[La monaca di Monza]. LEYVA, Virginia Maria de, di Massimo Carlo Giannini
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Riprendiamo sul nostro sito la voce LEYVA, Virginia Maria de, di Massimo Carlo Giannini dal Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, Volume 65 (2005), disponibile on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Storia e filosofia e Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (17/3/2019)
N.B. de Gli scritti
La Monaca di Monza è divenuta famosa grazie ai Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Nel romanzo l’autore presenta il male nella sua forza avviluppante. La famiglia pian piano stringe in una morsa la vittima, obbligandola, suo malgrado, alla monacazione. All’interno del convento la poveretta, poi, da succube del male, ne diviene artefice. Manzoni, nella sua ricostruzione di fantasia, si sofferma poco sul percorso di redenzione della Monaca di Monza che è attestato dalle fonti storiche e che è descritto invece dall’articolo che segue. Egli si limita ad accennare, a riguardo della “sua” Monaca, agli inizi del suo pentimento, di modo che anche la vicenda della Monaca diviene testimonianza della possibilità della conversione e del perdono - che è il vero tema del romanzo - come nel caso di fra Cristoforo e dell'Innominato. La scelta di non riferire con precisione del carteggio che intercorse fra la vera Monaca di Monza e il cardinal Borromeo potrebbe essere derivato dalla volontà di attenersi al dato storico, poiché lo scambio epistolare fra i due avvenne esattamente negli anni nei quali è ambientato il romanzo, ma divenne poi noto al pubblico solo in un periodo, anche se di poco, successivo.
LEYVA, Virginia Maria de
- Figlia di Martín, conte di Monza, e di Virginia Marino, nacque a Milano tra il dicembre 1575 e l'inizio del 1576. Al battesimo ricevette il nome di Marianna. Visse i suoi primi mesi di vita nel palazzo Marino, simbolo del potere economico e politico del nonno materno, Tommaso, importante banchiere genovese, nonché pilastro finanziario del potere di Carlo V nello Stato di Milano.
Capostipite e fondatore delle fortune della famiglia de Leyva era stato il bisnonno paterno della L., Antonio (1480-1536). Originario della Navarra, era giunto in Italia ai primi del XVI secolo come ufficiale degli eserciti di Ferdinando il Cattolico e aveva fatto fortuna nelle guerre per il controllo del Regno di Napoli e del Milanese. Ebbe un ruolo di primo piano nella battaglia di Pavia (1525) e giunse al grado di capitano generale dell'esercito di Carlo V. Nel febbraio del 1531 ricevette in feudo dal duca Francesco II Sforza la contea di Monza, con mero e misto imperio e diritto di riscossione di tutti i dazi e le imposte, per un valore complessivo di 2000 ducati d'oro all'anno, insieme con altri 3000 ducati annui di reddito a carico del dazio della mercanzia di Milano e altri 2000 ducati sul dazio della dogana della città di Milano.
Beneficiario della fiducia e del favore dell'imperatore, Antonio fu titolare di diverse cariche e rendite nel Regno di Napoli (fra cui quella di castellano di Castel dell'Ovo) e ottenne, nel 1532, l'investitura del Principato di Ascoli Satriano. Le sue fortune culminarono con la nomina, alla morte di Francesco II Sforza nel novembre 1535, a governatore dello Stato di Milano, con il delicato compito di prenderne possesso in nome di Carlo V.
Erede delle sorti del lignaggio, dopo la scomparsa di Antonio, fu il giovanissimo Luis. Come già il padre, egli non ebbe particolare attenzione per la gestione dei propri feudi e redditi lombardi: i suoi interessi gravitavano, infatti, verso la corte del principe Filippo d'Asburgo (il futuro Filippo II). Prima di trasferirsi a Bruxelles - dove Filippo risiedeva - Luis stipulò un accordo con i banchieri Affaitati, cedendo loro la riscossione di tutte le proprie rendite in terra lombarda, con l'eccezione di quelle del feudo di Monza, in cambio del versamento di un mensile di 1000 scudi. Divenuto generale della cavalleria, morì nelle Fiandre nell'ottobre 1557.
Poco tempo prima, Luis aveva affidato alla moglie, la nobildonna castigliana Marianna de la Cueva, rimasta in Lombardia, la procura generale per l'amministrazione dei suoi beni, che la conduzione di una vita cortigiana assai dispendiosa aveva seriamente intaccato. Quasi a simboleggiare le gravi difficoltà finanziarie della famiglia, Marianna de la Cueva aveva dovuto avviare la demolizione del castello di Monza, per ricavarne una dimora più moderna e contemporaneamente venderne travi e inferriate. Di qui la duplice scelta di dare oculate sistemazioni matrimoniali ai figli e di mantenere aperti gli orizzonti esterni all'area lombarda, tanto verso la corte di Madrid, quanto verso il Regno di Napoli, dove si concentrava una parte significativa delle ricchezze della famiglia. Antonio, figlio primogenito di Luis e Marianna, ereditò il titolo di principe di Ascoli e le principali cariche e rendite nel Regno; inoltre tutti i figli maschi (Antonio, Martín, Francisco, Juan e Felipe) divennero cotitolari della Contea di Monza, con diritto all'esercizio dell'autorità feudale per un biennio ciascuno. L'unica figlia, di nome Marianna, fu data in moglie a Massimiliano Stampa, marchese di Soncino, erede di uno dei maggiori casati feudali dello Stato di Milano, di provata fedeltà agli Asburgo.
Le nozze di Martín de Leyva, secondogenito di Luis, con Virginia Marino, vedova di Ercole Pio di Savoia signore di Sassuolo, costituivano un tassello rilevante della strategia familiare dei Leyva in terra lombarda. Il nobiluomo, cavaliere dell'Ordine di Santiago e comandante di una compagnia di lance nello Stato di Milano, vantava un buon curriculum militare, avendo combattuto contro i moriscos a Granada nel 1568 e preso parte alla battaglia di Lepanto nel 1571, nonché all'impresa de La Goletta nel 1574. Tuttavia, la morte prematura della moglie, nell'ottobre 1576, non solo sancì la fine di un progetto che avrebbe potuto rilanciare le sorti della famiglia ma segnò il destino della Leyva. Mentre la bambina fu probabilmente affidata alle cure della zia materna Clara Torniello e di quella paterna Marianna Stampa, il padre partì per servire don Giovanni d'Austria nella guerra nelle Fiandre, dove sarebbe rimasto fino al 1580.
Nel frattempo, il testamento di Virginia, la quale aveva diviso i propri beni in parti uguali tra la L. e Marco, il figlio nato dal suo precedente matrimonio con Ercole Pio di Savoia, venne impugnato dalla famiglia Pio. La lunga causa che ne seguì terminò solo con l'accordo stipulato, nell'agosto 1580, da Martín de Leyva, a nome della figlia, e da Enea Pio di Savoia, tutore di Marco e dei suoi fratelli. In base a esso l'eredità di Virginia veniva attribuita per 5 parti alla L. e per 7 ai Pio di Savoia. Tale sostanziale cedimento nella tutela degli interessi economici e del prestigio familiare era connesso, da una parte, all'esigenza di chiudere una vertenza che - unita a quella ancora più complessa e delicata tra il Fisco regio e gli eredi di Tommaso Marino, fra i quali la stessa Virginia - rischiava di portare al tracollo le non floride finanze della famiglia e, dall'altra, alla volontà di Martín di riprendere la via del servizio al re Cattolico, quale unico mezzo per sostenere le sorti del lignaggio. I servigi resi dal gentiluomo nella campagna per la conquista del Portogallo gli valsero, nel 1586, la grazia di Filippo II che imponeva alla Camera di Milano di versare in dote alla L. 7000 ducati dall'eredità Marino non appena la fanciulla avesse raggiunto l'età per il matrimonio. Inoltre, nel dicembre 1587, Martín ebbe la nomina a maestro di campo della cavalleria leggera del Regno di Napoli, cui seguì, un anno dopo, quella a membro del Consiglio collaterale.
Nulla si sa sull'educazione della L.: solo la concessione regia relativa alla dote lascia pensare che il matrimonio fosse la soluzione fino ad allora giudicata naturale per la giovane rampolla della nobile famiglia ispano-italiana. A cambiare le prospettive della sua esistenza, giunsero però nel 1588 le seconde nozze del padre con una nobildonna valenciana, Ana Vich (o Vique), figlia di Jerónimo, barone di Llaurín e Matada. Gli interessi di Martín, gravitanti decisamente sul Regno di Napoli, e il nuovo matrimonio, con la nascita di diversi figli maschi, consigliarono la monacazione della figlia di primo letto. Con un atto notarile del 15 marzo 1589, Martín costituì la dote spirituale di 6000 lire imperiali per la giovanetta in occasione del suo ingresso nel monastero benedettino di clausura di S. Margherita di Monza. La dote fu depositata presso Giuseppe Limiato, potente amministratore e procuratore dei Leyva a Monza, con l'impegno al versamento nelle casse del monastero al momento della professione monacale della Leyva. Accanto a tale somma, il padre si impegnò a pagare 212 lire e mezza all'anno fino alla professione e alla consegna della dote, più altre 300 lire annue per tutta la vita della giovane.
La pronuncia dei voti monacali da parte della L., che prese il nome di Virginia Maria, ebbe luogo il 12 sett. 1591 presso il monastero di S. Margherita. Insieme con lei emisero la loro professione Benedetta Homati, Ottavia Ricci e Teodora Merati. Tuttavia, il padre chiese e ottenne per mezzo del Limiato una proroga di due anni per la corresponsione della dote spirituale, che peraltro non avrebbe mai versato.
Gli anni seguenti sono avvolti dal silenzio delle fonti. È certo che la L. esercitò su delega paterna i poteri signorili sul feudo di Monza, come testimonia un documento autografo del dicembre 1596, in cui essa, in virtù dell'autorità ricevuta dal padre, proibì la pesca in un tratto del fiume Lambro, prossimo al convento francescano di S. Maria in Carobiolo, il cui diritto esclusivo veniva concesso ai frati. All'interno del monastero la L., nonostante l'età assai giovane, ricevette gli incarichi di "sacristana et soprastante alle putte secolari" (Vita e processo di suor V.M. de L. monaca di Monza, p. 262) che vi venivano educate.
L'anno di svolta nella vita della L. fu il 1597, allorché ebbe il primo incontro con il giovane Giovanni Paolo Osio, di un'agiata ma non nobile famiglia monzese, i cui membri si distinguevano per l'esercizio delle armi e i frequenti atti di violenza. Bello, ricco, non privo di una qualche educazione, l'Osio vantava rapporti di amicizia con membri di importanti famiglie lombarde (D'Adda, Borromeo, Taverna e Visconti). Era inoltre in ottimi rapporti con il monastero di S. Margherita, le cui finestre davano sul giardino della casa della sua famiglia. La L. denunciò il tentativo di Giovanni Paolo di intrecciare una relazione amorosa con un'educanda, che venne subito allontanata e fatta sposare. Nell'ottobre 1597 l'Osio compì il primo omicidio, nella persona di Giuseppe Molteni, agente dei Leyva a Monza, nonché uno dei tre testimoni all'atto di costituzione della dote spirituale della Leyva. Ella stessa, avendo visto da una finestra del monastero che Giovanni Paolo si trovava in casa, fece avvisare i rappresentanti della giustizia perché fosse arrestato. Solo dopo un anno di latitanza dell'Osio, grazie alle pressioni di illustri personaggi, la L. acconsentì a concedergli la "remissione" del delitto.
Al ritorno di Giovanni Paolo ebbe inizio il corteggiamento della L., con lettere e doni, che sfociò in una vera e propria relazione amorosa, resa possibile dalla contiguità fra il monastero e la casa degli Osio e, soprattutto, dalla complicità sia dell'ambigua figura di Paolo Arrigone, curato di S. Maurizio a Monza, amico e consigliere di Giovanni Paolo, nonché spasimante respinto dalla L., sia delle monache Benedetta e Ottavia. Rimasta incinta, nel 1602, la L. partorì un bambino morto. Tale avvenimento aprì una fase di umori altalenanti in lei, con crisi di coscienza e tentativi di troncare la relazione che comunque proseguì, al punto che la L., nell'agosto 1604 diede alla luce una bambina, Alma Francesca Margherita, che l'Osio, in un primo tempo, affidò a una coppia di servitori e quindi, nel 1606, riconobbe come propria figlia.
Proprio in quell'anno gli avvenimenti presero una piega drammatica: una conversa del monastero, tale Caterina della Cassina, messa in punizione dalla L., minacciò di denunciare lei e le sue complici al vicario arcivescovile che pochi giorni dopo avrebbe visitato S. Margherita. La sera del 28 luglio, Benedetta e Ottavia fecero entrare l'Osio nel monastero e questi uccise la conversa, nascondendone il cadavere per simulare una fuga. Le voci sulla relazione fra Giovanni Paolo e la L. cominciarono ugualmente a diffondersi, finché, durante il carnevale del 1607, in seguito all'omicidio di un fabbro, forse autore di pettegolezzi, e al tentativo di assassinio dello speziale Rainiero Roncino, le autorità disposero l'arresto dell'Osio e il suo imprigionamento nel castello di Pavia. Nel luglio successivo, l'arcivescovo di Milano, il cardinale Federico Borromeo compì una visita pastorale a S. Margherita ed ebbe un primo colloquio con la Leyva.
La fuga dell'Osio - che si rifugiò nel medesimo monastero - e l'assassinio dello speziale Roncino, commesso da un suo sgherro ma attribuito al prete Arrigone, che fu arrestato, fecero precipitare la posizione della L.: il 25 nov. 1607 fu prelevata per ordine del cardinale Borromeo, condotta a Milano sotto scorta armata e rinchiusa nel monastero di S. Ulderico, detto del Bocchetto. Due giorni dopo il vicario arcivescovile Girolamo Saracino diede avvio all'inchiesta nel monastero di S. Margherita, mentre Ottavia e Benedetta fuggivano andando incontro, rispettivamente, alla morte e al tentativo di omicidio per mano dell'Osio, desideroso di far scomparire le sue due complici e quindi le più pericolose testimoni.
Umanamente drammatico fu l'interrogatorio cui fu sottoposta la L. il 22 dic. 1607: la monaca descrisse con dovizia di particolari il tormentato rapporto di attrazione-repulsione con l'Osio, culminato, dopo una serie di galanterie e di colloqui, nella violenza sessuale di cui fu vittima da parte del giovane, con la complicità delle monache Ottavia e Benedetta. Né meno drammatici risultano, dal racconto della L., i successivi sviluppi della vicenda: la relazione, le gravidanze, i tentativi di mortificazione e il ricorso a pratiche superstiziose e magiche per allontanare l'Osio, fino al drammatico epilogo dell'assassinio della conversa, del quale essa dichiarò di essere stata mera testimone. Nel corso del secondo interrogatorio, il 14 giugno successivo, la L. fu sottoposta a tortura, secondo la prassi giudiziaria del tempo, al fine di confermare la veridicità delle sue dichiarazioni.
Le indagini della giustizia laica, affidate al senatore Juan de Salamanca e al giudice Giovanni Francesco Torniello, si conclusero nel febbraio 1608, con la sentenza di condanna a morte e di confisca dei beni per l'Osio e i suoi complici. Ben più complessa e delicata si rivelò invece l'inchiesta delle autorità arcivescovili. Nel timore che il vicario Saracino non fosse in grado di resistere alle pressioni degli ambienti milanesi legati alle famiglie degli accusati, il cardinale Borromeo chiamò a Milano dallo Stato pontificio il giudice spoletino Mamurio Lancillotti, con il compito di portare a termine il processo. Il 16 ottobre di quell'anno la L. assistette nel palazzo arcivescovile alla lettura della sentenza che la condannava alla reclusione perpetua nella Casa delle donne convertite di S. Valeria di Milano, in una cella murata con un pertugio dal quale ricevere cibo e uno per avere luce sufficiente a recitare l'ufficio.
Mancano notizie sulla L. negli oltre quattordici anni che visse segregata fino alla liberazione, il 25 sett. 1622. L'unico elemento certo è la lunga causa intentata dai deputati di S. Valeria al monastero di S. Margherita sul godimento dei redditi della monaca, che la sentenza di condanna aveva stabilito fossero versati a S. Valeria per tutta la durata della detenzione "a titolo di alimenti della prigioniera", per poi spettare a S. Margherita dopo la morte della medesima. Solo nel giugno 1624 i due enti giunsero a un compromesso con la mediazione del cardinale Borromeo.
Ugualmente poco documentati sono gli anni successivi, nel corso dei quali la L., sempre residente nella Casa di S. Valeria, attirò nuovamente l'interesse del Borromeo, questa volta per le sue pratiche di pietà. Superata l'iniziale diffidenza, il porporato esortò la donna a scrivere lettere, al fine di consolare altre monache che attraversavano momenti di crisi. I soli documenti superstiti di questo dialogo spirituale a distanza sono tre lettere inviate dalla L. al Borromeo (datate 9 dic. 1625, 20 dic. 1626 e 20 giugno 1627), più altre due (una senza data e l'altra del 19 dic. 1626) scritte dietro sollecitazione dell'arcivescovo che, dopo averle esaminate, provvide a trasmetterle alle religiose bisognose di conforto.
Le lettere della L. sono ricche di accenti mistici e penitenziali, nonché improntate a una profonda devozione nei confronti del Borromeo, tali da delineare una sorta di rapporto di direzione spirituale. Nella lettera del 9 dic. 1626, per esempio, la monaca affermava: "paratissima son a ricevere il rimedio opportuno delle piaghe mie sia con penitenza sia con asprezze prontissima schiava sono alla santa e retta voluntà di Vostra Signoria Illustrissima".
Il Borromeo - di cui è nota la profonda attenzione verso il mondo spirituale e mistico femminile - pensò addirittura di inserire la vicenda della L., monaca peccatrice pentita divenuta esempio di pietà attraverso l'espiazione e l'umiliazione, nella riedizione del volume Philagios sive de amore virtutis, una raccolta di biografie esemplari edita a Milano nel 1623. In un secondo momento, il cardinale decise di collocare la storia in un'altra opera, De sacris admirandis auditionibus (incompiuta e inedita). Il capitolo XVIII di tale opera, redatto sia in volgare sia in latino, ha l'eloquente titolo Di una verace penitenza. Senza rendere noto il nome della L., il Borromeo sottolineava il desiderio della peccatrice di ottenere il perdono del suo giudice, "sì come quello che presso di lei, et nella mente sua rappresentava la persona di Dio", concludendo con malcelata ammirazione: "et hora io intendo per qual ragione i Martiri ringratiassero chi gli condannava, et incitassero le fiere contro di loro nel teatro. Né più oltre voglio dire della grandezza di questo lume divino, poiché quelli che poco sanno, non havranno vigore di intendere le mie parole, e quelli che intendono, non ne hanno bisogno" (Borromeo, p. 52).
Scomparso il cardinale, la vita della L. rientrò in un cono d'ombra dal quale uscì solo nel novembre 1646 per redigere, in una lettera a Sebastián de Salazar, arcidiacono di S. Maria della Scala, un breve albero genealogico della famiglia de Leyva. Grazie a un documento contabile della Casa di S. Valeria, sappiamo che la L. vi morì il 17 genn. 1650.
Singolare è la sorte della figura storica della L., nota al grande pubblico a partire dalla rielaborazione romanzesca operata ne I promessi sposi da A. Manzoni, il quale, sulla scorta della lettura delle carte processuali, costruì il personaggio della monaca Gertrude. Ne è conseguita una singolare distorsione interpretativa a opera di schiere di scrittori e saggisti, per cui i pochi dati storicamente certi dell'esistenza della L. sono stati letti e analizzati quasi esclusivamente alla luce dell'opera manzoniana, come se il personaggio letterario avesse fagocitato quello reale. Numerose le ricostruzioni romanzesche, cinematografiche, televisive e biografiche, per lo più fantasiose e pseudoscientifiche, che - complice un uso disinvolto delle fonti - hanno sfruttato la vita della L. alla ricerca di effetti tragici e pruriginosi.
Fonti e Bibl.: A. Giulini, Una lettera inedita della "Signora di Monza", in Archivio storico lombardo, XXXVI (1909), 1, pp. 502 s.; Vita e processo di suor V.M. de L. monaca di Monza, a cura di U. Colombo, Milano 1985; G. Farinelli, La monaca di Monza nel tempo, nella vita e nel processo originale rivisto e commentato, Azzate 1999; F. Borromeo, Di una verace penitenza: vita della monaca di Monza, a cura di E. Paccagnini, Milano 2000; A. López de Haro, Nobiliario genealógico de los reyes y títulos de España, II, Madrid 1622, pp. 402 s.; G. Ripamonti, Historiae patriae. Decade V, lib. VI, Mediolani s.d., pp. 358-377; C. Cantù, Sulla Lombardia del secolo XVII, Milano 1842, pp. 75-93; T. Dandolo, La signora di Monza e le streghe del Tirolo, processi famosi del secolo decimosettimo, Milano 1855, pp. 10-179; L. Zerbi, La signora di Monza nella storia, in Archivio storico lombardo, XVII (1890), pp. 675-753; A. Ratti, Vita della "Signora di Monza" abbozzata per sommi capi dal cardinale Federico Borromeo, in Rendiconti del R. Istituto lombardo di scienze e lettere, s. 2, XLV (1912), pp. 852-862; G. Barbieri, Un personaggio del Manzoni nei documenti archivistici del Monte di Pietà di Milano, in Archivi storici delle aziende di credito, I, Roma 1956, pp. 13-23, 26-31; C. Marcora, La biografia del cardinal Federico Borromeo scritta dal suo medico personale Giovanni Battista Mongilardi, in Memorie storiche della diocesi di Milano, XV (1968), pp. 190 s.; E. Paccagnini, La vita di suor V.M. de L., in Vita e processo di suor V.M. de L. monaca di Monza, cit., pp. 3-93; A. Agnoletto, Suor V.M. de L. e il suo tempo, ibid., pp. 97-144; U. Colombo, La Gertrude manzoniana, ibid., pp. 769-896; A.M. Tonucci, Virginia-Gertrude tra storia e romanzo: fascino e fortuna di un personaggio, ibid., pp. 871-924.