1/ ONU - I migranti morti nel Sahara sono probabilmente il doppio del totale delle vittime del Mediterraneo, di Tom Miles e Stephanie Nebehay 2/ Il cimitero di sabbia. Questa è la rotta del deserto che i migranti subsahariani devono affrontare prima di attraversare il Mediterraneo. I trafficanti controllano un itinerario che ogni anno costa migliaia di vite, di Nacho Carretero 3/ Il Sahara e le sue tombe invisibili di sabbia, di Helena Maleno
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1/ ONU - I migranti morti nel Sahara sono probabilmente il doppio del totale delle vittime del Mediterraneo, di Tom Miles e Stephanie Nebehay
Riprendiamo dal sito meltingpot.org (https://www.meltingpot.org/ONU-I-migranti-morti-nel-Sahara-sono-probabilmente-il.html#.XEN8QWl7nIU) la traduzione a cura di Livio D’Alessio di un articolo di Tom Miles, e Stephanie Nebehay pubblicato dall’agenzia di stampa Reuters il 12/10/2017 (Qui il Link all’articolo originale (ENG)). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione.
Il Centro culturale Gli scritti (20/1/2019)
Ginevra (Reuters) - I migranti che dall’Africa Occidentale cercano di raggiungere l’Europa stanno morendo nel Sahara in un numero molto maggiore rispetto a quanti perdono la vita nel Mediterraneo. Tuttavia, gli sforzi tesi a dissuaderli dal mettersi in viaggio potrebbero causare l’apertura di nuove rotte, stando a quanto riferito dall’Agenzia Onu per le Migrazioni questo giovedì.
Fino ad ora, quest’anno, in mare hanno perso la vita 2.569 persone, mentre oltre 107.000, in maggioranza africani occidentali, hanno raggiunto l’Italia. “Ancora non disponiamo di una stima del numero dei morti nel deserto” ha rivelato in conferenza stampa tenutasi a Ginevra Richard Danziger, direttore dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni per l’Africa centro-occidentale.
“Supponiamo, come abbiamo già detto in passato, che i morti siano almeno il doppio di quelli registrati nel Mediterraneo. Tuttavia non siamo in possesso di alcuna evidenza che lo attesti, è solo una supposizione. Semplicemente, non lo sappiamo con certezza“.
In Niger, una delle principali rotte, le autorità locali stanno creando continui ostacoli ai trafficanti di esseri umani, il che potrebbe renderli ancora più inclini ad abbandonare i migranti nel mezzo del deserto, afferma.
Molti migranti hanno raccontato delle morti nel deserto, e alcuni hanno riferito che i trafficanti erano convinti che guidando più velocemente attraverso i campi minati sarebbero stati al sicuro, afferma Giuseppe Loprete, responsabile dell’OIM per la missione in Niger.
Egli riferisce, inoltre, che a seguito della decisa azione del governo - volta a far chiudere i “ghetti” e ad arrestare i trafficanti - il numero dei migranti che attraversano il Niger è diminuito sensibilmente.
L’IOM ha cercato inoltre di diffondere lo slogan “Tu non vuoi essere catturato in Libia”, afferma Danziger.
“Ciò che accade in Libia, le storie di orrore che racconta chi torna indietro, spaventa le persone molto più della morte”.
Molti trafficanti non si considerano criminali. Spesso si tratta di ex-guide del deserto in cerca di denaro. In tanti hanno rinunciato, mentre la criminalità organizzata che ha contatti in Libia continua ad operare, sostiene Loprete.
“In questo momento stanno cercando di trovare delle rotte alternative, altrettanto pericolose”, aggiunge. “Quando tappi un buco, altri sono destinati ad aprirsi”, afferma Danziger.
Dal Niger partono due rotte per la Libia: una più vicina al Ciad, abitualmente usata dai trafficanti di esseri umani; l’altra, nelle immediate vicinanze del confine algerino, molto più pericolosa poiché battuta da gruppi estremisti e utilizzata per il traffico di droga ed armi.
Un’alternativa è costituita da un passaggio nel Mali settentrionale, una regione tormentata da conflitti tribali, tuttavia lì non sembrano essersi registrati degli aumenti nei flussi migratori, asserisce Danziger.
La rotta considerata più sicura è quella che corre lungo la costa occidentale dell’Africa, attraverso Senegal, Mauritania e Marocco, fino allo Stretto di Gibilterra, in cui non a caso il flusso migratorio è aumentato, ha aggiunto.
2/ Il cimitero di sabbia. Questa è la rotta del deserto che i migranti subsahariani devono affrontare prima di attraversare il Mediterraneo. I trafficanti controllano un itinerario che ogni anno costa migliaia di vite, di Nacho Carretero
Riprendiamo dal sito meltingpot.org (https://www.meltingpot.org/Il-cimitero-di-sabbia.html#.XEN6m2l7nIU) la traduzione a cura di Anna Latino e Angela Ciavolella di un articolo di Nacho Carretero pubblicato su El País del 3 luglio 2017 (Qui il Link all’articolo originale (ESP)). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Immigrazione, accoglienza e integrazione.
Il Centro culturale Gli scritti (20/1/2019)
Agadez (Níger) - 3 luglio 2017
Kawal, che non vuole rivelare il suo vero nome, ogni settimana attraversa il deserto del Sahara al volante di un furgone bianco marcato Toyota. Nella parte posteriore del veicolo trasporta solitamente tra le 25 e le 27 persone. A volte 30. Quasi sempre uomini. Sempre migranti provenienti da Gambia, Senegal o Nigeria che vogliono raggiungere la Libia e attraversare il Mediterraneo, diretti in Europa.
“Il viaggio dura 3 o 4 giorni. Dipende se ci si ferma o meno”, dice Kawal. “Io non mi fermo mai. Guido per tre giorni e tre notti di fila bevendo caffè e tè. Vado molto veloce. E questo è pericoloso perché ci sono dune, buche e dossi. Molti furgoni hanno incidenti o avarie a causa della velocità elevata”.
Kawal, piede a fondo sul pedale, attraversa la sabbia ammassata e il terreno sconnesso munito di GPS e bussola. Parte dalla città nigerina di Agadez, situata nel mezzo del deserto al centro del Niger, enclave cruciale del flusso migratorio.
Agadez è la città nella quale si ritrovano tutti i migranti che vogliono andare in Libia e poi raggiungere l’Europa. Le strade e gli angoli di questa città di mattoni, terra e polvere pullulano di giovani provenienti da diversi paesi, tutti in attesa di compiere il passo. Si riversano nei cosiddetti ghetti, ammassi di baracche malmesse appena fuori città, luoghi gestiti da trafficanti che, all’occorrenza, non esitano a sfruttare gli uomini per i lavori forzati e a fare delle donne delle prostitute. La porta d’accesso verso una vita migliore assume la forma di un incubo.
La meta di Kawal è la città libica di Sabha, dove consegna i migranti ad altri trafficanti. “Non c’è un percorso segnato, né un tracciato definito. Ci sono tratti in cui vedi solo sabbia, fino all’orizzonte. È come un mare, come un oceano. Tutto uguale. È impossibile orientarsi”.
Il dramma sta proprio nella facilità con cui ci si perde. “Basta scostarsi di pochi chilometri dalla rotta per perdere l’orientamento”, dice Kawal, seduto all’ingresso della sua casa, una precaria baracca di argilla col pavimento in terra battuta. “Se giri appena il volante ti allontani dalla rotta che devi seguire e ti addentri nel deserto. E se questo succede, è finita. Sei morto”.
Quest’anno due conducenti della stessa organizzazione di trafficanti di Kawal sono morti nel deserto. Ciascuno trasportava nel proprio veicolo una trentina di migranti. “Portiamo con noi l’acqua necessaria per tre giorni. Se ti perdi, resti senza niente. Questo è ciò che è accaduto a loro”. Hanno ritrovato i corpi di uno solo dei due furgoni. L’altro è tuttora da qualche parte, lì nel deserto.
Photo credit: Alfons Rodríguez
La stessa cosa succede se hai un’avaria. O un incidente. In questo viaggio, qualsiasi imprevisto comporta il rimanere bloccati nel bel mezzo del nulla. “In ogni viaggio incrocio furgoni fermi. Alcuni sono circondati da cadaveri. Altri, da gente che chiede aiuto urlando. Ma non puoi fermarti. Cosa potresti fare? Il mio furgone è già pieno fino al limite”.
È un percorso sul filo del rasoio. Per questo Kawal non si ferma. Mai. Quando finalmente arriva nella città libica di Sabha - il traguardo finale - fa l’inventario dei danni: qualche migrante morto, altri disidratati e il rimorchio pieno di urina ed escrementi. Per un viaggio così, i migranti sborsano circa 400 euro.
La rotta che resiste
Da qualche anno, la rotta mediterranea centrale - che collega Agadez alla Libia - si è consolidata come la più trafficata fra quelle che portano i subsahariani a tentare di attraversare il Mediterraneo. Anni addietro i trafficanti controllavano diverse tratte (Mauritania, Algeria, Melilla…), ma l’instabilità in Libia – paese in conflitto dalla caduta di Gheddafi, nel 2011 - ha fatto sì che questo tragitto divenisse il più accessibile e redditizio.
Ad oggi la Libia è un paese ridotto in frantumi. Vi operano circa 1.700 milizie, già dal periodo immediatamente successivo alla caduta di Gheddafi. Ogni villaggio e ogni città in Libia è sotto il controllo di un gruppo armato distinto. Tra i vari gruppi, le relazioni si basano su clan, etnie e tribù. Gli scontri sono frequenti, e costruire un’autorità centrale che possa coordinare il funzionamento del paese e giungere ad accordi con l’Unione Europea (UE) pare, al giorno d’oggi, impossibile. In questo caos, i trafficanti di esseri umani possono muoversi liberamente, senza alcun problema. Basta scendere a patti con i gruppi giusti. La legge non esiste.
L’impunità è totale, per tutto il tragitto. Durante il transito o nella loro permanenza in Libia, migliaia di migranti vengono sequestrati, malmenati, assassinati, perfino schiavizzati. Chi vi passa mette la propria vita in balia della sorte.
Quest’assenza totale di controllo fa sì che la rotta libica sia la più economica per i migranti. Passare dall’Algeria è più sicuro, ma anche molto più complicato a causa dei controlli di polizia. E quindi più dispendioso. “Quelli che pagano il viaggio attraverso l’Algeria solitamente sono donne con bimbi piccoli. Non sono disposte a rischiare tanto come gli uomini in Libia, così preferiscono pagare di più”, dice Giuseppe Loprete, capomissione dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM).
La conseguenza è che il deserto, da qualche anno, è diventato un corridoio di cadaveri. “I media parlano tanto dei morti nel Mediterraneo, ma io credo che siano morti più migranti nel deserto”. Lo spiega un operatore dell’OIM. Molti di questi cadaveri non verranno mai ritrovati. Li inghiotte il deserto, la cui collezione di cadaveri va crescendo. Non esistono cifre ufficiali, come d’altro canto non esistono per il Mediterraneo. Ma l’operatore dell’OIM non ha dubbi. “Migliaia. Di sicuro. Diverse migliaia…”.
Photo credit: Alfons Rodríguez
Quattro giorni fa 52 migranti sono stati ritrovati morti nel deserto. Altri 25 sono stati salvati dall’OIM mentre vagavano disidratati tra le dune. Non bevevano da quattro giorni. Nel complesso, secondo i dati dell’OIM Nazioni Unite, solo da aprile sono state recuperate nel deserto in stato agonizzante 900 persone. E si succedono le notizie di ulteriori ritrovamenti.
Dall’inizio dell’anno la stessa Agenzia ha registrato quasi 23.000 persone mentre attraversavano il deserto dirette in Libia e 51.000 che tentavano il percorso inverso: fuggivano di nuovo. Nel 2016, il numero di persone che hanno attraversato il deserto verso l’Europa è stato, sempre secondo l’OIM, di 333.891, mentre 111.230 persone sono tornate sui loro passi.
“Non facciamo nulla di male”
Mohamed è il nome fittizio del capo di un’organizzazione di trafficanti di esseri umani. Ci risponde nella terrazza di un piccolo albergo in mattoni di Agadez. Ha il viso coperto e porta una spada sotto la camicia, tipico dei tuareg. Prima di mettersi a fare il trafficante, Mohamed si occupava di turismo. “Nel 2003 nessuno pensava che i migranti potessero fruttare denaro, così fummo in pochi a buttarci in questo tipo di attività”. Anni dopo sono in migliaia, nei dintorni di Agadez, ad occuparsi del business della migrazione.
Mohamed iniziò come autista, portando alcuni subsahariani in Libia. Molto presto riuscì ad acquistare diversi mezzi e assunse altri autisti. Nel suo periodo migliore arrivò a guadagnare 10.000 euro al mese.
Mohamed ci spiega che, attualmente, sono sei le organizzazioni di trafficanti che gestiscono la rotta centrale dal Níger alla Libia. Tutte le organizzazioni sono dell’etnia tubu o tuareg, e non c’è troppa rivalità tra loro. Sembra ci siano affari per tutti. Alcune, tra queste organizzazioni, trafficano anche in droga e armi. Mohamed racconta che proprio qualche giorno fa hanno arrestato un tale conosciuto come Bashir, il più potente tra i trafficanti. “Oltre alle persone, in Europa portava cocaina”.
“Abbiamo gente dei nostri in ogni paese d’origine. Mi chiamano dalla Costa d’Avorio dicendomi: ‘ti mandiamo sei ragazzi’. Li preleviamo a Niamey (capitale del Niger, n.d.t.), li portiamo ad Agadez e, quando ci pagano, li portiamo in Libia. Là li consegniamo ad altra gente dell’organizzazione, che li porta a Tripoli affinché possano attraversare il Mediterraneo. È tutto coordinato e organizzato”. Complessivamente, il migrante paga all’organizzazione circa 4.000 o 5.000 euro.
Solo per arrivare fino in Libia l’organizzazione di Mohamed incassa 458 euro. Mohamed traccia su un quaderno la rotta seguita dai suoi autisti, indicando gli 11 punti di approvvigionamento d’acqua esistenti lungo il percorso. In tre di essi ci sono controlli militari o di polizia, quindi bisogna evitarli oppure corrompere gli agenti. Al momento ha sei autisti operativi, altri due sono in carcere e un altro è morto qualche mese fa dopo essersi perso lungo il tragitto. Assieme a lui, i migranti che trasportava.
È tutto talmente organizzato e definito che perfino la stessa OIM ha collocato, lungo la rotta, dei cartelli che indicano telefoni di emergenza affinché, in caso di avaria o nel caso in cui si siano persi, i migranti possano chiamare i soccorsi.
Kawal, l’autista dell’altra organizzazione, spiega “ciò che più mi fa paura sono i banditi. Gli assalti e i sequestri sono frequenti. Soprattutto una volta entrati in territorio libico”.
Ebraima Sambou è nato in Gambia 37 anni fa. Nel maggio 2015 ha attraversato il deserto fino alla Libia. “In una delle notti del viaggio un ragazzo chiese all’autista di fermarsi perché aveva problemi di stomaco. L’autista frenò e iniziò a picchiarlo. Lo massacrò solo per averlo chiesto. Così i trafficanti trattano i migranti. Ci vedono come una merce”. Ebraima fece quel viaggio assieme ad altri 29 migranti. “Eravamo stipati, stavamo molto scomodi. Faceva caldissimo e patimmo molto la sete. Vedevamo i morti lungo la strada. Vedevamo anche gente che chiedeva aiuto. Eravamo nelle mani di Dio…”.
Diversa è l’opinione di Kawal. “Noi non facciamo nulla di male. Io porto i migranti in Libia, nessuno li obbliga. Quello che gli capita lì non è colpa mia. Prima trasportavo barili, ora persone. Devo lavorare e fare soldi”.
Il business più importante della regione
Nel novembre del 2015, diversi paesi africani hanno concordato con la UE un Fondo Fiduciario di Emergenza finalizzato a ridurre il flusso migratorio verso l’Europa. Oltre 2.800 milioni di euro, ai quali nel settembre 2016 hanno fatto seguito ulteriori 3.350 milioni e una legge sul controllo delle rotte in Níger. La Francia ha inviato il proprio esercito affinché addestrasse i soldati e i poliziotti nigerini. L’obiettivo ultimo era quello di contenere le migliaia di persone che ogni settimana si avviavano verso la Libia dalla città nigerina di Agadez.
Gli accordi hanno modificato il quadro: ora ci sono controlli militari, e i trafficanti non caricano più i propri pick-up nella piazza centrale della città e in pieno giorno. Ciononostante, fatta la legge…
Agadez è una città decaduta. È ormai da anni che i turisti hanno smesso di visitarla, nonostante la sua storica moschea in mattoni. Le strade sono piene di spazzatura. La sabbia riempie tutti gli angoli. L’aria è incandescente, la pelle si secca fino a ferirsi. L’elettricità va e viene, a seconda dei giorni. I bambini dividono gli spazi di gioco con capre e cammelli, che pascolano nonostante i 43 gradi che si toccano nel mese di giugno. Tutt’intorno alla città si estende il deserto, immenso. L’orizzonte sfuma, come fosse liquefatto. La polvere si innalza infilandosi negli occhi.
Lungo una delle vie che escono da Agadez c’è un check-point della polizia che cede il passo al deserto. Si tratta di una sudicia baracca di legno nella quale gli agenti trascorrono le ore distesi a bere tè. Una catena sottile, sorretta da due fusti, si staglia nel mezzo dell’enorme deserto. Basta camminare 10 metri più in là e si passa senza il benché minimo inconveniente. E, infatti, i trafficanti attualmente usano un altro tracciato, che passa ad appena due chilometri dal casotto della polizia. “Loro, gli agenti, sanno perfettamente quali sono le nuove rotte. Ma se ne fregano”, dice Mohamed, il trafficante. A dire il vero tutti ad Agadez sanno quali sono le rotte.
L’unico cambiamento che gli investimenti europei hanno prodotto è che ora, di tanto in tanto, i militari sparano contro i migranti se li incontrano nel deserto. Questo, a volte, obbliga gli autisti a rischiare più del dovuto, su strade sempre più pericolose e a velocità sempre più elevate. Il risultato: più morti.
“Nulla è cambiato e nulla cambierà finché l’unica cosa investita contro la migrazione sarà il denaro”. Parla Rhissa Feltou, primo cittadino di Agadez. “Questa città vive da anni sulla migrazione, è fondamentale per la nostra economia. Migliaia di persone dipendono da quest’attività. Se non viene fornito un mercato alternativo, nessuno rinuncerà a quest’attività”.
La carenza di informazione è l’altro grande nemico. La stragrande maggioranza dei migranti crede che il viaggio verso l’Italia dal proprio paese consista in un tragitto di quattro giorni in macchina, per poi attraversare un fiume. “I migranti non sanno cos’è la Libia, non hanno idea di quello che sta succedendo lì”, dice Giuseppe Loprete, dell’OIM. “I paesi di origine dovrebbero fornire informazioni tramite le radio e le televisioni. Dovrebbero cercare di smontare queste menzogne”.
La ciliegina sulla torta di questo triste scenario è il flusso di ritorno. Da circa un anno migliaia di migranti detenuti in Libia stanno fuggendo, e cercano di rientrare nei propri paesi d’origine. Attualmente Agadez è una città di arrivi e partenze. Di sogni intatti e sogni infranti. L’autostrada del deserto continua a funzionare a pieno regime, tanto all’andata, quanto al ritorno. E continua a collezionare cadaveri.
3/ Il Sahara e le sue tombe invisibili di sabbia, di Helena Maleno
Riprendiamo dal sito meltingpot.org (https://www.meltingpot.org/Il-Sahara-e-le-sue-tombe-invisibili-di-sabbia.html#.XEN7vWl7nIU) la traduzione a cura di Alessandro Bugari di un articolo di Helena Maleno pubblicato su Saltamos.net del 16 febbraio 2017 (qui il Link all’articolo originale (ESP)). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Nord-sud del mondo.
Il Centro culturale Gli scritti (20/1/2019)
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I social network si sono trasformati nello strumento utilizzato dai migranti per avvisare dei pericoli delle rotte migratorie che attraversano il Sahara. Facebook si riempie di video e foto di cadaveri nel deserto e si trasforma in una piattaforma per il racconto, censurato in Europa, di una delle più grandi fosse comuni del mondo.
Attraverso queste comunicazioni le diverse comunità di migranti cercano di evitare le tragedie, giacché nel Sahara non esistono operazioni internazionali di soccorso né protezioni a delle possibili violazioni di diritti. In questo immenso deserto i migranti sono inermi davanti ai controlli migratori, fortemente militarizzati, dai trafficanti.
Tutto questo si mescola con l’instabilità della regione attraversata da conflitti bellici, come quello del Mali e della Libia, e la presenza di gruppi armati come Al Qaeda nel Magreb islamico o Boko Haram.
Secondo la OIM, 100mila migranti hanno attraversato il Sahara nel 2015, ma è impossibile fare una stima di quanti sono morti prima di arrivare al Mediterraneo. Anche se tra i racconti delle comunità migranti, il Sahara è il punto dove comincia l’inferno per le rotte migratorie, e dove molte persone hanno perso compagni di viaggio durante il tragitto.
“Le violenze sono inaudite nel deserto, ma sei alla loro mercé, non c’è scappatoia. Molte macchine si guastano perché vecchie e sovraccariche".
Anche i trafficanti ti abbandonano, e se riprendi il cammino da solo le tormente di sabbia possono farti perdere la via. Quindi, in pieno deserto, con più di 45 gradi, il calore e la sete fanno il resto del lavoro”, dichiara Pat, camerunense, che ha visto morire 19 compagni quando furono abbandonati dai loro trafficanti.
Gao, in Mali, è un altro dei punti chiave per attraversare il deserto verso Tamarasset, prima destinazione in Algeria. “In ogni città devi pagare, non sai nemmeno a chi paghi, i trafficanti si uniscono ai terroristi e ai ribelli tuareg. Se dici che non hai soldi ti derubano o ti sequestrano per chiedere un riscatto alla tua famiglia”, spiega Keita, che lasciò il suo paese sapendo di una guerra a nord del Mali.
È quasi impossibile per i migranti distinguere i trafficanti dai ribelli tuareg e dai gruppi legati ad Al Qaeda nel Magreb islamico. Sanno solo che in queste rotte alternative è pieno di armi e di pericoli.
Spostarsi da una città all’altra nel passaggio dal Mali all’Algeria può costare dai 10mila ai 40mila franchi, variabili a seconda del rapporto domanda/offerta. Il viaggio si fa dentro un camion, ma anche così le persone sono ammassate, sedute l’una sopra l’altra. In un camion possono entrare massimo 20 persone, oltre la merce, che può essere di armi, droga, cibo degli aiuti umanitari internazionali che diventano parte del traffico illegale.
Le comunità di migranti dicono che la zona è molto pericolosa, soprattutto per le donne che vengono violentate in maniera sistematica, ma anche sequestrate per diventare schiave sessuali all’interno dei traffici. Le famiglie del Mali denunciano anche il reclutamento di adolescenti e bambini che passano per questa rotta, per usarli come bambini soldato.
“Quando dici che non hai soldi cercano ovunque, anche nell’ano e alle donne nella vagina. Durante il viaggio in pieno deserto si possono subire imboscate da parte di ribelli o terroristi e questo suppone consegnare meno denaro”, dichiara Mamà Naoufel, guineana, incinta per un abuso sessuale nel deserto.
Un’altra delle rotte per arrivare in Algeria comincia a Kano, città della Nigeria, dove la maggior parte dei migranti decidono di andare fino in Libia o continuare fino al Marocco.
Se la scelta è stata il Marocco si deve arrivare fino Arlit, in Nigeria, dove si organizzano i viaggi fino alla frontiera con l’Algeria. La tratta non è molto lunga ma l’uso di sentieri alternativi per scappare dai controlli fanno sì che i viaggi durino di più.
In questa città i migranti vivono in quelli che chiamano ghetti, e da lì, aspettano la notte per attraversare il deserto.
“Da Arlit attraversiamo il deserto per arrivare a Tamanrasset. La maggior parte dei trafficanti sono tuareg. E Mustapha, il tuareg con il quale viaggiavamo, ci ha mandato di notte a comprare delle taniche d’acqua, le donne dovevano comprare anche dei burka per coprirsi. Alle quattro del mattino ci hanno fatto uscire dal ghetto, ognuno con la sua tanica d’acqua. Ma, come succede molte volte, la macchina si ruppe, le ruote si bucarono, la sistemarono, ma a 30 km dalla città più vicina, in pieno deserto, ci abbandonarono dicendo che un’altra macchina sarebbe venuta a prenderci. Abbiamo iniziato a camminare e finalmente abbiamo incontrato una macchina che ci ha portato fino al ghetto di Tamarasset”.
Nel 2016 vennero trovati 34 corpi su questa tratta vicino alla città di Assamaka. Le autorità pensano che siano stati abbandonati dai trafficanti e che una tormenta di sabbia impedì loro di ritrovare il cammino. Tra i cadaveri furono trovati 20 bambini che erano morti di sete.
La rotta del deserto più battuta oggi è quella che attraversa il Niger per arrivare alla Libia. L’instabilità di paesi come Mali, Algeria e Nigeria ha fatto sì che ci sia stato un aumento di persone su questa rotta, anche se condiziona le promesse di un viaggio rapido verso l’Italia.
Da Agadez, in Niger, i migranti negoziano la tratta che li porterà a nord-est. Uno dei punti di passaggio è Dirkou, dove nei dintorni sono stati trovati più di 80 cadaveri negli ultimi due anni. I corpi di 30 persone furono trovati vicino ad un veicolo che si era rotto, nessuno fece nulla per aiutarli e salvargli la vita.
Il Niger è uno dei paesi più poveri del mondo, e pensare a delle operazioni di soccorso per cercare migranti è quasi un sogno.
Alcune persone hanno attraversato il deserto due volte, e nell’ultimo anno e mezzo, i migranti che si trovavano in Marocco e in Algeria hanno tentato di nuovo la fortuna per arrivare fino a Tripoli con l’opportunità di attraversare l’Italia.
“Passare dalla Libia è molto più economico e facile anche se più pericoloso. È impossibile spiegare a parole la sofferenza. La vita non ha valore. Ho visto violentare donne in branco e poi essere sgozzate. Ma quando non puoi tornare indietro è vivere o morire”, spiega Osas, nigeriano che è rimasto tre anni in Marocco prima di attraversare la Libia fino l’Italia.
La comunità nigeriana calcola che più di 10 mila persone sono partite nel 2016 dal Marocco per tentare la fortuna nella rotta libica. Molti di quelli che hanno preso questa decisione dicono che è più facile arrivare in Italia e che i prezzi del viaggio sono molto più bassi.
“In Libia, i trafficanti, in realtà, fanno parte delle autorità libiche e dei ribelli, abbassano i prezzi ma spostano masse di migranti come se fosse bestiame”, dichiara Pasteur P., leader comunitario nigeriano.
Il cammino fa sì che le persone che si trovano in Marocco attraversino per la frontiera di Oujda, fino Oran e Algeri e da lì fino a Ghardaia, sempre in Algeria. È in questa città che si organizzano molti di questi viaggi, si può anche pagare il prezzo del tragitto con l’imbarcazione inclusa.
“Arrivi a Ghardaia e ti prendono 500 euro promettendoti che all’arrivo a Tripoli, in meno di un mese attraverserai il Mediterraneo. Ti senti felice, ma la tratta fino alla frontiera libica è orribile, e la Libia è peggio dell’inferno. Se potessi disegnare l’inferno sarebbe quello che ho visto in questo paese”, descrive Mohammed, maliano, che perse suo fratello di 14 anni in un naufragio cercando di arrivare in Italia.
"I luoghi dove sopravvivono i migranti, ammassati e sequestrati, vengono chiamati “madrigueras” (tane)"
In Libia non ci sono nemmeno i ghetti, come in altre città della rotta migratoria. I luoghi dove sopravvivono i migranti, ammassati e sequestrati, vengono chiamati “madrigueras” (tane), perché la maggior parte di questi rifugi si trovano nel sottosuolo e anche perché è una forma per identificare dei migranti come animali.
In un video delle forze speciali libiche diffuso su Facebook si vede come entrano in una di queste tane, e uno dei militari dice: “Guarda qua: c’è prostituzione, droga, immigrazione illegale... guarda quanta gente! Ci sono persone che lavorano con questo, si arricchiscono senza che gli importi del nostro paese e senza pensare che queste persone qua possono commettere crimini, prostituirsi e vendere droga”.
Così, le comunità di migranti che stanno in Libia sopravvivono tra la criminalizzazione e l’essersi trasformati in una delle mercanzie più redditizie del paese.
“I capi dei trafficanti sono i ribelli e il governo. Non c’è differenza tra le tane e il carcere libico del governo. I sequestri sono di routine, anche per uscire da un carcere del governo la famiglia deve pagare. Quelli che non possono pagare muoiono o vengono usati come merce per il traffico di organi”, spiega Fabrice, camerunense, il cui amico sta da un anno in un centro di detenzione libico perché la sua famiglia non può pagare i carcerieri.
Famiglie camerunensi o nigeriane dichiarano di aver pagato tra i 500 e i 1000 euro per la libertà dei propri figli, a volte sequestrati dai trafficanti o altre volte rinchiusi nei centri di detenzione per migranti.
Sono i familiari che cercano i loro parenti scomparsi nel deserto, e che formano parte della rete d’emergenza che si diffonde nei social network.
“Uso Facebook per diffondere immagini di sequestri e morti nel deserto, anche dei naufragi. Moriamo come animali e almeno questo è un modo, non per scoraggiare, ma per poter prendere precauzioni e proteggerci, visto che nessuno ci protegge”, afferma Yannick, camerunense, ora in una “madriguera” a Tripoli.