La parola più bella? Quel “ma” di Dante nella Commedia, di Roberto Contu
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Riprendiamo dal sito di Romasette un articolo di Roberto Contu pubblicato il 5/2/2019. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Educazione e scuola e Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (10/2/2019)
«Va bene prof, prendo il romanzo che ci ha suggerito in biblioteca, però deve rispondere a una mia domanda».
«Quale?» dico io un po’ sovrappensiero.
«Ci dica il libro più bello che lei ha mai letto».
Mi volto e guardo il mio studente: «Allora – rispondo – questa non è una domanda facile anche se lo sembrerebbe. Non si tratta di un solo libro, non potrebbe essere sempre lo stesso libro, sai, crescendo si cambia. Però ti posso dire una cosa con certezza, quella sì».
«E quale prof?»
«Posso dirti con certezza quella che, da quando l’ho letta per la prima volta proprio alla tua età, mi è sembrata essere la parola più bella di tutte. Oggi, dopo tanti anni, dico la più bella parola della letteratura di tutti i tempi».
Lui mi guarda e poi accenna un sorriso: «Non mi dica che è quella che ci ha spiegato all’inizio dell’anno, che è quella… come si dice? Ah sì, la congiunzione avversativa, il ma del primo canto di Dante insomma».
«Bravissimo» rispondo io e poi, con voce un po’ pedante: «Tant’è amara che poco è più morte; / ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, / dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte».
Lui mi guarda e il sorriso si allarga ma suona la campanella della ricreazione, il mio studente scatta in piedi, afferra la pizzetta da sotto il banco e mi saluta. Io rimango seduto sulla cattedra, faccio finta di compilare il registro, so che è una scusa per continuare a pensare alla bellezza inattesa di quel momento purtroppo già passato.
Sì, gliela raccontai proprio così all’inizio dell’anno quella parola, quella congiunzione avversativa, quel ma che apre, più del primo celebre verso, alla meraviglia della Commedia. Una congiunzione avversativa scritta oltre settecento anni fa da Dante, da chi, nel buio di una selva personale che poi avrebbe per sempre raccontato il buio delle nostre selve, un passo dopo oppose una sillaba che avrebbe fondato un universo, una cultura, due lettere che rimbombano fino a oggi e che ci seppelliscono ancora nel nostro pavido e striminzito non sapere più dirlo, scriverlo, insegnarlo quel gigantesco ma.
Per un attimo penso che forse avrei dovuto ripeterglielo al mio studente il coraggio di Dante di dirci che c’è il bene, certo che c’è, e che c’è proprio perché c’è la selva, e che il bene è possibile ogni volta che un uomo sulla terra riesce a dire quel «ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai», ogni volta che osa la rivoluzione del non fermarsi al buio, del raccontare la luce che c’è in fondo a quella strada verso il basso che a volte è proprio necessario, pur con grandi fatiche, percorrere. Ma io credo lui abbia capito, certo che ha capito.
Ma la tengo stretta quella sillaba, solo una sillaba, anche questa mattina, anche in quel breve scambio tra me e il mio studente, nel pensiero che ora che sto scrivendo sento di portare ancora dentro, dopo essermi alzato da quella sedia o forse proprio dal primo momento in cui sono entrato in una classe, un pensiero che mi ripete che se con il mio lavoro e la mia presenza riuscissi giusto a fargli comprendere che è vero, c’è un bene da trovare, non solo avrei fatto fino in fondo il mio mestiere, ma ben di più, gli avrei lasciato in dote la possibilità di diventare un uomo.