Il nuovo allarme sulla Terra è lo sboom della popolazione. Nuove previsioni ridimensionano le preoccupazioni malthusiane, ma aprono a scenari di possibili tensioni, di Massimo Calvi
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Riprendiamo da Avvenire del 13/2/2019 un articolo di Massimo Calvi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Nord-Sud del mondo.
Il Centro culturale Gli scritti (17/2/2019)
Nei fumetti e nella fantasia i supereroi combattono sempre per difendere la popolazione e la Terra dai cattivi o dagli invasori. Nel film Avengers - Infinity War, uscito nel 2018, il conflitto tra il bene e il male riesce invece a suscitare nello spettatore qualche dubbio prima di stabilire che il Cattivo, l’orribile Thanos, stia veramente facendo la cosa sbagliata. La sua lotta contro i supereroi, infatti, è sostenuta da quello che decenni di malthusianesimo hanno contribuito a far apparire come un obiettivo sano e accettato: salvare il mondo dal sovrappopolamento. Quasi una “giusta causa”, insomma, se non fosse che il prezzo da pagare prevede di sterminare la metà degli abitanti della Terra, supereroi compresi.
La cosa interessante è il rapido decadimento di questa prospettiva, ben prima dell’uscita del sequel: oggi la grande emergenza planetaria non è più la crescita della popolazione mondiale, ma la sua implosione. Dopo anni di previsioni apocalittiche si sta facendo largo la convinzione che i calcoli vadano rifatti: probabilmente la Terra non raggiungerà nel 2100 quegli 11-13 miliardi di abitanti che l’Onu ha previsto come scenario estremo, ma per quella data si sarà già tornati al livello odierno di 7 miliardi e rotti, dopo un picco di 9 miliardi a metà percorso. Previsioni di questo tipo sono difficili da maneggiare. E anche per quanto riguarda gli effetti si può discutere a lungo: se c’è chi sostiene che più persone sul pianeta aumentano in modo drammatico la pressione sulle risorse disponibili è anche vero che più intelligenze all’opera possono individuare soluzioni innovative. Lo stesso problema del riscaldamento globale è più una questione di tecnologie e modelli di sviluppo che di numero di abitanti della Terra e di consumo di risorse.
Uno dei contributi più decisi al ribaltamento del modo in cui si è sempre guardato all’emergenza demografica planetaria si deve a un libro uscito da poco, Empty Planet-The shock of Global population decline di John Ibbitson e Darrell Bricker. Il passaggio dalla prospettiva di un mondo che esplode a quello di un 'pianeta vuoto' si deve in buona parte all’avanzamento più rapido del previsto dell’urbanizzazione, con gli effetti che questo ha sulla fecondità. Per la prima volta nella storia del genere umano, notano gli autori, nel 2007 più della metà degli abitanti del globo viveva ormai in città. Oggi la percentuale è già salita al 55% e tra un trentennio si prevede arrivi al 66%. La vita urbana, così come un maggiore tasso di sviluppo, tende a ridurre il numero di figli a causa dell’aumento degli anni di studio, dell’organizzazione del lavoro, delle esigenze economiche delle coppie, dei mutamenti culturali o anche di fattori come lo smog, lo stress e comportamenti che riducono la potenzialità riproduttiva.
La preoccupazione per gli effetti che avrà lo sboom demografico planetario è sempre più diffusa. Jorgen Randers, accademico norvegese noto per i suoi allarmi sul rischio di un’esplosione demografica, oggi ha cambiato radicalmente idea e sostiene che nel 2040 la popolazione arriverà a 'soli' 8 miliardi e poi incomincerà a declinare. A una conclusione simile giunge un rapporto della Deutsche Bank citato dagli stessi autori di Empty Planet. Lyman Stone, brillante demografo americano con visioni spesso controcorrente, sostiene che le preoccupazioni delle Nazioni Unite e di molte Ong attive nei programmi di salute riproduttiva circa l’insufficiente rallentamento demografico del continente africano sarebbero prive di fondamento alla luce degli indicatori di sviluppo di molti Paesi dell’area.
A detta di Wolgang Lutz, demografo austriaco, se il mondo occidentale in questi anni ha sviluppato un’ossessione per i tassi di fecondità africani è solo perché questi sono stati un po’ più alti del previsto a causa di un rallentamento temporaneo dei programmi di istruzione durante gli anni 90. L’educazione, insomma, l’avanzata dello sviluppo, l’urbanizzazione, sono i fattori più importanti nel ridefinire gli scenari demografici sulla Terra.
Il problema è che un mondo meno affollato di esseri umani non sarà necessariamente un mondo più pacifico.
Certo, si possono immaginare effetti positivi come la riduzione dell’inquinamento, una minore pressione sulle risorse o una riconquista della natura in territori che si spopolano. Ma è tutto da dimostrare, considerato che il maggiore contributo alle emissioni di Co2 arriva dai consumi delle persone più ricche, a prescindere dai Paesi in cui vivono.
Inoltre, c’è un altro lato della medaglia. Un altro libro che sta facendo discutere, The Human Tide - How Population Shaped the Modern World, di Paul Morland, mostra quanto le grandi pressioni demografiche hanno determinato la storia degli ultimi due secoli e continueranno a farlo. Una popolazione mondiale che invecchia andrà incontro a problemi di sostenibilità fiscale, previdenziale e sanitaria.
Se ci sono aree in cui un numero più elevato di giovani potrebbe risollevare le sorti di un Paese, come l’Italia o il Giappone, in altre meno stabili l’eccesso di giovani può essere un fattore di tensione. Inoltre, quali conseguenze potrà avere la frizione tra una popolazione urbana che cresce a fronte di territori rurali che si svuotano? Non serve la boccia di cristallo per capire cosa avviene quando la gente che vive in aree in declino demografico come l’Europa, o l’insieme dei Paesi sviluppati riuniti nell’Ocse, dove il numero medio di figli per donna è ampiamente sotto il tasso di sostituzione di 2,1, incrocia il suo destino con una popolazione molto più povera ma con tassi di fecondità assai più vivaci.
Il passaggio dalla dimensione globale a quella locale è doveroso. In Italiani poca gente (Ed. Luiss), il demografo Antonio Golini e il giornalista Marco Valerio Lo Prete equiparano il sistema economico e sociale italiano a «un acrobata in piedi su una corda sospesa in aria» agitato da «scompensi demografici sempre più gravosi che ren- dono difficilissimo rimanere in equilibrio».
Un’immagine non molto diversa da quella di un’Italia «sdraiata sul fondo come un sottomarino in avaria» usata dal forum dei demografi italiani, Neodemos.it, nel commentare i dati Istat sulla popolazione nel 2018.
Non è solo un problema di scompensi dello Stato sociale o di debito pubblico esplosivo. Golini ricorda a chi è disposto ad accettare passivamente l’idea che gli italiani possano anche scomparire, che «una popolazione non può essere vista soltanto come mero aggregato demografico, ma deve essere considerata anche come storia e cultura ». Molte delle manifestazioni più inquietanti di questa epoca, non a caso, possono essere efficacemente riassunte in quello che è definito il «circolo vizioso del liberalismo moderno»: Paesi ricchi con meno bambini manifestano il bisogno di immigrati per aumentare la forza lavoro, salvo trovarsi poi a dover fare i conti con spinte xenofobe.
In un altro prezioso saggio fresco di stampa, scritto ancora da due demografi, Letizia Mencarini e Daniele Vignali, Genitori cercasi (Egea), le ragioni che hanno costretto l’Italia nella «trappola demografica » in cui si trova sono ripercorse in modo puntuale fino alla condivisione delle ricette che le conoscenze mettono a disposizione.
L’aspetto inquietante non è solo il fatto che una popolazione con una fecondità come quella italiana di 1,3 figli per donna, senza immigrazione si dimezzerà nel giro di soli 48 anni, e che una fetta sempre più ampia di persone non sarà mai genitore. Il rischio sono l’inazione, il disinteresse della politica, quel laissez-faire che ha prodotto elevati dosi di «infelicità individuale e di coppia», costringendo le persone ad avere meno figli di quelli che desidererebbero.
Più vecchi, più soli, meno felici. Sicuri che andrà tutto bene? Le tensioni che prefigura una dinamica della popolazione segnata da grandi squilibri non sono più di tanto governabili, come suggerisce il libro di Morland, ma è quantomeno imbarazzante il contrasto che si registra tra il grido d’allarme corale dei demografi e il silenzio assordante di economisti e politici. Un mondo nel quale non nascono più bambini, dilaniato da tensioni xenofobe e conflitti armati è lo scenario inquietante descritto in un film del 2006, I figli degli uomini, di Alfonso Cuaròn. Non ci sono supereroi in questo caso, e la speranza è affidata ancora una volta a un vagito, a una nascita inattesa, a un piccolo profugo.