicità, di Enrico Gatta
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1/ Duecento anni di «Infinito». Alla ricerca della voce di Dio, di Davide Rondoni
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 22/3/2019 un articolo di Davide Rondoni. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (24/3/2019)
Il ragazzo che mormora “infinito” non è andato lontano per cercare di comprendere l’esperienza fondamentale dell’uomo (e sì di dirla, riuscendoci stupendamente). È andato dietro a casa sua.
L’esperienza dico del sentirsi limitato, assiepato dal finire delle cose e dal limite. E al contempo, come spesso sottolinea nei Pensieri e nello Zibaldone, l’esperienza di aborrire questo senso della fine, il finire delle cose che amiamo.
Quando succede la fine di qualcosa di bello, non prendiamo atto e basta. Il cuore e la mente ribollono, si oppongono, patiscono. A volte gridano. Leopardi muove da questo dato semplice, esistenziale (innegabile a costo di voler negare la nostra natura) per mettere a fuoco il problema dell’Infinito.
È proprio del mistero dell’esser nostro sentirsi invaso dal desiderio di qualcosa che non ha luogo nei confini del mondo, di conoscere un infinito che però — il poeta autore di saggi astronomici lo sapeva — in natura non esiste. Tutto è misura, dicevano gli antichi e i moderni lo sanno con più sgomento non avendo favole, illusioni o miti a coprire questa verità cruda. Ma allora, come fare, come vivere?
In questa poesia che tutti pensano di conoscere e che mi sono portato addosso, tra i denti, nel respiro, nella bestemmia, nella preghiera per mesi e mesi girando ovunque e da questo è nato il libro di chi scrive E come il vento. L’infinito, lo strano bacio del poeta al mondo (Roma, Fazi Editore, 2019) avviene qualcosa. Un passaggio capitale. Troppo spesso non visto o non voluto vedere. È certo una poesia “ambientale”, una poesia che, come dice Vittorio Gassman in un filmato che abbiamo ripescato per l’omaggio delle Rai Teche, se fosse nato a Catanzaro Leopardi non avrebbe scritto...
Però “questo” colle e “questa” siepe in quanto luogo di un teatro universale sono divenuti un ovunque, perché dappertutto vi sia un uomo veramente vivo si trova il problema dell’infinito. Leopardi sale su un colle, che non è più il “monte” petrarchesco.
E anche in questa aura che Ungaretti indica come “ironica” nel senso di una sorta di esperienza enorme ma in miniatura, insomma una sorta di “ironico” abbassamento, avviene qualcosa. Leopardi chiamava questi Idilli «avventure storiche del mio spirito». In genere, invece, si pensa a questa poesia come a un momento estatico, di illuminazione o sperdimento. Si tratta sì di una grande esperienza interiore, ma per nulla immobile. In questa poesia un giovane fa l’esperienza di un cuore che quasi “si spaura” e poi di un dolce naufragio.
Tra le due esperienze, evidentemente, succede qualcosa che non è solo legato a elementi compositivi della poesia, magnetica e vivissima. Infatti abbiamo certo il passaggio da un ambito determinato dal senso della vista (“mirando”, “fingo” e così via) a uno dell’udito (“odo stormir”) nonché un passaggio dalla dimensione dello spazio suggerito dalla presenza della “siepe” a una enigmatica esperienza del tempo (“e mi sovvien l’eterno”).
Ma il passaggio fondamentale che si compie in questa poesia è altro. Si tratta di una questione molto rilevante. Si tratta, in sintesi, della messa in scena, per così dire, del motivo per cui la cultura greca, da Aristotele ai poeti di quella civiltà immensa, considerava l’àpeiron, (che possiamo tradurre come “innumerevole”, “infinito, senza confini”) con una specie di timore e terrore e la nostra civiltà che, per ora, invece no.
Intendo che oggi noi diciamo “infinito” senza provare spauramento, ma indicando una dimensione certo difficile da immaginare ma attrattiva e in un certo senso affascinante. E questo lo si deve a quel che in questa breve e strana poesia accade. È un cambio che ha conseguenze enormi dal punto di vista antropologico.
Si badi: Leopardi è poeta immenso, contraddittorio, pensatore vivacissimo e magmatico. Sta nella storia della letteratura «come un tir rovesciato in autostrada», secondo la felice immagine di un critico letterario. Sulle caratteristiche del suo pensiero si “combattono” vari fronti interpretativi, con il rincorrersi di diversi luoghi comuni. E non cesseranno mai, come per ogni autore “mondo”. Restano altissimi in ogni caso il gradimento e la curiosità destati dall’arte meravigliosa e sofferente del giovane che mormora “Infinito”. Cresce la sua empatia con i giovani del nostro tempo.
E dunque cosa succede in questo testo che come ogni poesia è analogo a una danza, a un movimento di parole, a un corpo che si deve osservare bene nelle sue giunture, slanci e controtempi? A metà della poesia, dopo che il fingersi l’infinito ha provocato quasi il blocco dello spauramento, accade il vento, «E come il vento/ odo stormir tra queste piante...».
Apriamo il libro dei Re, di certo presente al giovane Leopardi che indica la Bibbia esser oltre a Omero suo libro della gioventù, come è ovvio per il genere di formazione che aveva ricevuto. Elia, il profeta, è in fuga, vorrebbe morire, i profeti sono tutti morti, ma Dio lo nutre e lo fa camminare. Il profeta non sa bene cosa fare e cerca la voce di Dio. «Là entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: “Che cosa fai qui, Elia?”. Egli rispose: “Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita”. Gli disse: “Esci e férmati sul monte alla presenza del Signore”.
Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna».
Anche sul colle di Recanati avviene una brezza (“stormir”), si presenta una “voce” comparabile con il silenzio. Si esce dalla finzione e si entra nella comparazione, uno spazio di conoscenza che non si può esprimere se si resta fuori dalla poesia, dove la verbi copula fa in modo che stupet omnis regula. Siamo nei territori della conoscenza mediante un segno, i territori che frequentiamo quando dobbiamo renderci conto delle realtà più importanti della nostra vita e che non sono enti misurabili e visibili (l’amore, l’amicizia anch’essi infinitamente sfuggenti a ogni “definizione” ma conoscibili attraverso i segni).
L’Infinito, che sfugge e spaura ogni speculazione o finzione immaginativa, che era temuto dai greci, amanti della forma e quindi sospettosi verso l’àpeiron, si fa qui, come nella grotta di Elia, incontro al profeta attraverso un segno, vento che stormisce tra le fronde. A questo punto accade qualcosa di interiore: “sovvien”, sale alla coscienza una esperienza nuova dell’unione tra eterno e tempo (passato e presente).
Infatti, l’uomo e solo l’uomo abita temporalmente l’universo. Le montagne non contano i minuti, le querce non si sentono invecchiare. I computer non si sentono ringiovanire. In questa poesia che inizia con un “sempre” si dà un passaggio: la possibilità che l’infinito dia un segno, attraverso cui farne esperienza. Il giovane nutrito di Bibbia sta diventando un uomo sofferente, portato a vedere “tristo” l’esistere, ma sulle orme di Giobbe e Salomone, di contro a quel che pensavano gli ottimisti e gli spiritualisti “nemici di Cristo”, sono sue parole.
Si inventerà, un po’ barando secondo Ungaretti che lo bracca in alcuni saggi spaventosamente forti e sottili, la nozione di “indefinito” per provare ad addomesticare questo “mare” dell’infinito che lo ha ossessionato fino alla fine dei giorni — come accade a tutti i poeti grandi e maledetti di allora, ad esempio Baudelaire — stando a certe pagine del giovane De Sanctis che incontra a Napoli nel 1836 il conte Leopardi malato e gentile.
Una poesia prodigiosa, biblica e umanissima, dove emerge il valore del segno, contro ogni astrazione e speculazione che “nel pensier” prova vanamente a catturare un’immagine di quel che il nostro cuore desidera davvero. Solo un infinito che si fa conoscere per segni diviene “questa immensità” e “questo mare” dove è possibile la paradossale esperienza di naufragare dolcemente, cosa che sanno i bambini, gli amanti, e coloro che i segni ventosi del mare conoscono.
2/ Alessandro D'Avenia: "Carezze al mondo ferito. Leopardi eroe moderno". L'insegnante e scrittore: così ci insegna ad amare la felicità, di Enrico Gatta
Riprendiamo da quotidiano.net (https://www.quotidiano.net/magazine/alessandro-d-avenia-leopardi-1.4501408) del 21/3/2019 un’intervista ad Alessandro D'Avenia di Enrico Gatta. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (24/3/2019)
Sono 200 anni che L’infinito di Giacomo Leopardi parla al cuore degli uomini. A parte qualche brano di Dante, è un caso quasi unico nella poesia italiana. Ed è sorprendente che quindici versi scritti da un giovane di 21 anni in un periferico borgo delle Marche – ancora dopo due secoli e in questi tempi di grande distrazione – possano far parte così profondamente nella nostra vita. Come sia possibile, lo spiega molto bene Alessandro D’Avenia, insegnante, scrittore poco più che quarantenne tra i più letti in Italia, autore del long-seller L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, diffusissimo nelle scuole.
Professore, perché la poesia di Leopardi svetta anche nel mare magnum della Rete, sotto un bombardamento di informazioni pronte per l’uso?
"Le informazioni possono risolvere il come della vita, non il perché. E senza un perché la vita si spegne. I capolavori della letteratura, come L’infinito, non servono a fare le interrogazioni a scuola ma a rimanere collegati alle fonti della vita, quelle che l’autore per primo ha cercato di liberare e far scaturire a prezzo del suo corpo e della sua anima. Le informazioni muoiono presto e non ci salvano, i classici hanno attinto al pozzo della vita e noi torniamo a bere proprio perché stiamo morendo di sete. L’infinito di Leopardi custodisce la fonte".
Il suo discorso su Leopardi nasce dall’esperienza nella scuola. Come accolgono gli studenti la poesia di un quasi coetaneo del 1819?
"Gli studenti sentono in Leopardi le loro stesse lotte, l’eroismo che si nutre della fragilità. Accolgono Leopardi non perché è uguale a loro, ma proprio perché è diverso: lotta per le stesse cose, in questo è simile, ma a differenza di loro ha indicato il modo di abitare la condizione umana".
Leopardi è considerato un campione del pessimismo: lei sembra considerarlo una risorsa...
"Chi sa leggere Leopardi sa che la sua poesia è nutrita di cose fragili che lottano per trovare compimento, dallo sguardo interrotto dalla siepe alla ginestra, dal passero solitario al pastore errante, da Silvia all’Islandese... Ogni riga di Leopardi ci racconta di questa lotta dell’uomo per trovare risposta a una promessa che gli arriva proprio dal suo essere fragile: “ove tende questo vagar mio breve?” si chiede il pastore errante dell’Asia. Pessimistico è il pensiero filosofico leopardiano ma Leopardi non può essere ridotto a una formula, un poeta è il suo atto creativo e un pessimista non crea, come ha fatto Leopardi, fino all’ultimo istante della sua vita. Leopardi fa dell’atto creativo il baluardo contro il nulla che lo attanaglia. È il contrario di un pessimista".
Perché Leopardi, in vita così infelice, le ha cambiato la vita?
"Vorrei saper chi nella propria vita non attraversa l’infelicità. La dobbiamo smettere con questa retorica della felicità. Leopardi smaschera questa finzione, nella vita umana: c’è sofferenza, ma non ha mai l’ultima parola. Sta a noi rispondere creativamente e trasformare la fragilità in risorsa. Per questo mi ha cambiato la vita: quando ascoltai per la prima volta Il canto notturno del pastore errante dell’Asia dal mio professore, che la recitò a memoria, capii che quell’uomo era riuscito a dare forma a tutte le mie paure, all’indicibile del dolore e della fatica di vivere, e lo aveva trasformato in bellezza. Non era fuggito, era rimasto lì a fronteggiare il destino. Io volevo fare come lui: trovare lo spazio di riscatto anche quando la vita ci atterra. L’eroismo di Leopardi è una delle cose che oggi serve di più".
Che cosa può insegnarci l’amore di Leopardi per la bellezza?
"La bellezza fu la religione di Leopardi. Perse la fede a cui era stato educato, perché la trovava arida e inadeguata alle sue domande, ma non rinunciò mai alla sete di trascendenza e di infinito che il suo cuore gli imponeva. Era rapito dalla bellezza delle cose e sapeva che in quella bellezza c’era la promessa di qualcosa che sempre gli sfuggiva ma che indagò e cercò per tutta la vita. Per questo in uno degli ultimi pensieri dello Zibaldone scrisse che un giorno sarebbe stato felice di rileggere i suoi Canti, perché avrebbe avuto la certezza “di aver fatto qualcosa di bello al mondo, che fosse o no riconosciuta da altrui”. Per il nostro tempo che soffoca nell’individualismo è una sfida grandiosa: fare qualcosa di bello al mondo, indipendentemente dai like. E la bellezza da lui creata è una carezza eroica a un mondo ferito".
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