A cent’anni dalla Grande Guerra la Chiesa usa le stesse armi. Parla don Regoli, di Francesco Gnagni Porpora
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Riprendiamo dal sito https://formiche.net/2018/11/grande-guerra-chiesa-don-regoli/ un’intervista di Francesco Gnagni Porpora pubblicata il 14/11/2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia e, in particolare, «Il clero comprese subito la solennità dell’ora, e, trascurando ogni umano miraggio di fronte al supremo interesse delle anime, accettò ed amò i sacrifici più amari, i pericoli più gravi, i distacchi più dolorosi e si diede interamente (specialmente i cappellani del fronte) e senza riserva alle anime». I cappellani militari nella grande guerra (da Giovanni Semeria).
Il Centro culturale Gli scritti (10/3/2019)
Conversazione di Formiche.net con don Roberto Regoli, professore di storia contemporanea della Chiesa e direttore del Dipartimento di storia della Chiesa presso la Pontificia Università Gregoriana, partendo dal convegno Internazionale di Studi sul tema “Santa Sede e Cattolici nel mondo postbellico (1918-1922)”, organizzato dal Pontificio Comitato di Scienze Storiche in occasione del Centenario della conclusione della Prima guerra mondiale
Quale legame tra la Santa Sede ed eventi storici come la Grande Guerra? E quali sono gli insegnamenti da trarne oggi? In occasione del Centenario della conclusione della Prima guerra mondiale il Pontificio Comitato di Scienze Storiche ha organizzato a Roma, in due sedi distinte, un convegno per discuterne: i primi due giorni presso la Pontificia Università Lateranense e il terzo giorno presso l’Accademia di Ungheria. Per entrare meglio nella questione don Roberto Regoli, professore di storia contemporanea della Chiesa e direttore del Dipartimento di storia della Chiesa presso la Pontificia Università Gregoriana, conversando con Formiche.net usa un aforisma del grande romanziere Gilbert Keith Chesterton, in cui il profetico e ironico apologeta londinese, nella sua raccolta di saggi “Ortodossia”, scriveva: “Deve esserci qualcosa di buono nella vita militare, perché tanti uomini buoni hanno apprezzato il fatto di essere dei soldati. Deve esserci qualcosa di buono nell’idea di non violenza, perché tanti uomini buoni sembrano contenti di essere quaccheri. Tutto ciò che ha fatto la Chiesa (per quanto la riguarda) è stato impedire che ciascuna di queste due cose buone escludesse l’altra. Esistevano una di fianco all’altra”.
Professore, volgendo lo sguardo all’indietro, cosa significò per il mondo cattolico, alla luce del passato, la prima guerra mondiale?
La Grande Guerra ci fa vedere la distanza che c’era in quel momento tra il Papato e i cattolicesimi nazionali. Al di là del dramma che fu la guerra, i morti che portò e la mancata consapevolezza iniziale, in quanto si pensava a un conflitto breve, per i cattolicesimi nazionali fu un’opportunità di integrazione, dentro il sistema nazionale, perché i nuovi stati europei erano nati anche con elementi non propriamente cattolici. Quando nasce il Regno d’Italia il contributo cattolico è marginale: alcuni cattolici hanno fatto l’unità d’Italia ma il cattolicesimo non ci si ritrovava. Quando nasce la Terza Repubblica in Francia il cattolicesimo francese, più d’impronta conservatrice monarchica, non ci si ritrova. Quando nasce l’impero tedesco, modellato secondo la visione di Bismark, l’impronta che si da è più protestante che cattolica, tanto è vero che il partito cattolico “Zentrum” si trova all’opposizione del governo. La prima guerra mondiale ha un importante significato perché diviene l’occasione di tutti questi cattolicesimi nazionali, emarginati dai grandi discorsi della nazione, a far vedere che i cattolici sono cittadini come gli altri. Non di serie b ma protagonisti come tutti gli altri cittadini provenienti da altre tradizioni culturali.
Come si pose di fronte a ciò la Santa Sede?
Nel momento in cui questi cattolicesimi nazionali vivono la guerra come un’opportunità, Roma invece sin dall’inizio si pone in altra prospettiva. Già Pio X, che morì tre settimane dopo l’avvio della Grande Guerra, nella sua esortazione apostolica del 1914 Dum Europa richiamava tutti i cattolici a pregare per la pace. E Benedetto XV si inseriva pienamente nella direzione del suo predecessore. Per cui il Papa appare come pastore di tutti i cattolici, non solo di alcuni, e si dà da fare per la pace, si impegna con richiami continui nei suoi discorsi e testi, creando dei malesseri in alcuni ambiti dei cattolicesimi nazionali. Ci sono anche dei religiosi che dicono pubblicamente, anche in omelie, come a Parigi, che non si può seguire il Papa in quella direzione. Però alla lunga aveva ragione Benedetto XV, tanto è vero che l’essersi posti come Chiesa di Roma per l’imparzialità, e non solo per la neutralità, essendosi sempre posto a favore di gesti e decisioni di pace, dà un credito morale al Papa molto alto. Rimettendo in qualche modo il papato nello scacchiere internazionale in maniera meno secondaria.
Facile vedere analogie con il mondo di oggi. Verrebbe da dire che le discussioni tra le Chiese nazionali, rispetto a Roma, non sono una novità. A differenza di quanto talvolta l’esplosione dell’informazione mediatica, nell’attuale periodo storico, può far sembrare.
Il cattolicesimo per sua natura è plurale. Non fosse dialettico non sarebbe cattolico, e come storici le discussioni non ci meravigliano: ci sono sempre state e sempre ci saranno.
Papa Francesco, nei suoi interventi, richiama spesso la pace.
Ricordiamo a inizio pontificato l’invito al digiuno per la Siria: Papa Francesco comincia il suo ministero con un evento legato alla Siria che mediaticamente, ma anche popolarmente, attraversa tutto il mondo. Quando si temeva uno scaricamento di armi pesanti sulla Siria, in quel momento l’appello del Papa alla preghiera e al digiuno fu decisivo per tante coscienze. Si trattava in definitiva delle stesse armi cattoliche di un secolo fa, visto che anche Pio X e Benedetto XV invitavano alla preghiera e richiamavano le coscienze. I mezzi della Chiesa sono sempre gli stessi, non sono i mezzi mondani, ma quelli che apparentemente appaiono inefficaci. Mosè di fronte al faraone usa solamente un bastone, non ha i carri o le spade né le frecce. La Chiesa ha sempre una povertà di mezzi.
La stessa preghiera a san Michele arcangelo, che il mese scorso il Papa ha invitato a preghiera, è stata scritta da Leone XIII.
Esatto, si tratta di un’antica preghiera che era caduta in disuso nel periodo del post-Concilio. Che forse ricorda la formazione giovanile di Bergoglio, perché è una preghiera che fino agli anni ’60 o ’70 alcuni sacerdoti facevano ancora. La mia generazione, ma anche le generazioni immediatamente precedenti alla mia, non è cresciuta con questa preghiera, quindi è un ricordo forse dell’infanzia, di quando serviva la messa da bambino. Questa si recitava dopo la messa.
Allo stesso tempo però, nel complesso del pontificato di Francesco, come scritto in Evangelii Gaudium, si avverte la volontà di decentralizzare la gestione della Chiesa, dando maggiore responsabilità alle conferenze episcopali nazionali, come ad esempio con l’istituzione della Terza segreteria per i rapporti diplomatici. Questo cosa ci mostra?
Il cattolicesimo è complesso perché ci sono più livelli al suo interno, sia dal punto di vista territoriale che religioso. I francescani e i gesuiti sono realtà locali ma di diritto pontificio, perciò seguono altre logiche. Quindi governare il cattolicesimo non è mai semplice. C’è sempre una vivace dialettica interna. E sicuramente si vuol favorire l’emergere delle diversità delle posizioni, per poi arrivare a composizione.
Mi salta però in mente la contraddizione tra l’idea della guerra e il fatto che i cattolicesimi nazionali ne abbiano giovamento.
In quel periodo avevamo eserciti che ricevevano benedizioni dai loro sacerdoti, che si andavano a scontrare al fronte benedetti da tutte e due le parti. Avevamo eserciti consacrati al Sacro Cuore ma che tra di loro stavano in lotta. C’era tutto un armamentario linguistico religioso che si giocava attorno alla Grande Guerra. Ed era normale una cosa del genere perché anche la visione cattolica della fede è una visione totalizzante della vita, quindi anche l’esperienza militare rientrava in una chiave di lettura illuminata dalla fede. E allora noi italiani abbiamo avuto dei sacerdoti in trincea, tante volte anche la prima guerra mondiale è stata considerata la conclusione del processo risorgimentale, perché portava una unità dentro il paese grazie all’esperienza della trincea. Ma se noi andiamo a vedere i diari di Giovanni XXIII, quando in quegli anni era un giovincello, emerge un patriottismo evidente, che forse era anche nazionalismo. La Chiesa dell’epoca ha sempre favorito il patriottismo condannando il nazionalismo, che riteneva uno smodato amore per la patria. Dov’è il limite? Non è sempre evidente capire quando è l’uno o l’altro, e lo stesso Roncalli quando era giovane era infervorato.
Anche Giovanni Paolo II parlava della patria come di una società naturale al pari della famiglia.
In Giovanni Paolo II, anche per la sua storia personale, la sua identità polacca, il patriottismo è molto forte. Là dove l’amore di patria e l’amore per la religione sono coincise, perché è da considerare che fino al 1918 la Polonia è divisa in tre grandi Stati, Austria – Ungheria, Russia e Prussia, e solo dopo la prima guerra mondiale rinasce la nazione polacca, che era scomparsa dalle mappe geopolitiche nel ‘700.
Pare che anche oggi, a livello di episcopati nazionali, le cose non siano sempre facili da gestire. Mi viene in mente la distanza, che talvolta appare tale, su alcuni temi, ad esempio tra vescovi tedeschi e polacchi. Su questo, che insegnamento ci porta la storia?
Ogni episcopato risponde alle sfide culturali dentro il proprio Stato. Quando parliamo di episcopati nazionali la declinazione è molto storica, e i confini cattolici religiosi sono determinati prima di tutto dai confini politici, che dominano molto quelli religiosi. In questo senso lo Stato-nazione lo precede. Con anche tutta la questione delle minoranze linguistiche culturali dentro Stati più grandi.
Una Chiesa che cioè è per sua natura di frontiera, ospedale da campo, e che rispetto a steccati e nazionalismi è sempre presente per tutta l’umanità.
La Chiesa è sempre stata da tutte due le parti dello steccato, non può fare diversamente, la Chiesa è sempre dalle due parti dello steccato. È un bel segno, nel senso che ci dice che la Chiesa è una realtà aperta, e che la fede precede ogni appartenenza locale.
In questo si inserisce il corso inaugurato dal Papa alla Lateranense sulle “scienze della pace”?
Interessante che proprio a cent’anni dalla fine del primo conflitto mondiale il Papa desidera avviare un corso specializzato in scienze della pace. Quel primo grande conflitto mondiale fu traumatico nei numeri e nei morti, lasciò segnate generazioni, con orfani, vedove e la nuova categorie sociale dei mutilati di guerra. Una sofferenza che nella carne va oltre la fine della guerra.
Quando si parla del ruolo della Santa Sede nel mondo post-bellico si deve parlare anche del ruolo della massoneria. Perché?
Perché tutti e due, Chiesa cattolica e massoneria, hanno dei progetti universali non limitati a un ambito o uno spazio, ma hanno una visione dell’uomo e del mondo, tra loro concorrenziali. La guerra finisce nel 1918, l’anno precedente era uscito il primo Codice di diritto canonico della storia nel quale era presente un canone in cui si condanna con la scomunica proprio l’appartenenza alla massoneria. Due visioni chiaramente concorrenziali tra loro.
Una questione che ancora oggi fa dibattere, anche in maniera piuttosto aspra, visto gli ultimi contatti tra Chiesa e massoneria riportati dalle cronache, riguardanti uno o più eventi di confronto pubblico a livello locale, e un articolo del cardinale Ravasi sul Sole 24 ore in cui si tocca questo tema.
Sì, perché sono ancora concorrenziali tra loro (ride, ndr). Facendo un passo indietro, dopo il Concilio Vaticano II ci sono dei tentativi anche a livello di conferenze episcopali nazionali del nord Europa di avviare dei dialoghi con la massoneria, per vedere se c’erano delle condizioni di possibilità di compiere dei passi insieme. Però quei dialoghi a dire il vero diedero come soluzione il fatto che non era possibile avere dei passi comuni e decisi nella stessa direzione. Negli anni ’80 il cardinale Ratzinger ricordava l’impossibilità per un iscritto alla massoneria di ricevere i sacramenti. Quindi è un discorso che nel tempo continua.