«Ci vuole spirito missionario per la vita diplomatica». Don Regoli parla con noi dell’imminente Congresso in Gregoriana. Un’intervista di Giovanni Marcotullio

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 17 /03 /2019 - 22:32 pm | Permalink | Homepage
- Tag usati:
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo dal sito Aleteia un’intervista di Giovanni Marcotullio pubblicata il 27/2/2019. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (17/3/2019)

Si avvierà domani in Gregoriana, a Roma (Piazza della Pilotta 4), una due giorni di studio sulla diplomazia pontificia: la stessa vedrà la propria conclusione nella storica sede dell’École Française de Rome (Piazza Navona 62) il primo febbraio. Ad aprire il congresso patrocinato dalle due prestigiose istituzioni sarà una prolusione del cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin.

Abbiamo colto l’occasione per incontrare don Roberto Regoli, direttore della prestigiosa rivista “Archivum Historiæ Pontificiæ” e del Dipartimento di Storia della Chiesa dell’Ateneo fondato da sant’Ignazio, nonché uno dei principali organizzatori, e lo abbiamo intervistato sulla storia moderna, recente e contemporanea della diplomazia pontificia… e sul suo significato essenziale nella e per la missione della Chiesa.

Programma del Congresso Internazionale organizzato dalla Pontificia Università Gregoriana e dall’École française de Rome.

G.M.: Buongiorno, don Regoli, e grazie di averci incontrati nonostante gli ultimi preparativi per un evento richiedano sempre massima attenzione. Vuol raccontarci, per cominciare, com’è nata l’idea di questo Congresso Internazionale sugli Accordi della Santa Sede con gli Stati?

R.R.: È nata al bar! Non sto scherzando… Da tempo con diversi studiosi amici ragionavamo intorno alla diplomazia pontificia, che è sempre più oggetto di analisi non solo a livello accademico ma anche mediatico e ciononostante non si è ancora giunti per l’epoca contemporanea a riflessioni sintetiche, capaci di ampie visioni di insieme radicate su ricerche articolate. Si hanno molti studi sulla materia, ma spezzettati. A partire da queste constatazioni abbiamo cominciato a chiederci se non fosse giunto il momento di sollecitare il nostro ambiente di storici ad una visione di insieme. Abbiamo trovato molti riscontri positivi.

Per studiare la diplomazia abbiamo preso un suo strumento classico (che si sarebbe prestato ottimamente ai nostri fini): il concordato. A questo punto abbiamo avviato l’impresa: studiare la diplomazia pontificia a partire dai testi dei suoi accordi con gli Stati (concordati, convenzioni, intese, modus vivendi, scambi di lettere…), che sono il termometro della vitalità della Chiesa e della società con una interpretazione su lungo periodo, senza perdersi nelle minuzie dei singoli testi, ma cogliendo il respiro dell’epoca storica. A volte andare al bar fa bene, se i risultati sono questi…

G.M.: Ci pare dunque di poter sintetizzare, anche a partire dalla locandina, che la Storia della Chiesa conosce una “stagione concordataria” (secoli XIX-XXI), e che del resto al suo interno si distinguono “modelli e mutazioni”. Questo cosa ci dice del rapporto della Chiesa con la modernità?

R.R.: I momenti storicamente più creativi sono stati generalmente quelli più ricchi di patti Stato-Chiesa. Nei momenti dopo le crisi, quando le società si rianimavano e gli Stati si ristrutturavano (a volte in maniera assai originale), abbiamo l’inflazione dei concordati. Nei momenti di ricostruzione gli Stati si accorgono della necessità di coinvolgere le forze spirituali presenti nella società. Dopo la rivoluzione francese, abbiamo la stagione concordataria napoleonica e della restaurazione; dopo la prima guerra mondiale, abbiamo una nuova impennata con Pio XI; dopo la caduta del muro di Berlino abbiamo la fioritura concordataria di Giovanni Paolo II.

Tutti questi momenti hanno costituito occasioni di collaborazione tra la Chiesa e gli Stati, come anche hanno avviato possibilità di adattamento della Chiesa alla modernità. Non si è trattato solo di adattamento. I concordati non esistono infatti per altre confessioni o religioni e se dunque dicono flessibilità della comunità cristiana al contesto culturale, allo stesso tempo esprimono la sua diversità rispetto ad altre società, dicono qualcosa della sua irriducibilità alla contingenza. Si tratta di una tensione continua lungo tutta la storia della Chiesa. Ma la storia dei concordati dice soprattutto la possibilità di intesa tra due mondi, quello ecclesiale e quello politico, che possono incontrarsi senza perdersi.

G.M.: Mi rendo conto di fare una domanda delicata – come è sempre la storia quando ci si avvicina all’evo contemporaneo – ma vorrei guardare con lei a Russia e Cina e chiederle: che tipo di diplomazia le pare che si configuri nelle due grandi “Ostpolitik” a cui altrettanti regimi comunisti hanno portato e portano attualmente la Chiesa? Perché quelle particolari relazioni hanno meritato di essere considerate “a parte” rispetto al restante panorama diplomatico?

R.R.: Da secoli i due vasti territori sono stati intesi come orizzonti da raggiungere dal cattolicesimo e ciononostante sono sempre scappati alle sue aspettative e alle sue possibilità. I rapporti con i governi di quegli Stati sono importanti per la missionarietà propria della Chiesa e per il suo sviluppo futuro. Attualmente con la Russia si hanno relazioni bilaterali chiare, con tanto di rappresentanza diplomatica e pure con un accordo puntuale sui passaporti diplomatici (2017). Molto più originale è il caso della Cina, con la quale non si hanno scambi di diplomatici, né rapporti diplomatici ufficiali, ma si ha un accordo, al momento segreto, sulla nomina dei vescovi (2018).

G.M.: Lo abbiamo visto ad Abu Dhabi nell’ultima di molte e anche recenti occasioni: la Chiesa si pone come alfiere dei diritti umani, in particolare della libertà religiosa, e rivendica questo diritto non solo per i cristiani ma per tutti gli uomini. Lei è uno storico, ci dica: giudica che qualcosa di questo atteggiamento fosse presente anche quando Gregorio XVI si batteva per assicurare alla Chiesa l’egemonia nella cultura e nel culto?

R.R.: La Chiesa ha saputo meglio distinguere i concetti nel tempo. Con Gregorio XVI si condannava la libertà di coscienza, la libertà di opinione e la libertà di stampa, non in quanto tali, ma in quanto corollari dell’indifferentismo. La vera condanna è all’indifferentismo, cioè a quella opinione «secondo la quale si possa in qualunque professione di Fede conseguire l’eterna salvezza dell’anima se i costumi si conformano alla norma del retto e dell’onesto», così come scriveva Gregorio XVI nella sua enciclica Mirari vos nel 1832. Con il Concilio Vaticano II, nella dichiarazione Dignitatis Humanæ (1965), i padri conciliari affermano che gli Stati devono permettere ad ogni singolo cittadino come ai gruppi sociali di compiere liberamente il proprio cammino di ricerca di verità per arrivare ad adorare («onorare») Dio. Il Concilio promuove la libertà religiosa, intesa come «immunità dalla coercizione», ma allo stesso tempo considera che l’«unica vera religione […] sussista nella Chiesa cattolica e apostolica».

G.M.: E che cosa ritiene che la Chiesa abbia invece maturato nel corso di questi numerosi decenni?

R.R.: La Chiesa ha saputo distinguere meglio il piano metafisico da quello politico.  A livello metafisico (teologico) continua ad affermare l’unicità salvifica di Cristo, distinguendolo da quello politico per il quale si chiede la libertà per ogni singolo per compiere liberamente il proprio percorso verso Dio.

G.M.: Italia e Francia, da sempre nemiche-amiche, hanno recentemente vissuto momenti di frizione diplomatica sul piano civile (e qualche ombra s’è intravista anche su quello ecclesiastico): come pensa che vadano compresi certi fatti? È la normale espressione di rapporti di forza o pensa che le relazioni si vadano deteriorando?

R.R.: La diplomazia è da sempre il luogo di confronto tra le diverse potenze. I trattati da loro sottoscritti e le relazioni da loro impostate valgono tanto quanto la permanenza degli equilibri che li hanno generati. Non possiamo fare gli ingenui. Se cambiano gli equilibri, cioè le forze dei giocatori in campo, è normale che cambino di cascata tutte le relazioni. Le relazioni sono di loro natura continuamente in evoluzione.

G.M.: All’occhio di un profano la vita di un nunzio apostolico può sembrare quanto mai distante da quella di Gesù. Può aiutarci a guardare più in profondità? Qual è il senso ultimo – lo spirito evangelico, se così possiamo dire – dell’attività diplomatica della Santa Sede?

R.R.: La vita di un nunzio non è una “bella vita”. Se c’è la bellezza delle molte relazioni e dei molti contatti, allo stesso tempo non va negata la tipica solitudine dei diplomatici, che viaggiano continuamente, cambiando residenze e paesi, e vivono senza poter mettere radici e fare casa. Hanno una house, ma non una home. Una vita spesso spesa nella lettura attenta delle carte. È una vita sacrificata. Ci vuole spirito missionario per viverla nell’ottica giusta. Qual è il senso ultimo dell’attività diplomatica pontificia? Facciamolo dire a Domenico Tardini (segretario di Stato di Giovanni XXIII), che usava ripetere spesso ai suoi collaboratori in Segreteria di Stato:

«Sappiate che una bella nota alla cui redazione voi dedicate ore e ore d’ufficio, chiusi in una stanzetta, vale per la Chiesa più di una bella predicazione, più di un corso di esercizi spirituali, che voi con tanta più soddisfazione personale andreste a dettare in una parrocchia. Ci vuole chi faccia anche quel ministero, ma anche il vostro lavoro d’ufficio è ministero sacerdotale, di tanto valore».