1/ «La fondazione del Partito Popolare l'avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo», ha scritto Chabod. Quale l’apporto del nuovo partito di Sturzo al Paese, prima ancora che al cattolicesimo italiano?, di Andrea Lonardo 2/ Cento anni fa. La nascita del Partito Popolare: laico perché cristiano, di Marco Roncalli 3/ La lezione di Sturzo, non solo i cattolici, di Flavio Felice
- Tag usati: don_luigi_sturzo, federico_chabod, flavio_felice, partito_popolare, scritti_andrea_lonardo
- Segnala questo articolo:
1/ «La fondazione del Partito Popolare l'avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo», ha scritto Chabod. Quale l’apporto del nuovo partito di Sturzo al Paese, prima ancora che al cattolicesimo italiano?, di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una breve riflessione di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Il novecento: il primo dopoguerra.
Il Centro culturale Gli scritti (20/1/2019)
La targa presso l'albergo Santa Chiara di Roma
che ricorda la nascita del Partito Popolare
fondato da don Luigi Sturzo
L’ottica ristretta di taluni commentatori si limita a cogliere il contributo offerto da Sturzo al cattolicesimo e trascura invece il fatto ben più significativo del suo apporto decisivo alla storia dell’Italia intera, svilendo così la sua stessa figura e relegandola in ambito confessionale.
De Luca (cfr. Liberali, comunisti, cattolici... I partiti e la storia della democrazia in Italia dal 1919 al 2008, di Stefano De Luca; De Luca è docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università Federico II di Napoli), invece, ha scritto che per la nascita della democrazia italiana fu decisivo il contributo dei cattolici, perché delle tre forze allora più significative, i liberali avevano una cultura democratica, ma non un radicamento nelle masse, i socialisti avevano sì un radicamento popolare, ma non una cultura democratica poiché tendevano allora alla dittatura del proletariato, mentre solo il Partito popolare aveva sia una cultura democratica sia un radicamento nelle masse.
Ciò che è vero del primo dopoguerra fu decisivo anche nel secondo: senza la Democrazia Cristiana di De Gasperi, non sarebbe mai potuta sorgere la Repubblica Italiana, poiché fu proprio quel contributo a permettere il saldo ancoraggio del Paese ad un clima democratico.
Certo è anche che nel 1919, con le prime elezioni che seguono alla I guerra mondiale, ebbe termine una democrazia strettamente “parlamentare” ed iniziò quella dei “partiti”. Infatti, fino ad allora, tutto era stato deciso in Parlamento, dove sedevano i maggiorenti del Paese, spesso non pienamente radicati nel tessuto sociale italiano.
Con l’avvento invece del suffragio universale, anche se ancora solo maschile, e la conseguente ascesa dei partiti (soprattutto quello Socialista, poi quello Comunista scissionista dai socialisti e, infine quello Popolare) i deputati eletti risponderanno da quel momento in poi al loro partito e al programma elettorale elaborato in sede partitica. I parlamentari, da allora, non saranno più semplicemente singole individualità, bensì saranno inclusi in un partito guidato dal suo segretario politico: la figura dei diversi segretari di partito diverrà la figura determinante della politica.
Interessante è che proprio Giolitti si scagliò allora contro Sturzo per il fatto che il suo avversario non sedeva in Parlamento, ma, in quel modo, determinava comunque la politica del Paese, senza essere lui stesso un parlamentare, bensì solo il segretario di un partito.
Impressionò allora il fatto che il Partito Popolare venisse fondato allora solo pochissimi mesi prima delle elezioni del 1919 e, nonostante questo, prendesse il 20% dei voti, con circa 100 parlamentari: nemmeno Sturzo aveva immaginato tale successo.
Importantissimo è poi che con il Partito Popolare giunse a conclusione il Non expedit. Da quel momento i cattolici entrarono pienamente nella vita politica italiana. Ma già nel 1905, con il documento Fermo proposito di Pio X, era stata aperta la strada a tale partecipazione.
Nacque, infatti, da allora non ancora una presenza organizzata di cattolici in politica, come fu poi il Partito Popolare, ma una presenza di “cattolici deputati”, cioè di singole figure cattoliche che sedevano in Parlamento.
Poté così nascere nel 1913 il cosiddetto “patto Gentiloni” – quel Gentiloni che è antenato dei Gentiloni ancora oggi attivi in politica – che, pur non essendo mai stato definito e messo per iscritto, prevedeva un accordo informale tra i liberali di Giovanni Giolitti e l'Unione Elettorale Cattolica Italiana (UECI), presieduta appunto dal conte Vincenzo Ottorino Gentiloni, in vista delle elezioni politiche italiane del 1913, con un alleanza di quei primi cattolici in politica con il fronte liberale, contro il rischio di una dittatura socialista.
Ma ancora più importante è che il passaggio alla vita politica nazionale avvenne attraverso impegni progressivi dei cattolici nei Comuni. Sturzo, infatti, iniziò a fare politica nella sua Sicilia e lì si mise alla prova con i suoi, nella politica regionale: in effetti, non si può accedere ai gradi nazionali della politica se non si è sperimentata prima la bontà di una politica comunale e regionale.
Più ancora De Luca ha sottolineato come il contributo dei cattolici maturò attraverso quella che è corretto chiamate una “mobilitazione silenziosa”. Mentre socialisti e nazionalisti utilizzarono una “mobilitazione rumorosa”, occupando piazze, dando vita a tafferugli e pestaggi, con slogan gridati e tesi ad esasperare la rabbia, il mondo cattolico si mosse a livello sociale e culturale, facendo crescere quelli che saranno poi gli elettori del Partito Popolare con una maturazione appunto più “pacata” (silenziosa”) e volta all’acquisizione di importanti consapevolezze che divenivano via via anche manifestazioni pubbliche, impegni associativi, creazione di strutture, cooperative e sindacati.
È per tale peculiare modo di partecipare e ancor più per il contributo unico che permise al Paese di assestarsi in un ambito democratico – almeno fino all’avvento del fascismo e poi di nuovo nel secondo dopoguerra - che lo storico Federico Chabod ha potuto scrivere, lui che cattolico non era, che la fondazione del Partito popolare «costituisce un fatto di estrema importanza, l’avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo».
2/ Cento anni fa. La nascita del Partito Popolare: laico perché cristiano, di Marco Roncalli
Riprendiamo da Avvenire del 16/1/2019 un articolo di Marco Roncalli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Il novecento: il primo dopoguerra.
Il Centro culturale Gli scritti (20/1/2019)
Don Luigi Sturzo con Filippo Meda, primo
cattolico a diventare ministro del Regno d’Italia
«A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme propugnano nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà. E mentre i rappresentanti delle Nazioni vincitrici si riuniscono per preparare le basi di una pace giusta e durevole, i partiti politici di ogni paese debbono contribuire a rafforzare quelle tendenze e quei principi che varranno ad allontanare ogni pericolo di nuove guerre, a dare un assetto stabile alle Nazioni, ad attuare gli ideali di giustizia sociale e migliorare le condizioni generali, del lavoro, a sviluppare le energie spirituali e materiali…».
Era il 18 gennaio 1919, quando, a Roma, dall’albergo Santa Chiara, la Commissione provvisoria del Partito Popolare Italiano (con il segretario politico don Luigi Sturzo ne facevano parte Giovanni Bertini, Giovanni Bertone, Umberto Merlin, Angelo Mauri, Stefano Cavazzoni, Giulio Rodinò, Carlo Santucci, Giovanni Grosoli, Giovanni Longinotti), diffondeva il suo celebre appello ai «liberi e forti», rivolto a «uomini moralmente liberi e socialmente evoluti» pronti a sostenere un progetto per l’Italia del primo dopoguerra. Un programma concreto affidato a un partito che nasceva quel giorno dopo tante riunioni tenute in precedenza e presiedute da Sturzo, al contempo conferenziere convincente dalla sua Caltagirone sino a Milano.
Cadute le resistenze vaticane iniziali, si offriva finalmente ai cattolici italiani la possibilità di lasciarsi alle spalle il lungo periodo del “non expedit” – superato solo in parte nel 1912 dal patto dei cattolici di Vincenzo Gentiloni con i liberali di Giolitti – e di fare politica in modo diretto dentro lo stesso partito pur con diverse sensibilità. Un partito interclassista, rivolto a tutte le componenti sociali, a condividere le attese di agricoltori, artigiani, ferrovieri, tessili, insegnanti, impiegati. «Partito cattolico, dunque che diventa partito di ceti medi e di mondo rurale declassato, partito pazientemente raccolto nell’ambito di un movimento di riqualificazione democratica e popolare delle classi cosiddette subalterne», detto con il compianto Gabriele De Rosa. E tuttavia, senza la parola “cattolico” nel suo nome. «I due termini sono antitetici; il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall’inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione e abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione… Noi non possiamo trasformarci da partito politico in ordinamento di Chiesa, né abbiamo diritto di parlare in nome della Chiesa…»: così il sacerdote siciliano al primo congresso del PPI nel giugno 1919 a Bologna.
Una chiarezza di pensiero quella di Sturzo – compresa anche dal Segretario di Stato Vaticano, pure convintosi che il partito non doveva essere un’emanazione dell’Azione Cattolica secondo il disegno di Stefano Cavazzoni, tantomeno della Santa Sede («ritenevo che non poteva chiamarsi partito cattolico, quasi che fosse l’esponente o il rappresentante della Chiesa cattolica e della Santa Sede in Italia e nel Parlamento, ma che era un partito politico come tutti gli altri con un programma che si avvicinava di più ai principi cristiani », così nelle sue memorie il cardinale Pietro Gasparri). Insomma un capovolgimento della tesi del “partito clericale”.
E qui il genio del sacerdote calatino sta nell’aver saputo trovare, anche se per un tempo breve, prima dell’irruzione di Mussolini e del ritorno delle ingerenze delle gerarchie ecclesiastiche, quel difficile, ma necessario equilibrio, tra la fedeltà ai principi cristiani e l’autonomia del partito rispetto ai vertici della Chiesa, nonché fra gruppi di cattolici dalle posizioni assai diverse, lasciando che alle origini, nel suo PPI trovassero spazio differenti sensibilità: dai clerico-moderati ai conservatori, dai democratici cristiani murriani ai sindacalisti bianchi, fino ai militanti della sinistra popolare. Tutti chiamati a dar concretezza al motto scelto per il simbolo dello scudocrociato: “libertas”, con la sua cifra semantica ampia anche nel vocabolario sturziano.
Un secolo dopo, ricordare quel giorno e quei punti fermi nella nascita del PPI può esser utile. Non però per cercarvi ovunque elementi di attualità contingente (da tempo si sono raggiunti diversi traguardi allora indicati). Piuttosto, quel testo potente e davvero aperto, al di là delle appartenenze confessionali e non – scrive a ragione Giacomo Costa sul nuovo numero di “Aggiornamenti Sociali” – continua a «rappresentare una fonte di ispirazione per le modalità con cui si approcciano i problemi nuovi e quelli che nel tempo si sono modificati ma non sono stati risolti come la questione meridionale o la parità di genere, che, pur in forme diverse da quelle del ’19, continuiamo a trovare sulla nostra agenda politica».
3/ La lezione di Sturzo, non solo i cattolici, di Flavio Felice
Riprendiamo da Il Sole 24 Ore del 17/1/2019 un articolo di Flavio Felice. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Il novecento: il primo dopoguerra.
Il Centro culturale Gli scritti (20/1/2019)
È stato lo storico Federico Chabod ad affermare che la fondazione del Partito popolare a opera di Luigi Sturzo il 18 gennaio del 1919 «costituisce un fatto di estrema importanza, l'avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo» ed è stato Giovanni Spadolini a cogliere nella aconfessionalità e nella laicità del progetto politico sturziano “un'autentica rivoluzione”: «Il taglio netto fra clericalismo e cattolicesimo sociale, la rivendicazione perfino orgogliosa – da parte di un sacerdote – dell'autonomia dei cattolici nelle sfere della vita civile».
Il lungo percorso compiuto da Sturzo che lo condurrà il 18 gennaio del 1919, presso l'albergo Santa Chiara di Roma, insieme a un manipolo di dieci amici, a fondare il Ppi, ebbe inizio almeno un quindicennio prima, con lo storico discorso di Caltagirone del 24 dicembre del 1905. In quella occasione, Sturzo manifestò l'intenzione di dar vita a un partito che avesse un respiro nazionale, di ispirazione cristiana, ma nel contempo aconfessionale, laico e autonomo dalle gerarchie. Per questa ragione, il partito che immaginava Sturzo non si sarebbe dovuto fregiare dell'aggettivo “cattolico”. L'aconfessionalità del progetto sturziano rifiutava alla radice ogni tentazione di fare di un eventuale partito il “braccio secolare” delle gerarchie, ma rigettava anche la pretesa di rappresentare l'unità dei cattolici italiani.
Eccoci giunti al 18 gennaio del 1919, l'idea espressa nel discorso del 1905 diventa un fatto. Nasce il Ppi che non era né un “partito cattolico”, né il “partito dei cattolici”, ma un “partito di cattolici” che si appellava “a tutti gli uomini liberi e forti”, per dar vita a “un partito autonomo, libero e forte”. Sotto il profilo teorico, ci ricorda lo storico sturziano Eugenio Guccione, la fondazione del Ppi rappresenta il punto d'arrivo dell'impegno giovanile di Sturzo e il punto di partenza della sua maturità.
All'Appello seguiva un programma articolato in dodici punti, dove gli aspetti di politica interna erano espressi dalla promozione per l'integrità della famiglia, il voto alle donne, l'assistenza e la protezione dell'infanzia, nonché l'attuazione di una legislazione sociale, improntata alla cooperazione, alla riforma tributaria, alla riforma agraria, al decentramento amministrativo e alla libertà d'insegnamento. Sul fronte della politica estera, il programma del Ppi si mostrava apertamente internazionalista, accettando i Quattordici punti di Wilson e dichiarandosi favorevole all'adesione alla Società delle Nazioni.
L'eredità teorica dell'azione politica sturziana è tutta racchiusa nel termine “popolarismo” che si oppone al “populismo” in forza di una nozione di “popolo” articolata e differenziata al suo interno, tutt'altro che omogenea e compatta, refrattaria tanto al paternalismo quanto al leaderismo carismatico che identificano nel capo il buon pastore al quale affidare i destini del gregge.
Una teoria politica con la quale il fondatore del Ppi intendeva sfidare i due monopoli: quello dello “Stato accentratore”, tipico della tradizione fintamente liberale italiana, e quello marxista e socialista nel campo operaio. Il popolarismo sturziano vuole combattere entrambi questi monopoli, in nome della libertà, declinata nel campo dell'insegnamento, dell'amministrazione locale, della rappresentanza politica e sindacale e, non ultimo, della diffusione della proprietà e della piccola e media impresa.
Tale impostazione teorica, maturata anche nei ventidue anni di esilio tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti (1924-1946), patiti per aver sfidato il regime fascista in nome del “metodo della libertà”, ha condotto Sturzo a declinare il popolarismo in una serie di policy marcatamente liberali: federalismo, scuola libera, liberalizzazioni e un profondo europeismo. Ed è proprio sul fronte europeista che le idee di Sturzo: antifascista, anticomunista e antisovranista, sono state raccolte dai padri fondatori del processo d'integrazione europea. Così come le nazioni si erano andate formando nella modernità, passando da unità locali come le città, le contee, le provincie, a unità territoriali superiori come i regni e poi gli “stati”, Sturzo confidava che lo stesso passaggio avvenisse, per via federale, da nazioni a gruppi internazionali e da gruppi continentali a gruppi intercontinentali, nel rispetto del principio di sussidiarietà.
A cento anni di distanza, molti passi sono stati fatti, ma molti altri attendono di essere compiuti. Il pensiero “plurarchico” di Sturzo: la sua idea di pluralismo sociale e istituzionale, irriducibile al monismo tipico dello stato moderno, la sua testimonianza contro il virus totalitario, di ogni tipo e ideale, accanto a quella dei tanti esuli e dissidenti che vissero in quegli anni sciagurati ci siano di monito in questi nostri anni e ci aiutino a cogliere nell'implementazione quotidiana della libertà di tutti, italiani e stranieri, il destino di ciascun uomo.