Gesù educatore della fede. Lectio magistralis del cardinale Angelo Bagnasco

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 21 /06 /2010 - 23:46 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito la Lectio magistralis tenuta da S. Em. Il cardinale Angelo Bagnasco il 15/6/2010 a Bologna, in occasione del Convegno Nazionale dei Direttori degli Uffici Catechistici Diocesani. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (21/6/2010)

Cari Amici,

volentieri ho accettato l’invito a parlare di Gesù educatore della fede nel Convegno promosso dall’Ufficio Catechistico Nazionale. E’ un contesto che mi sa di casa, essendo stato per undici anni io stesso Direttore dell’Ufficio Catechistico della mia Diocesi.

1/ La passione educativa è fedeltà alla vita

Vorrei sottolineare subito che la passione educativa di Gesù è evidente. Egli ha piena consapevolezza che tutti coloro che incontra hanno un bisogno urgente non solo di salvezza fisica, ma, ben più radicalmente, di un orientamento interiore: «vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore» (Mt 9,36). Si potrebbe dire – mi si perdoni l’anacronismo – che egli visse in un contesto di “emergenza educativa”.

Il riferimento al pastore evoca tutto il ricchissimo retroterra veterotestamentario ma, insieme, rimanda alla meravigliosa realtà del “bel pastore”, che è il Signore stesso. L’uomo che Gesù incontrò – ma anche l’uomo di ogni tempo – cerca l’acqua della vita, cerca il bene, la speranza, il senso delle cose, il significato della vita stessa. Gesù constata in quelle folle un desiderio presente, reale, che non trova risposta.

Ed egli, il Signore, ama il suo popolo. La passione educativa che Gesù mostra in ogni suo incontro non può essere compresa altrimenti che a partire dal suo amore, dal suo amore per la vita, per la vita di tutti gli uomini. Ognuno è per lui importante, il giudeo e la siro-fenicia, gli apostoli che lo seguono e gli scribi che lo avversano, Andrea il primo dei chiamati e Paolo l’ultimo che vede il risorto, i peccatori e la Madre sua, gli indemoniati ed i sani, le donne che lo servono con i loro beni ed i poveri, i samaritani ed i greci, il ladrone che sta per morire ed i bambini che egli pone al centro.

Comprendiamo subito dal vangelo che ogni atto educativo non può avere altra sorgente che l’amore. La Chiesa, scegliendo di riflettere sul compito dell’educazione, non ha altra motivazione che l’amore per la vita che ha appreso dal suo Signore1. Si educa, perché si ritiene la vita dell’altro meritevole di attenzione, di cura, perché la si ritiene preziosa, più preziosa addirittura della propria.

In questo senso, la passione educativa non è diversa dall’amore con la quale un uomo e una donna accolgono una nuova vita che viene concepita. La catechesi e la scuola - unitamente a tutti gli altri educatori ed alla società intera - si trovano naturalmente a collaborare con la famiglia, proprio perché condividono con lei l’amore per la vita.

Il consenso che si è spontaneamente creato nel nostro Paese sul tema dell’educazione – si potrebbero citare numerosi interventi della stampa laica, così come di esponenti del mondo della scuola e della società civile – non deve essere sottovalutato: la riscoperta dei fondamenti di una buona educazione è un anelito di tanti, dentro e fuori la Chiesa2. Le famiglie dichiarano di aver spesso smarrito i necessari punti di riferimento educativi, la scuola di aver talvolta perso il coraggio di scommettere sulla passione e la qualità dell’educazione, i catechisti di essere a volte scoraggiati: tutti avvertono, però, l’esigenza di un rinnovato impegno per l’amore che portano alla vita delle nuove generazioni.

In particolare, permettetemi di ricordare oggi che i catechisti, di cui voi siete i responsabili nelle diverse diocesi, sono un’importante testimonianza dell’amore che la Chiesa ha per la vita. È tramite il loro servizio che i genitori comprendono di non essere abbandonati dalla Chiesa quando si trovano a misurarsi con la crescita dei loro figli, bensì essi trovano al loro fianco tutto il Popolo di Dio che li sostiene nella loro missione. Voi conoscete bene per esperienza come non sia oggi facile per una famiglia orientarsi nella crescita dei figli. Vorrei sottolineare che noi siamo preoccupati, giustamente, del tenue legame che può esistere fra le famiglie e la Chiesa, ma dobbiamo imparare ad essere ancor più preoccupati del legame stesso dei genitori con i loro figli. Le famiglie, spesso silenziosamente come ai tempi di Gesù, domandano oggi un sostegno educativo, desiderano maturare punti di riferimento per non scoraggiarsi nella loro missione e per non essere travolte dalla mentalità corrente.

In questo senso, il decennio che si apre sul tema dell’educazione non vuole dimenticare l’importanza della catechesi degli adulti. Anzi, vuole sottolineare precisamente che una delle responsabilità più importanti degli adulti - genitori, docenti, catechisti, l’insieme della società civile - è precisamente quella di trasmettere la vita, la cultura, i valori, la fede che abbiamo ricevuto in dono.

2/ La passione educativa di Gesù radica nella relazione con Dio e fra gli uomini

Ma come Gesù educa alla fede? Possiamo rispondere che Egli educa reintegrando l’uomo nelle sue relazioni significative, restituendolo alla comunione con Dio e con i fratelli.

Innanzitutto la relazione con Dio. È evidente in ogni pagina del Vangelo, ma possiamo approfondirla a partire da una sola affermazione del Signore: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3).

L’invito a diventare come bambini non riguarda i “piccoli” che già lo sono3, ma l’uomo in quanto tale. Lo ha sottolineato in maniera estremamente efficace J. Jeremias, affermando: «‘diventare di nuovo bambino’ significa imparare a dire di nuovo Abbâ»4. L’essere bambini di cui parla Gesù non ha niente a che fare con un infantilismo di maniera e sdolcinato, bensì è un invito alla fede nel Padre.

Gesù annuncia così che la maturità umana non consiste in una chiusura della persona in se stessa e nel proprio mondo, ma nell’apertura al dialogo con Dio. La catechesi, come prolungamento vivente dell’opera di Gesù, ha precisamente il compito di servire questa relazione dell’uomo con Dio: essa esiste in vista della fede5.

La chiesa propone la fede alle nuove generazioni perché senza di essa verrebbe a mancare loro quella relazione vitale con Dio. Le famiglie, talvolta anche solo inconsciamente, sanno bene che il Vangelo è per i ragazzi un ancora di salvezza. Che la comunione con Cristo e con la Chiesa non solo li tiene lontani da modelli di comportamento distruttivi e, a volte, autodistruttivi, ma soprattutto li apre alla speranza ed alla passione per la vita. Proprio la riflessione pedagogica moderna, fra l’altro, tende a porre in luce che la dimensione religiosa è intrinseca al bambino stesso e non è mai semplicemente riconducibile a fattori dipendenti dall’ambiente familiare. Un bambino comprende e desidera l’amore di Dio anche se la paternità che ha effettivamente conosciuto fra le mura domestiche è stata tutt’altro che esemplare.

L’assoluta rilevanza della relazione con Dio, che è al cuore dell’esperienza umana, diviene ancora più chiara se ci si sofferma per un istante a dipingere il suo opposto. La tradizione cristiana, nella Commedia dantesca, ha rappresentato il Maligno come un essere conficcato nel ghiaccio: egli – vuole dire il sommo poeta – è colui che ha smesso di amare, ha liberamente ed eternamente rifiutato la relazione con Dio e, parimenti, ha preso in odio ogni uomo, al punto che non vi è alcuno che egli ami. Per lui la relazione non esiste più, l’ha rifiutata per sempre e, per questo, egli non ha più calore, è gelido. Gesù, al contrario, spalanca le porte della relazione con Dio, invita a riconoscere che proprio nel rapporto con il Padre sta la bellezza e la dignità della vita umana: credere, riconoscendo il Padre, vuol dire entrare nel regno.

Emerge qui anche tutta la rilevanza della questione antropologica. L’educazione della fede proposta da Gesù segnala in maniera splendida la differenza qualitativa che esiste tra l’uomo ed ogni altro essere vivente. Solo l’uomo, a differenza degli animali, è capace di questa relazione con Dio, solo la persona è capace di spiritualità. Nessun animale possiede la libertà di bestemmiare Dio o di adorarlo, di ringraziarlo per i suoi doni o di dimenticarlo. Trascurare la dimensione della fede in ambito educativo vuol dire, quindi, ferire la stessa dignità dell’uomo. Promuoverla vuol dire, invece, esaltare la dignità dell’uomo: l'educazione della fede, infatti, non è un elemento accessorio rispetto all'intero processo educativo, ma vi appartiene di diritto con un ruolo centralissimo. Ecco nuovamente, da un altro punto di vista, il grande valore della catechesi, come pure, a livelli e con forme diverse, dell’insegnamento della religione nella scuola che presenta in modo organico il “fatto” religioso e cattolico così come si è configurato nella storia e nella nostra cultura

La seconda relazione costitutiva cui Gesù rimanda educando alla fede è quella degli uomini fra di loro. Nel duplice comandamento dell’amore egli sintetizza il cuore di ogni vita. Nell’amore del prossimo appare nuovamente come la relazione non sia qualcosa di opzionale ed accessorio, bensì sia costitutiva dell’uomo stesso. L’io, per comprendersi, deve domandarsi da chi è amato e per chi, a sua volta, egli vive.

Questa cura delle relazioni è l’ulteriore tesoro dell’educazione alla fede. Le giovani generazioni sono invitate dalla catechesi a rifuggire dall’individualismo, perché esso è la morte della loro stessa vita. La catechesi le chiama pian piano all’amore, alla relazione, alla responsabilità. Il comandamento dell’amore pone nella giusta luce anche il valore della coscienza, voce di Dio nel cuore dell’uomo: essa, infatti, esige l’impegno nel bene. Gesù con la sua voce la desta sempre di nuovo, educandola a riconoscere che non esiste un lecito disinteresse quando è in potere dell’uomo fare il bene.

È importante, per comprendere la permanente responsabilità dell’uomo verso il suo simile, non dimenticare mai la visione antropologica proposta dal Concilio Vaticano II e, in particolare, dalla Gaudium et spes: se da un lato vi si afferma la natura storica dell’uomo, d’altro canto, con altrettanta forza, si sottolinea che l’uomo non muta nei suoi desideri più profondi e nelle domande più grandi che lo attanagliano, ma resta lo stesso attraverso il susseguirsi delle generazioni6. È per questo che mai si potrà spegnere in lui l’anelito a Dio, la ricerca della verità, la necessità di imparare ad amare. Educare alla fede vuol dire così cogliere gli snodi culturali sempre nuovi emergenti in ogni epoca, ma insieme, saper cogliere anche quei desideri profondi e immutabili che contraddistinguono ogni uomo e che fanno sì che egli sia in grado di capire Dante a settecento anni di distanza e, molto di più, di conoscere e amare Cristo, sentendo ardere il proprio cuore alla lettura del suo Vangelo, anche se questa dovesse avvenire sine glossa.

3/ Gesù è l’“autore della fede”

Quanto si è fin qui detto non sarebbe assolutamente sufficiente se non ci si soffermasse a cogliere il peculiare valore della Sua persona.

La fede, infatti, propriamente, nasce con Gesù e solo con Lui. Egli educa a credere, poiché precisamente la fede è fede in “Lui”. Lo afferma con forza l’autore della Lettera agli Ebrei, quando dice che Gesù «è colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12,2). I due verbi insieme formano un’endiadi molto forte: Gesù dà origine alla fede – cioè egli propriamente la fonda, la fa nascere - ed, insieme, la porta a perfezione con il sacrificio della croce e la resurrezione, poiché «la Legge non ha portato nulla alla perfezione» (Eb 7,19). La fede esisteva certamente già nell’antica alleanza, ma era in attesa della grazia di Cristo.

La Lettera agli Ebrei esprime con precisa sintesi teologica ciò che i Vangeli raccontano estesamente7. Dal battesimo al Giordano fino alla sua morte e resurrezione, Gesù educa i suoi discepoli alla fede. In un densissimo passaggio, nel quale Gesù esprime tutta la sua gioia ed esultanza, dichiara: «Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre e né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Lc 10,22). È questa l’assoluta novità della fede cristiana: certo Dio rimane sempre trascendente, ma ora Egli è veramente rivelato a noi dal suo Figlio.

La fede non può nascere e svilupparsi semplicemente come auto-maturazione o auto-formazione dell’uomo: è in Cristo che viene offerta e donata all’uomo. Non è sufficiente la libertà per raggiungere la fede, anzi è piuttosto l’incontro con la fede a generare la libertà, come dice il Signore: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32).

La dipendenza della libertà dal dono che la precede deve essere posta nuovamente in risalto se si vuole che cresca una nuova passione educativa. Non vi è vera educazione, né vera libertà, senza un dono che le preceda. Benedetto XVI non ha paura di utilizzare per questo dono che precede la libertà e la fonda il termine “autorità”.

Recentemente anzi, rivolgendosi all’Assemblea della CEI, ha ricordato che proprio nella maturazione delle relazioni più importanti l’uomo ha bisogno dell’“autorità”: «[Una delle radici profonde dell’attuale emergenza educativa la vedo] in un falso concetto di autonomia dell’uomo: l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere il suo autosviluppo, ma non entrare in questo sviluppo. In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’“io” diventa se stesso solo dal “tu” e dal “voi”, è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il “tu” e con il “noi” apre l’“io” a se stesso. Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma rinuncia all’educazione»8.

Queste affermazioni ricordano giustamente che il rapporto educativo è caratterizzato da una asimmetria, anche se questo nulla toglie al fatto che sia una vera relazione di amore, poiché a coloro che sono più maturi spetta il compito di donare ciò che i piccoli, da soli, non potrebbero raggiungere. Gesù offre originariamente la vita per l’uomo, perché l’uomo diventi capace di portare la propria croce. E ciò che è vero per la fede, tocca trasversalmente ogni ambito educativo. Si pensi innanzitutto al semplicissimo fatto che i genitori sono gli stessi auctores dei loro figli. Essi sono autorevoli presso la loro discendenza, poiché senza i genitori essa neanche esisterebbero. Inoltre essi non li hanno semplicemente generati, ma sono all’origine della loro maturazione, avendoli accompagnati nella loro crescita. Se essi rinunciassero ad insegnare ai loro piccoli non solo il bene, il rispetto, la responsabilità, la fede, ma anche la stessa lingua con tutti i riferimenti culturali connessi, i loro bambini non si svilupperebbero.

Si pensi similmente ai docenti in ambito scolastico. Essi, attraverso anni di studio, divengono appassionati e competenti di letteratura o scienza fino ad essere in grado di far amare alle nuove generazioni Dante e Leopardi o Newton e Galilei. Agirebbero non correttamente se pretendessero dagli studenti una passione per quelle materie previa al loro insegnamento.

Ogni rapporto educativo, insomma, implica una generazione. Questo fatto è espresso dalla stessa etimologia del vocabolo “autorità”, derivante dal latino augere, far crescere. L’auctoritas è così ben diversa dalla potestas, dal potere, poiché non si impone dall’esterno con la forza, ma si manifesta nella capacità di generare vita. La società italiana nel suo insieme ha bisogno di figure autorevoli di genitori, di docenti, di catechisti, di laici, capaci di porsi come punti di riferimento nel difficile compito educativo. È palpabile l’attesa di persone preparate ed appassionate che svolgano con grande senso di responsabilità la loro missione.

Tutto questo illumina in maniera semplice ed, insieme, sorprendente anche la catechesi. Anch’essa non può, infatti, presupporre la fede, ma il suo compito precipuo è proporla e formare ad essa. Non deve spaventare che il confine tra primo annuncio e catechesi dell’iniziazione cristiana sia oggi così labile, poiché la fede non nasce semplicemente dall’uomo come uno sviluppo naturale, ma è risposta alla parola ed all’azione di Dio.

Come i discepoli sono educati alla fede da Gesù - è lui che insegna “con autorità”, è lui che intima ai demoni di allontanarsi facendosi obbedire da essi, è lui che chiama i discepoli a seguirlo facendoli entrare alla sua sequela, è lui che “cammina avanti agli altri” impauriti quando si tratta di recarsi a Gerusalemme, è lui che nell’ultima cena offre il suo corpo ed il suo sangue, è lui che spalanca le braccia sulla croce, è lui che, primogenito fra i fratelli, risorge dai morti – così la catechesi è chiamata ad accompagnare la fede, ma, più profondamente a generarla, soprattutto attraverso il cammino dell’iniziazione cristiana.

Mi permetto di ricordare qui la mia esperienza di direttore dell’Ufficio catechistico diocesano: quante volte ho sperimentato che ragazzi e genitori che si presentavano per il cammino dell’iniziazione cristiana con motivazioni molto povere, dopo aver incontrato la bellezza della proposta cristiana divenivano capaci di una vera e matura vita di fede, che sarebbe stata impensabile per loro senza l’incontro con la comunità cristiana.

4/ Fede e fiducia, Logos e Agape

Nell’illuminare il modo con cui Gesù educa alla fede la tradizione cristiana ha colto nell’unico atto di fede, come ben sapete, due aspetti complementari che si illuminano reciprocamente la fides qua creditur e la fides quae creditur. Le due espressioni risalgono a Sant’Agostino che dice: «Una cosa è ciò che si crede, altra cosa la fede con cui si crede (aliud sunt ea quae creduntur, aliud fides qua creduntur). [...] Quando Cristo dice: O donna, grande è la tua fede, ed ad un altro: Uomo di poca fede, perché hai dubitato? esprime con questo che ciascuno ha una fede che gli è propria. Ma si dice che coloro che credono le stesse cose hanno una sola fede, allo stesso modo che coloro che vogliono le stesse cose hanno una sola volontà»9.

Evocare questi termini ben conosciuti nel parlare di Gesù educatore della fede ha il senso di rifiutarne l’opposizione e mostrarne, nel contesto attuale, l’intima relazione come chiave per pensare al futuro cammino della catechesi.

È, infatti, nel rapporto di Gesù con i suoi discepoli che appare il nesso indissolubile di queste due dimensioni della fede. Essi, da un lato, hanno fiducia nel Maestro, lo seguono e lo amano anche se non riescono a capirlo ed, anzi, hanno paura talvolta di chiedere spiegazioni. La loro sequela è interamente dipendente dalla fede che hanno in Lui, Egli cammina dinanzi a loro ed essi Lo seguono.

D’altro canto, matura progressivamente in loro non una fede cieca, bensì una fede che comprende il “mistero” della sua persona e della sua missione. Il vangelo di Marco ricorda che solo dopo l’esplicita professione di Pietro a Cesarea di Filippo, Gesù cominciò ad annunziare ai suoi la croce che lo attendeva a Gerusalemme e la resurrezione.

Paolo condensa le due espressioni in una frase densissima della Seconda Lettera a Timoteo: «so in chi ho posto la mia fede e sono convinto che egli è capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è stato affidato» (2 Tm 1,12). È nel contesto del martirio prossimo che la relazione tra la conoscenza di Dio e la fiducia in Lui diviene ancora più evidente. Paolo può prepararsi alla morte perché si abbandona totalmente in Cristo e sa che egli è fedele.

Una formula sintetica, utilizzata costantemente nel magistero di Papa Benedetto XVI per descrivere la rivelazione divina, può essere accostata alla riflessione che ci proviene dalla tradizione sulla fides qua e sulla fides quae, permettendo di valorizzarla ulteriormente nel contesto attuale: Dio è insieme Logos ed Agape – afferma il papa. Benedetto XVI, riprendendo i due termini dalla rivelazione biblica, li utilizza splendidamente per evidenziare che Dio è sapienza - ed ama essere conosciuto - ed insieme, rivelandosi, si manifesta come amore.

La verità della rivelazione, infatti, non è un’arida presentazione teorica, bensì è la manifestazione dell’amore che unisce il Padre al Figlio ed allo Spirito Santo ed è l’amore con cui la Trinità ama l’uomo.

Dinanzi al mistero della rivelazione si comprende allora come sia fragile l’eterna domanda se venga prima l’amore o la conoscenza. Poiché non si può amare Dio se non lo si conosce, ma non lo si può conoscere senza scoprirne l’amore, amore e conoscenza si rincorrono mutuamente e l’una e l’altro non possono sussistere indipendentemente.

La peculiarità della rivelazione cristiana conduce così la catechesi a rifuggire da ogni contrapposizione fra conoscenza del “mistero” cristiano e testimonianza della carità, fra “contenuto” della fede ed “esperienza” di essa.

Proprio questa identità della rivelazione ha tracciato, rispetto al cammino educativo della fede, uno straordinario cammino di sintesi, poiché educare alla fede implica la maturazione dell’intelligenza e del cuore, come ha detto in maniera sintetica il Santo Padre al Convegno di Verona: «La forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell'intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall'amore reciproco e dall'attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano. Così è avvenuto anche in seguito, in diversi contesti culturali e situazioni storiche. Questa rimane la strada maestra per l'evangelizzazione: il Signore ci guidi a vivere questa unità tra verità e amore nelle condizioni proprie del nostro tempo, per l'evangelizzazione dell'Italia e del mondo di oggi»10.

Anche oggi questa duplice attenzione al Logos ed all’Agape - ed alla fides quae creditur ed alla fides qua creditur, sebbene le due coppie non siano sovrapponibili - permette alla catechesi di mantenere la sua vitalità e la sua capacità di esprimere pienamente il “mistero” cristiano.

Di converso è proprio questa prospettiva che permette, in campo educativo, di fare sintesi dal punto di vista antropologico della ragione e dell’amore: sintesi che la nostra cultura tende a frantumare, proponendo da un lato una ragione puramente astratta e calcolatrice e, dall’altro, un cuore che viene ridotto ad emotività.

Sul versante dell’educazione alla fede, proprio l’esaltazione congiunta del Logos e dell’Agape di Dio e della fides quae creditur e qua creditur dell’uomo appare particolarmente urgente a motivo del mutato contesto nel quale si pone oggi la catechesi.

Infatti, come ha sottolineato opportunamente la Lettera per il 40° anniversario del Documento di base, il valore permanente di quel documento è chiamato a misurarsi con «gli scenari culturali e religiosi nuovi»11 degli inizi del III millennio.

Da un lato, la fede, pur essendo profondamente presente nel popolo italiano – e per questo amata – è, al contempo, anche avversata con una critica, come è stato notato da attenti analisti anche laici, che non mira semplicemente a questo o quell’aspetto odierno della Chiesa, ma la pone in discussione fin nei suoi fondamenti, a partire dalla stessa messa in discussione della rilevanza della questione di Dio, dell’opportunità che di Lui si parli nella sfera pubblica, dell’attendibilità dei racconti evangelici e così via.

Dall’altro queste critiche, ma forse ancor più la diffusa ignoranza in materia, rendono evidente che l’educazione alla fede deve partire non da argomenti secondari, ma precisamente dai temi più importanti dell’annuncio cristiano. Come affermò l’allora cardinal Ratzinger: «i grandi temi della fede - Dio, Cristo, Spirito Santo, Grazia e peccato, Sacramenti e Chiesa, morte e vita eterna - non sono mai temi vecchi. Sono sempre i temi che ci colpiscono più nel profondo. Devono sempre rimanere centro dell’annuncio e quindi anche centro nel pensiero teologico»12.

Un’educazione alla fede che non aiutasse l’intelligenza ad orientarsi su questi temi non aiuterebbe le nuove generazioni a comprendere il valore e la dignità della fede cristiana. È l’esperienza stessa a mostrare che proprio la debolezza di una “pastorale dell’intelligenza” fa sì che molti ragazzi, terminato il percorso dell’iniziazione cristiana, si allontanino dalla chiesa se non trovano comunità cristiane la cui proposta educativa li rende capaci di misurarsi con la lettura che dei temi della fede propongono altre agenzie o la stessa scuola.

Mi permetto di sottolineare che una delle grandi novità del Catechismo della Chiesa Cattolica consiste proprio nel premettere alle quattro parti - che corrispondono alle dimensioni portanti del catecumenato della chiesa primitiva – alcune riflessioni che potremmo definire di teologia fondamentale. Le quattro parti riprendono espressamente la Dei Verbum, la Sacrosanctum Concilium, la Lumen gentium, la Gaudium et spes, proprio perché i grandi documenti conciliari hanno sentito l’esigenza di soffermarsi sui fondamenti stessi della fede, sul perché della fede, della liturgia, della Chiesa, della visione cristiana dell’uomo sul mondo, della preghiera personale. Dove l’uomo comprende il perché della fede, le sue motivazioni, diviene veramente libero di viverla in ogni circostanza della propria vita.

Questa grande attenzione ai temi della fede cristiana non deve, però, assolutamente essere contrapposta alla maturazione di quel contesto che rende esperienzialmente percepibile quella fiducia e quell’amore così tipici della fede cristiana.

Proprio la tradizione italiana si caratterizza – e deve continuare a caratterizzarsi - per la sua capacità di proporre alle giovani generazioni la Chiesa come compagnia affidabile, come ambiente in cui maturare la fiducia e l’amore.

Si pensi innanzitutto alla proposta della fraternità vissuta nelle parrocchie e nei diversi gruppi – ora sempre più con il coinvolgimento delle famiglie - che in forme diversissime, ma convergenti sull’essenziale, viene proposta attraverso gli oratori, i ritiri dei tempi forti, le associazioni e i movimenti, l’ordinaria vita parrocchiale, i campi–scuola estivi, ecc. Ogni persona può fare qui esperienza concreta di quella compagnia affidabile che è la Chiesa.

Si pensi poi alla maturazione del servizio e della carità proposta nei cammini di educazione alla fede. Recenti ricerche sottolineavano la grande importanza formativa, ad esempio, del servizio degli adolescenti ai più piccoli negli oratori estivi (si parla, per la sola Lombardia, di più di 80.000 ragazzi che si misurano con questa responsabilità per più settimane estive ogni anno) o, ancora, delle esperienze missionarie che aiutano a conoscere la realtà di luoghi lontani dall’Italia dove la chiesa è presente.

Ma certamente il momento centrale nel quale l’uomo sperimenta l’amore stesso di Dio è quello liturgico, di cui la divina Eucarestia è il vertice. Sapientemente il Concilio ha ripreso l’espressione culmen et fons, per indicare che se la liturgia è il vertice della vita cristiana, essa ne è certamente anche la sorgente. Quando si sottolinea il valore dell’esperienza in campo educativo, non si deve mai dimenticare che proprio l’“esperienza” liturgica vi appartiene pienamente. La tradizione della Chiesa sa bene che è proprio attraverso la celebrazione dell’anno liturgico, attraverso le feste, attraverso il canto, i gesti e i segni, soprattutto attraverso i sacramenti, che la singola persona, insieme a tutto il popolo di Dio, matura nella fede. La liturgia ha il potere di educare l’uomo alla fraternità festosa e, insieme, al silenzio raccolto per la presenza del “mistero”, alla fede ed alla carità, come nessun altra realtà è in grado di fare.

Vorrei concludere citando un passo meritatamente apprezzato del Documento di base, che è come una sintesi delle diverse dimensioni di ogni cammino di educazione alla fede cristiana: «Con la catechesi, la Chiesa si rivolge a chi è già sul cammino della fede e gli presenta la parola di Dio in adeguata pienezza, “con tutta longanimità e dottrina”, perché, mentre si apre alla grazia divina, maturi in lui la sapienza di Cristo. Educare al pensiero di Cristo, a vedere la storia come Lui, a giudicare la vita come Lui, a scegliere e ad amare come Lui, a sperare come insegna Lui, a vivere in Lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo. In una parola, nutrire e guidare la mentalità di fede: questa è la missione fondamentale di chi fa catechesi a nome della Chiesa. In modo vario, ma sempre organico, tale missione riguarda unitariamente tutta la vita del cristiano: la conoscenza sempre più profonda e personale della sua fede; la sua appartenenza a Cristo nella Chiesa; la sua apertura agli altri; il suo comportamento nella vita»13.

Vi ringrazio per la vostra benevola attenzione e per quello che fate nelle vostre Diocesi, cari Amici. Gli Orientamenti Pastorali che i Vescovi italiani hanno varato per il decennio, sono una grande sfida ed un entusiasmante appuntamento. Nessuno deve mancare: molteplici sono i soggetti coinvolti. La Comunità cristiana, nelle sue variegate e generose presenze e con la sua ricca tradizione, si chiamerà a raccolta nelle diverse Chiese Particolari nei modi e nei tempi che riterrà più opportuni e possibili. A suo tempo ci ritroveremo insieme come Chiesa che è in Italia secondo la consolidata ed efficace consuetudine di metà decennio. La sfida ci trovi sempre più entusiasti e uniti, accomunati da quella duplice fedeltà – a Dio e agli uomini – che invera l’ amore per Gesù e per il mondo. Grazie e buon lavoro!


Note al testo

1 In maniera molto efficace lo sottolinea il Documento di base con la famosa espressione: «Fedeltà a Dio e fedeltà all’uomo: non si tratta di due preoccupazioni diverse, bensì di un unico atteggiamento spirituale» (DB 160).

2 Non è forse esagerato riconoscere in questo consenso dell’intera società uno di quei segni dei tempi di cui parla il Concilio in Gaudium et spes 4.

3 Anche se queste parole hanno segnato poi la storia della catechesi e dell’educazione in genere. Questo porre al centro i “piccoli” ha generato, infatti, nei secoli una nuova visione delle prime età della vita, considerate ormai dotate di una grande dignità propria e non solo finalizzate alle età successive, ma ha anche fatto comprendere il desiderio del Signore che il suo vangelo fosse proposto fin dalla più tenera età. Lo ricorda in un passaggio molto bello il Documento di Base 134: «Ogni età dell’uomo ha il suo proprio significato in se stessa e la sua propria funzione per il raggiungimento della maturità [...] Errori o inadempienze, verificatesi a una certa età, hanno talora conseguenze molto rilevanti per la personalità dell’uomo e del cristiano. Così pure una sana educazione umana e cristiana consente a ciascuno di vivere sempre come figlio di Dio [...] Pertanto in ogni arco di età i cristiani devono potersi accostare a tutto il messaggio rivelato, secondo forme e prospettive appropriate».

4 J. Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento, I, La predicazione di Gesù, Brescia, 1972, p. 182. Vi fa riferimento anche l’allora cardinal J. Ratzinger, Il Dio di Gesù Cristo, Brescia, 2005, p. 78.

5 Lo ricordava Benedetto XVI nell’incontro con i vescovi della Svizzera il 7 novembre 2006: «la fede deve veramente avere la priorità. Due generazioni fa, essa poteva forse essere ancora presupposta come una cosa naturale: si cresceva nella fede; essa, in qualche modo, era semplicemente presente come una parte della vita e non doveva essere cercata in modo particolare. Aveva bisogno di essere plasmata ed approfondita, appariva però come una cosa ovvia. Oggi appare naturale il contrario, che cioè in fondo non è possibile credere, che di fatto Dio è assente». In quel contesto ricordava le parole di Gesù ripetute più volte nei vangeli “la tua fede ti ha salvato”, sottolineando come senza la fede in Lui si avrebbe «l’inizio di una specie di “giustificazione mediante le opere”: l’uomo giustifica se stesso e il mondo in cui svolge quello che sembra chiaramente necessario, ma manca la luce interiore e l’anima di tutto».

6 Gaudium et spes 10: «La chiesa afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli»

7 Non si deve mai dimenticare, infatti, che il Nuovo Testamento – come del resto già l’Antico – esprime la stessa fede ora con il linguaggio della professione di fede, ora con inni, ora con la narrazione storica e che questi diverse forme sono tutte necessarie.

8 Dal discorso di Benedetto XVI nel corso dell’udienza all’Assemblea Generale della CEI del 27/5/2010.

9 Agostino d’Ippona, De Trinitate 13, 2, 5.

10 Dal discorso di Benedetto XVI ai partecipanti al Convegno di Verona, del 19 ottobre 2006.

11 Lettera nel 40° anniversario del Documento di base 7.

12 Dalla riflessione La fede della Chiesa di Roma tenuta dall’allora cardinal Joseph Ratzinger il 18 gennaio 1993.

13 Documento di base 38.