Il Cristo. [«Per me Calcedonia è la più grandiosa ed ardita semplificazione dell’intricato ed oltremodo complesso dato tradizionale in un’unica espressione centrale. Io vedo in questa l’unica interpretazione che può venir giustificata da tutto l’ambito della tradizione e può assumere tutto il peso del fenomeno. Tutte le altre spiegazioni sono troppo misere in qualche punto»], di Joseph Ratzinger

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 03 /03 /2019 - 23:34 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo un testo da J. Ratzinger, Dogma e Predicazione, Brescia, Queriniana, 1974, pp. 114-124. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Gesù Cristo.

Il Centro culturale Gli scritti (3/3/2019)

Tesi per la cristologia

1. Il punto di partenza della cristologia è segnato nel Nuovo Testamento dal fatto della risurrezione di Gesù Cristo dai morti; essa è la presa di posizione pubblica di Dio in suo favore nel processo che Giudei e pagani avevano organizzato contro di lui.

Questa presa di posizione di Dio a suo favore ratifica: a) la sua interpretazione dell’Antico Testamento, sia contro il messianismo politico che contro la pura apocalittica; b) la sua personale pretesa di sovranità, a causa della quale era stato condannato a morte.

2. L’avvenimento della risurrezione rende possibile interpretare la crocifissione di Gesù nella linea dell’immagine vetero-testamentaria del giusto che soffre; essa ha i suoi punti culminanti in Sal. 22 (21) e Is. 53.

È data così l’idea di rappresentanza ed anche, rifacendosi alle parole pronunciate da Gesù nella cena, il collegamento con la tradizione sacrificale di Israele, che ora, riferendosi ad Isaia 53, viene interpretata nel senso di martirio.

Gesù è il vero agnello da sacrificio, il sacrificio di alleanza nel quale è completato il significato recondito di tutte le liturgie vetero-testamentarie. In questo modo è dischiusa sia l’idea di salvezza sia la componente essenziale della liturgia cristiana.

3. La risurrezione di Gesù costituisce la sua sovranità permanente. Ne derivano due conseguenze: a) La risurrezione di Gesù convalida anzitutto la fede nella risurrezione, che prima non apparteneva ancora in senso inequivocabile al credo di Israele, e pone così il fondamento della speranza escatologica, specificamente cristiana. b) La presa di posizione di Dio per Gesù contro l’interpretazione ufficiale dell’Antico Testamento, opera delle competenti autorità giudaiche, dischiude, in linea di principio, quella libertà dalla lettera della legge, che porta alla chiesa dei pagani.

4. La pretesa di sovranità, confermata nella risurrezione di Gesù, si esprime nell’immagine di Gesù che siede alla destra del Padre. Essa porta ad applicare a Gesù le promesse messianiche vetero-testamentarie, compresa la loro cristallizzazione in testi come Sal. 2,7 “tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato”.

Le molteplici forme di espressione usate inizialmente per la sovranità di Gesù, si cristallizzano molto in fretta nei concetti di «Cristo» (Messia) e «Figlio», i quali corrispondevano nel modo migliore sia alla promessa vetero-testamentaria che alla storica pretesa di Gesù, fissata nel suo ricordo.

5. Per la fede della chiesa nascente era basilare la consapevolezza di non dare, con questa interpretazione della figura di Gesù, una trasfigurazione teologica posteriore ad un maestro d’Israele, ma di interpretare correttamente le sue parole ed opere personali. Perciò il conservare nel ricordo le parole di Gesù e l’itinerario da lui percorso, soprattutto la passione, costituisce fin dall’inizio il nucleo formativo della tradizione cristiana e delle sue regole. L’identità del Gesù terreno col Gesù risorto è fondamentale per la fede della comunità ed impedisce ogni posteriore scollamento fra il Gesù storico e il Gesù kerigmatico.

6. La formula: «Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato» appare in primo luogo come interpretazione del fatto della risurrezione; la risurrezione è l’elevazione al trono di Gesù, la sua proclamazione a Re e Figlio. Ma dato che la risurrezione fu vista insieme, e soprattutto, come conferma della pretesa di sovranità, a causa della quale Gesù dovette morire sulla croce (tesi 1) b), diventa subito evidente che il titolo di Figlio ha già un valore di principio, anche prima della risurrezione, e descrive legittimamente chi era Gesù.

7. Questa relazione viene esaminata a fondo e messa in piena luce nel vangelo di Giovanni. Gesù non soltanto proclama la parola di Dio, ma è egli stesso Parola di Dio, in tutta la sua esistenza. In lui agisce Dio come uomo. Ora diventa anche del tutto evidente come in lui confluiscano due direttrici delle promesse vetero-testamentarie, la promessa cioè di un portatore di salvezza della stirpe di David ed una serie di promesse direttamente teologiche, che vedono Dio stesso come la definitiva salvezza di Israele. Nello stesso tempo, le pretese di sovranità di Gesù, tramandate nei vangeli sinottici, raggiungono il loro completo contenuto; diventano comprensibili le parole e i gesti di Gesù, nei quali egli agisce, di fatto, al posto di Dio.

8. Nel corso della progressiva riflessione sulle premesse dell’evento pasquale, esistenti nella figura del Gesù terreno, si può capire anche come delle narrazioni sulla nascita e sull’infanzia di Gesù vengano accettate, nel vangelo di Matteo e di Luca, nella forma di una tradizione ufficiale della chiesa. Se i grandi profeti vengono chiamati da Dio fin «dal grembo materno», così avviene per Gesù, che sta al di sopra dei profeti, generato addirittura dallo Spirito che ha chiamato i profeti. Già qui diventa chiaro che la sua consapevolezza di essere sovrano non si fonda solo su una vocazione posteriore, ma su quello che egli è fin dal principio.

9. Mentre la tradizione evangelica fissa le decisive parole ed azioni di Gesù, le professioni di fede della Chiesa nascente cercano di accentuare i principali punti direttivi della tradizione. Il processo di formazione di professioni di fede cristologiche, iniziato con le prime professioni pasquali, è giunto ad una certa conclusione con il Concilio di Calcedonia.

Si devono evidenziare due osservazioni principali: a) Dalla sovrabbondanza di titoli di dignità cristologica, con i quali all’inizio si era cercato di indicare il mistero di Gesù, viene scelta, come titolo più determinante e completo, l’espressione «Figlio di Dio», che ora viene pronunciata con tutto il peso della fede trinitaria e che corrisponde alla realtà posta da Giovanni al centro della cristologia. b) Nel discorso sulla dualità delle nature e sull’unità della persona si cerca di sviluppare il paradosso del titolo di Figlio. Gesù è uomo nella completa totalità dell’essere umano. Nello stesso tempo però resta vero che egli è legato a Dio non soltanto grazie alla sua pia coscienza, ma in virtù del suo stesso essere; quale Figlio di Dio egli è vero Dio nella stessa misura in cui è vero uomo.

10. L’idea di redenzione viene ad avere così una estrema profondità ontologica: l’essere dell’uomo è incluso nell’essere di Dio. Ma questa affermazione ontologica conserva un senso soltanto pre-supponendo il concreto, reale ed amoroso essere umano di Gesù, nella morte del quale l’essere dell’uomo viene concretamente dischiuso a Dio ed unito a lui.

2 – Che significa Gesù Cristo per me?

Per ora a tale domanda potremmo dare una risposta ancora una volta teorica; a partire da Gesù Cristo io credo di arrivare a sapere cosa sia Dio e cosa sia l’uomo. Dio è così come si è svelato in Gesù Cristo.

Dio non è il puro ed infinito abisso o l’infinita grandezza, che tutto sostiene, ma che mai entra personalmente nel finito. Dio non è solamente distanza infinita ma anche vicinanza infinita. Ci si può confidare con lui, parlargli; egli ode, vede ed ama. Benché Egli non sia tempo, ha però del tempo, anche per me. Egli si esprime nell’uomo Gesù ma in modo da non assorbirlo in sé; Gesù infatti è una cosa sola con Lui ed allo stesso tempo lo chiama Padre. Dio rimane colui che si estende all’infinito oltre tutto ciò che si vede. Egli si può riconoscere solo in virtù dell’isolamento di preghiera di Gesù, grazie al suo chiamarlo Padre; e proprio qui, in questo chiamarlo Padre egli è in comunicazione diretta anche con noi.

L’altro aspetto poi si può presentare all’incirca così: l’uomo è tale da non poter sopportare l’uomo completamente buono, il vero giusto, colui che ama veramente, che non commette alcuna ingiustizia. Soltanto per un momento sembra che la fiducia venga compensata in questo mondo con fiducia, la giustizia con giustizia, l’amore con amore.

Colui che incorpora tutto questo dà subito fastidio. L’uomo crocifigge l’uomo, colui che è veramente tale. Così è fatto l’uomo. Così sono anch’io. Questa è la spaventevole conoscenza che deriva, da un lato, dal Cristo crocefisso.

Accanto a questo, senza dubbio, sta l’altro aspetto. L’uomo è quell’essere che è in grado di esprimere Dio stesso. Egli è stato creato in modo tale che Dio può unirsi con lui. L’uomo, che appare in primo luogo come un mostro fatale dell’evoluzione, è contemporaneamente la più elevata possibilità alla quale possa salire il creato. E questa possibilità è realizzata, anche se attraverso il più triste fallimento dell’umanità.

Io mi interrompo qui per affermare che queste fondamentali osservazioni si basano su una storia effettiva, sul modo in cui Gesù Cristo è entrato nella mia vita. Io mi sono incontrato con lui, in primo luogo, non nella letteratura o nella filosofia, ma nella fede della chiesa.

Ciò significa che egli fin dal principio non fu per me un grande del passato (come ad esempio Platone o anche Tommaso d’Aquino), ma colui che oggi vive ed opera, col quale oggi ci si può incontrare. Vuol dire anzitutto che io l’ho conosciuto entro la storia della fede, che da lui prende origine, e nel modo di vedere della fede, che ricevette la sua formulazione più durevole nel Concilio di Calcedonia.

Per me Calcedonia è la più grandiosa ed ardita semplificazione dell’intricato ed oltremodo complesso dato tradizionale in un’unica espressione centrale, che dà fondamento ad ogni altra: Figlio di Dio, di uguale natura con Dio e di uguale natura con noi. Calcedonia ha interpretato Gesù teologicamente, a differenza di tante altre possibilità, che furono tentate nel corso della storia; io vedo in questa l’unica interpretazione che può venir giustificata da tutto l’ambito della tradizione e può assumere tutto il peso del fenomeno.

Tutte le altre spiegazioni sono troppo misere in qualche punto; ogni altro concetto comprende solo una parte, escludendone un’altra. Qui e solo qui si manifesta la totalità.

Da questo concetto deriva, in fondo, tutto il resto e per prima cosa il fatto che, a mio modo di vedere, Gesù e la Chiesa non si possono separare l’uno dall’altro più di quanto si possano semplicemente identificare.

Egli supera sempre la chiesa, in misura infinita. Abbiamo saputo, e non solo grazie al concilio, che egli come Signore della chiesa ne costituisce anche la grandezza. Io l’ho sempre sperimentato come consolazione e, allo stesso tempo, come sfida.

Come consolazione perché sapevamo sempre che la scrupolosità dei rubricisti e dei legalisti non aveva nulla a che fare con Lui, con l’infinita generosità, che giunge a noi dalle parole del vangelo come un vento fresco ed abbatte come un castello di carte l’adorazione pedante. Da sempre sapevamo che la vicinanza a Lui è del tutto indipendente dalla dignità ecclesiastica, che uno possiede, come pure dalla conoscenza dei dettagli giuridici e storici.

Questo mi ha sempre permesso di guardare alle cose esteriori con la dovuta spassionatezza. Per questo dalla sua figura irradiò sempre per me qualcosa di ottimistico, di liberatore.

Ma d’altro canto non si doveva mai perdere di vista il fatto che Egli, per molti aspetti, pretende molto di più di quanto osa pretendere la chiesa. Il radicalismo delle sue parole trova vera corrispondenza soltanto nel radicalismo di scelte, quali furono attuate dal padre del deserto Antonio o da Francesco d’Assisi, nell’accettazione del tutto letterale, cioè, del vangelo.

Se non si opera così, il ricorso alla casuistica è già in atto e rimane la tormentosa inquietudine, la convinzione di essersi voltati indietro, così come tornò indietro il giovane ricco, quando avrebbe dovuto seriamente impegnarsi con il vangelo.

Se fin qui ho ricordato che l’accettazione di Gesù Cristo dentro la Chiesa non neutralizza affatto la forza della sua figura, che è uno stimolo continuo ad innalzarsi oltre le formule ecclesiali ormai sperimentate, ora mi rendo conto, nel proseguire la riflessione, di un secondo fatto, del tutto analogo, che può apparire paradossale come il primo; ambedue, in realtà, possiedono una profonda ed intima logica.

L’aver io imparato a conoscere ed a vedere Gesù Cristo dall’ermeneutica di Calcedonia non significa affatto che una parte della tradizione dovrebbe venir abolita, perché essa sembrerebbe forse troppo poco divina e non si potrebbe così conciliare con il contenuto del dogma. È vero proprio il contrario.

La tradizione ecclesiale, nella quale è rimasto fino ad oggi, con forza vitale, il movimento storico fondato da Gesù, mi infonde, allo stesso tempo, fiducia nella tradizione biblica, che io credo più viva e reale dei tentativi di ricostruire dal lambicco della ragione storica un Gesù storico chimicamente puro. Io confido nella tradizione in tutta la sua ampiezza.

Quanto più vedo affermarsi e poi andare in disuso i tentativi di ricostruzione, tanto più sento rafforzarsi questa fiducia.

Diventa sempre più evidente per me che l’ermeneutica di Calcedonia è l’unica che non deve abolire nulla, ma tutto può abbracciare.

Ogni altra deve cancellare una parte maggiore o minore del lato storico in nome dei suoi criteri, ritenuti migliori e ragionevoli. Ma l’autorità che costringe a tale cancellazione è soltanto quella di una determinata forma di pensiero, la cui relatività storica dev’essere molto chiaramente circoscritta.

Di fronte a simili autorità parziali per me la forza vitale della tradizione ha un peso incomparabilmente maggiore.

Per questo la lotta per l’ipsissima vox non ha affatto, per me, grande importanza. Io so che il Gesù degli angeli è il Gesù reale, so che mi posso fidare molto più tranquillamente di Lui che delle ricostruzioni più dotte; egli sopravviverà a tutte.

L’intera estensione e vivacità della tradizione evangelica mi ragguaglia su chi era ed è Gesù. Egli si fa sentire e vedere di continuo in essa.

Concludendo si dovrebbe dire ancora che colui che crede con la Chiesa incontra direttamente Gesù nella preghiera e nei Sacramenti, specialmente nell’Eucarestia. Ma chi volesse iniziare questo discorso riconosce subito che la disciplina dell’arcano della chiesa antica era molto di più di una temporanea accettazione di usi delle religioni pagane. Nel suo nucleo essa rimanda a quella sfera, che può venir dichiarata significativa soltanto nell’esperienza della fede.

3 – Imitazione

Il più noto libro di edificazione della cristianità, il libro più diffuso in essa dopo la Bibbia, porta il titolo di Imitazione di Cristo.

Nel frattempo questo libro è stato soppiantato da altri best-sellers ed anche il cristiano, che oggi lo legge, ammetterà che esso non può dare un’immagine completa del compito cristiano, perché rispecchia con troppa intensità lo spirito di un’epoca scossa dalla paura del mondo. Però lo spirito dell’interiorità, della modestia e del silenzio, che lo pervade, può colpirci ancora molto in questo secolo della malattia manageriale e di tutta l’irrequietezza da essa portata.

Qualunque sia l’esito della discussione sul celebre e controverso libro del tardo medioevo, rimane e si deve riproporre l’interrogativo sul vero significato di «imitazione di Cristo». Anzitutto, tale imitazione è ancora una possibilità esistente, reale per l’uomo d’oggi? O magari essa è addirittura la possibilità di essere e di diventare uomo? Il cristiano allora non soltanto potrebbe sostenere, con uno sforzo concorde, che si può, ed anche oggi continua ad aver senso, vivere da cristiani, ma, al contrario, sarebbe in grado di offrire la decisiva possibilità dell’essere uomo, nella quale sola appare ciò a cui è veramente destinato questo problematico essere uomo.

I. Ritorniamo alla nostra questione sul significato della «imitazione di Cristo». In origine questa parola aveva un senso molto semplice e per nulla teoretico. Essa suggeriva — in parole povere — che degli uomini si decidevano ad abbandonare la loro professione, il loro lavoro, la loro giornata normale, vissuta fin’allora, ed al posto di questo andavano con Gesù.

Essa indicava dunque una nuova professione, quella del discepolo, il cui contenuto vitale consiste nell’andare assieme al maestro, nel completo affidare-se-stesso alla sua guida.

«Imitazione» è così qualcosa di molto esteriore e qualcosa di molto interiore nello stesso tempo.

L’elemento esteriore consiste nel reale avanzare dietro Gesù nei suoi viaggi attraverso la Palestina; quello interiore è il nuovo orientamento dell’esistenza, che non ha più il suo punto focale nel lavoro, nel guadagnare il pane, nella volontà e nel giudizio personale; essa invece è affidata alla volontà di un altro, di modo che l’essere insieme con Lui, lo stare-a-disposizione per Lui è divenuto il vero e proprio contenuto esistenziale.

Una piccola scena tra Gesù e Pietro indica con molta chiarezza quale rinuncia a ciò che è proprio, quale allontanamento da se stesso questo implichi. Poco dopo la moltiplicazione dei pani, che sembra segnare una profonda cesura nella vita pubblica del Signore, Gesù aveva annunciato per la prima volta ai discepoli l’oscuro mistero della sua vita; egli non sarà un messia radioso, come essi potevano ancora sperare in occasione appunto della moltiplicazione dei pani, nella quale, dopo tutto, egli sembrava svelarsi come il nuovo Mosè, che era in grado di rinnovare il miracolo della manna.

No, egli verrà nascosto dall’ombra oscura della croce, soffrirà molto e infine verrà ucciso.

«Allora Pietro, presolo in disparte, si mise a fargli delle rimostranze», racconta il vangelo.

Ma Gesù si volta e lo redarguisce: va via, allontanati da me, Satana; tu non ragioni secondo Dio, ma secondo gli uomini (Mc. 8,32s).

Pietro, in certo qual modo, aveva cercato di liberarsi dell’imitazione e, invece di seguire, voleva camminare davanti, determinando per proprio conto la direzione del cammino.

Ma egli viene rimesso bruscamente al suo posto: va via e va dietro a me!

Imitazione significa realmente andar dietro, prendere la direzione che viene assegnata, anche se questa direzione è diametralmente opposta al proprio volere. Proprio perché è intesa in senso così letterale la parola può penetrare nella zona più intima e profonda dell’uomo.

Da qui si può già capire un po’ che si intende quando la chiamata dei discepoli, e con essa la natura dell’apostolo, viene descritta nei vangeli in forma stereotipa, con l’unica parola di Gesù: seguimi!

Questa è anzitutto l’esortazione ad abbandonare la professione precedente, ma, con più esattezza, è l’invito a lasciare se stesso per essere totalmente a disposizione di Colui che a sua volta volle esistere per la parola di Dio completamente e in misura così intensa che la riflessione posteriore potè riconoscere lui stesso come la Parola di Dio incarnata.

Nel corso della vita di Gesù questo contenuto dell’imitazione assume una forma ancora più concreta.

Il suo messaggio, nel quale egli presentò agli uomini l’intera grandezza della pretesa divina, ma anche tutta l’ampiezza della sua misericordia, lo aveva posto in conflitto con l’Israele ufficiale; egli venne espulso dalla sinagoga, la sua uccisione era ormai cosa decisa.

In questa situazione l’andare con Lui acquista un nuovo carattere, che ha trovato la sua ripercussione nella frase: se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua (Mc. 8,34).

Anche queste parole in origine hanno un significato molto realistico; chi si unisce a Gesù si mette in compagnia con un reietto, deve aspettarsi di venir condannato come Gesù e di terminare sulla croce. Partendo da tale idea la prima cristianità ha inteso per imitazione di Cristo il martirio ed ha guardato al martire come a colui che porta a compimento fino in fondo il significato dell’imitazione, quello di dare se stesso per la testimonianza della parola.

II. Forse la riflessione sulle origini, che abbiamo intrapreso, più che dare un efficace indirizzo ha, a prima vista, un effetto piuttosto demoralizzante. Il messaggio dell’imitazione sembra, in ogni caso, essersi allontanato ancor di più di quanto lo era già prima.

Infatti noi non abbiamo più alcuna possibilità di andar dietro all’uomo Gesù ed il martirio non ci appare più come il normale completamento dell’esistenza cristiana, di modo che anche l’orientamento alla disponibilità per il martirio conserva un carattere alquanto teoretico, a prescindere da tutti gli altri problemi che incontriamo in questo contesto.

Ma ad una osservazione più attenta si scopre ben presto che le forme storiche esterne, nelle quali l’imitazione di Gesù si realizzò in un primo tempo, non sono affatto decisive per essa. L’elemento decisivo è piuttosto l’interiore trasformazione dell’esistenza, ed è a questa che intendono portare le circostanze esterne. Questo cambiamento, in cui consiste il vero e proprio contenuto dell’imitazione di Cristo, ne esprime, allo stesso tempo, la possibilità di attuazione.

Abbiamo visto quanto già le primissime testimonianze siano chiare riguardo a questo processo interiore; il vangelo di S. Giovanni e la lettera dell’apostolo Paolo ne hanno tradotto compiutamente il significato nella situazione della chiesa dopo la partenza del Signore, nella nostra situazione.

Il termine imitazione si ripresenta entro la parabola del buon pastore, nella quale si trova la frase: «Quando ha menato fuori le sue pecore, cammina davanti ad esse, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce» (Gv. 10,4).

Imitazione vuol dire qui conoscere la voce di Gesù e seguirla, pur nella confusione delle voci con cui il mondo ci circonda.

In termini più chiari, imitazione significa affidarsi alla parola di Dio, porla al di sopra della legge del denaro e del pane, per farne regola di vita. In una parola, imitazione vuol dire fede, ma fede nel senso di una decisione senza riserve tra le due, e in fine dei conti soltanto due possibilità di vita dell’uomo, tra pane e parola. L’uomo non vive di solo pane, ma anche e innanzitutto della parola, dello spirito, del pensiero.

Si tratta tuttora dell’identica decisione che si presentò agli apostoli, quando fu loro detto: seguimi! Della decisione di puntare al guadagno o al profitto oppure alla verità ed all’amore; della decisione di vivere soltanto per sé oppure di dare se stessi.

Si chiarifica così cosa si intende per croce e martirio. Per comprenderlo basta leggere, in sostanza, la frase che in Marco segue all’invito a portare la croce. «Chi vuol salvare la sua vita la perderà, ma chi perderà la sua vita per causa mia e dell’evangelo la salverà» (Mc. 8,35).

Il vangelo di Giovanni ha commentato questa frase con il meraviglioso paragone del seme di frumento, che non può portare frutti in altro modo che cadendo per terra e morendo (Gv. 12,245).

Soltanto perdendo sé l’uomo può trovare se stesso; soltanto quando lascia se stesso, egli ritorna a sé.

Questo reale e decisivo martirio del vero perdere-se-stesso è e rimane la condizione fondamentale per l’imitazione di Cristo, anche nei periodi di comodità, nei quali il cristianesimo, protetto dalla benevolenza statale, potrebbe essere propenso a dimenticare l’ombra della croce.

E dobbiamo forse aggiungere ancora che l’imitazione di Cristo così intesa esprime la legge di fondo non solo dell’incarnazione di Dio, ma anche del divenir uomo dell’uomo?

Si tocca così un ultimo argomento. Diventa visibile il punto in cui si congiungono fede ed amore, che tanto spesso si sono contrapposti nella storia.

Nella lettera agli Efesini di san Paolo si trova la profonda: «Siate dunque imitatori di Dio… e camminate nella carità, come anche Cristo ha amato voi e ha dato se stesso per noi…» (Ef. 5,1 ).

Seguire Cristo vuol dire accettare l’intima essenza della croce, l’amore radicale che in essa si esprime, e così imitare Dio stesso, che si è svelato sulla croce come colui che riversa se stesso sugli altri.

Colui che abbandona la sua grandezza, per esistere a nostro favore. Colui che vuol governare il mondo non con potenza ma con amore e che rivela, nell’impotenza della croce, la sua forza, la quale agisce in forme completamente diverse da quelle della forza dei potenti di questo mondo. Seguire Cristo significa dunque entrare in quel perdere-se-stessi, che è la vera sostanza dell’amore.

Seguire Cristo significa diventare uno che ama come Dio ha amato. Per questo Paolo può proferire quella che sembra una mostruosità: seguire Cristo è imitare Dio, entrare nel movimento stesso di Dio. Dio è diventato uomo affinché gli uomini diventino simili-a-Dio.

Imitazione di Gesù, dopo tutto, non è altro che un incarnarsi dell’uomo nell’essere uomo di Dio.