La morte di Manno, di Eugenio Corti
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Riprendiamo dal sito www.eugenio.corti.it un brano pubblicato il 10/12/2018, tratto da E. Corti, Il cavallo rosso, Milano, Ares, 1999. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Letteratura e Storia: il novecento.
Il Centro culturale Gli scritti (10/2/2019)
Gli assalitori erano, su questa direttrice, truppe scelte, ma i tedeschi son tutti truppe scelte, e stavano annidati tra le rocce. Per superare quei primi, pochi nidi di difesa, occorse un certo tempo e perdite di vite umane. Poi l’avanzata proseguì verso l’alto, fino a una seconda e forse più regolare fascia di postazioni, da cui il nemico proseguiva il suo serrato fuoco di sbarramento. Anche queste postazioni però non erano numerose, e il battaglione riuscì gradatamente a incunearvisi. Intanto, mentre il sole saliva nel cielo, il mare di nebbia cominciava nei suoi strati più alti a fluttuare e a contrarsi; intorno agli attaccanti principiava a schiarire, le cose andavano poco alla volta assumendo incerti profili. Manno che, in testa al proprio plotone si era, in un punto disagevole, afferrato con entrambe le mani a una cuspide di roccia per scavalcarla, fu a un tratto intronato dal duro schianto di un ordigno – forse una bomba a mano tedesca – esploso sull’altro versante della cuspide: le sue mani persero di colpo la presa ed egli scivolò indietro. Si guardò sbigottito le dita: erano minutamente crivellate e colavano sangue. Più che dolore gli davano una strana sensazione di bruciore. “Mi hanno colpito” mormorò.
“Qui, prendete signor tenente” disse l’allievo che si trovava alla sua sinistra (un milanese, dunque un compaesano), e stando rannicchiato dietro la roccia si levò svelto di tasca un pacchetto da medicazione e glielo porse; s’accorse che l’ufficiale non era in grado d’afferrarlo. “Acci… Aspettate, faccio io.” Lacerò l’involucro di carta, e si applicò a fasciargli la mano destra, ch’era quella che sanguinava di più.
“Lega molto stretto intorno al polso” gli disse Manno con calma; era come trasognato.
“Molto stretto. Signorsì.”
Gli allievi più vicini si erano parimente arrestati, mentre il resto del plotone continuava il suo movimento strisciando in avanti.
“Ehi tu” disse il milanese all’allievo che stava dall’altra parte dell’ufficiale: “Cos’è che aspetti? Fasciagli l’altra mano.”
“Io? Io? Sì.”
Ma era assai maldestro, e inoltre incredibilmente nervoso. Per cui il primo allievo, dopo aver completata la fasciatura della destra, lo sostituì nell’eseguire anche la fasciatura della sinistra, all’apparenza meno dilaniata. Aveva appena finito, che un secondo ordigno esplose sull’altro versante della cuspide rocciosa: tutti si schiacciarono contro terra.
“Non possiamo rimanere qui” disse concitato, voltando a metà la testa coperta dall’elmetto, l’allievo nervoso che non era riuscito a eseguire la fasciatura. “Via, andiamo via, dobbiamo spostarci.”
“Sì” convenne l’altro “sì.” E a Manno: “Signor tenente, voi adesso tornate indietro. Ormai con quelle mani non potete più…”
“No” esclamò l’allievo nervoso: “No. Come facciamo senza di lui?”
“Ma non vedi che non ha più le mani?” sbottò il milanese.
“No, no, no” insisté l’altro:
Manno stava tornando adagio adagio alla realtà. “Volete scherzare?” disse infine: “Cosa vi prende? Tornare indietro io?” Parlava e nello stesso tempo si sentiva parlare, era come sdoppiato; tutto il suo essere convergeva nelle mani: le avrebbe perdute? La ragione però, il senso del dovere, non l’abbandonavano; si dominava ancora.
Rizzata alquanto la testa coperta dall’elmetto si guardò intorno, e cercò nella nebbia d’inquadrare la situazione. “Attenti” disse ai pochi allievi che gli s’erano fermati accanto: “Tutti di corsa con me, prima a sinistra e poi avanti.”
Balzò in piedi ed eseguì, curvo e a passi affrettati, ricominciando a salire; gli altri dietro.
Il resto del plotone s’era arrestato poco più oltre e l’attendeva; correva il rischio di perdere il contatto con la compagnia. Non lontano sulla destra si sentirono alcuni bersaglieri invisibili urlare in mezzo alla buriana dei colpi: “Savoia! Savoia!”. Stavano senza dubbio entrando in qualche postazione nemica, perché dall’altra parte rispondevano furibonde grida tedesche.
“Forza, avanti!” ordinò Manno ai suoi, e procedette per primo; il plotone ricominciò a salire, inglobandolo; ma fu ben presto costretto ad arrestarsi di nuovo a causa d’insistenti raffiche nemiche.
In complesso l’avanzata nei margini superiori della nebbia richiese tempo, aspri sforzi e perdite, infine la fascia di postazioni tedesche, su questa direttrice almeno, venne superata.
Ma c’era un’altra linea poco più sopra, e mentre gli attaccanti procedevano, la nebbia si ritirò, lasciandoli in pieno sole. Per fortuna il pendio era fittamente disseminato di macigni e cespugli, che consentivano un certo defilamento; non si poteva ad ogni modo più andare avanti.
Guidate per radio da un sottotenente osservatore, le artigliere italiane aprirono il fuoco dal fondo valle, dandosi da fare per neutralizzare le postazioni nemiche; vi si aggiunsero, come al principio dell’attacco, le artiglierie americane, le quali però non avevano osservatori sul posto: le loro granate – molto fitte – esplodevano tutte troppo lunghe, oltre la vicina quota 343, verso quota ‘senza nome’ e quota 331.
Manno stava rannicchiato in uno svaso della roccia con un paio dei suoi; non aveva occhi per le irregolari creste di montagne che tutt’intorno sporgevano come lunghe isole dal mare di nebbia: a sinistra monte Maggiore, a destra monte Sammucro sulle cui pendici era in corso l’attacco americano, dietro, alle sue spalle, monte Cesima, tutt’e tre illuminati dal sole giallo di dicembre. Davanti, a forse quindici chilometri, c’era in vetta a un altro monte che sbarrava la valle principale, una strana costruzione quadrata: certo l’abbazia di Montecassino. Mentre l’attesa si prolungava e continuavano sia la sparatoria delle armi portatili che i sibili e le esplosioni dei proietti d’artiglieria, il giovane aveva bene o male un momento per riflettere.
Cosa gli stava succedendo? Come mai queste ferite? Ferito lui che finora era stato invulnerabile, perché destinato da Dio a quell’ignoto compito… in che modo avrebbe potuto assolverlo quel compito se gli fossero venute a mancare le mani? Se addirittura… Ma cos’è che gli stava realmente succedendo? Non riusciva a comprendere.
La voce del suo ferimento era corsa fra gli allievi che con l’esempio e le parole appassionate egli aveva trascinato fin qui: “Dobbiamo togliere l’Italia dalla palude…” tutti quei discorsi. Li aveva convinti, adesso i più vicini lo guardavano con apprensione, l’ufficiale se n’era accorto. “Non vi abbandono, cosa temete?” pensava a momenti in risposta. Per nulla al mondo li avrebbe abbandonati nella congiuntura più difficile che doveva ancora venire; “Se ci resteremo, ci resteremo tutti insieme” aveva detto e ripetuto allora, e così sarebbe stato. Sarebbe stato così, al di là d’ogni tentazione di sottrarsi a questa selvaggia realtà.
A sprazzi gli si affacciava alla mente il suo mondo lontano: i parenti, gli amici, Luca e gli altri, i ragazzi dell’oratorio (“L’arte è l’universale nel particolare…”!), gli operai cui bisognava dar modo di continuare a vivere civilmente. Visti da qui, in prospettiva, parenti, ragazzi e operai formavano una sorta d’unico insieme. Non però Colomba. Quella si staccava da tutti. “Per amor del cielo!” aveva detto sua madre a Novara, vedendola pettinata a quel modo. Manno abbozzò una sfumatura di sorriso. Chissà cosa stava facendo in questo momento Colomba? Forse s’era appena svegliata e pensava a lui? Si chiese chi avrebbe avvertito Colomba e gli altri, se oggi gli fosse capitato di…
Senza dubbio Luca, il suo coetaneo di Nomana, sergente degli alpini, che alcune settimane prima egli aveva – davvero inopinatamente – incontrato in una stazioncina delle Puglie. Che festa era stata! Luca l’aveva riconosciuto per primo: “Signor tenente… cioè, Manno, sei proprio tu? Manno! Son qui anch’io, vedi? Roba da non credere!” Aveva poi spiegato: “L’8 settembre mi trovavo a Brindisi, con un carico di congegni per la divisione Taurinense che sta, cioè stava, in Montenegro. E così… Ma guarda che caso, incontrarci noi due!” Luca s’era subito offerto di venire con lui ai ‘reparti combattenti’, Manno però l’aveva sconsigliato: “No, meglio no, lascia perdere.” Perché l’aveva sconsigliato? Chissà perché; era stata una di quelle scelte istintive, non ragionate. “Beh, ecco, ci penserà Luca ad avvisare gli altri nel caso che io..” Ma basta con questi pensieri, non doveva correre il rischio d’infrollirsi.
L’artiglieria italiana seguitava a picchiare sulla fascia delle postazioni tedesche. Finché arrivò, fatto passare d’uomo in uomo, l’ordine di tenersi pronti a scattare di nuovo avanti. L’allievo che glielo trasmise (il milanese, il quale dal momento in cui l’ufficiale era rimasto ferito, non l’abbandonava) lo completò, sospirando, con un molto convenzionale: “E speriamo che questa sia la volta buona!”
“Su di giri” l’incoraggiò Manno; e volgendosi anche agli altri a portata di voce: “Non possiamo lasciare le cose a mezzo. Dobbiamo dare la prova che siamo decisi a riscattarci, a uscire dalla palude, non dimenticatelo.”
A tali parole l’allievo, emozionato, mormorò qualcosa.
“Cos’hai detto?” gli chiese Manno.
“Ho detto” rispose quello “che voi per noi siete come una bandiera.”
“Ma va” disse Manno.
S’udì l’ordine di ‘fuori!’. Il tenente lo ripeté con forza e si buttò avanti, con le mani fasciate protese come quelle di un pugile; tutti gli altri dietro, mentre intorno e in mezzo a loro ricominciava il finimondo.
Presero a correre su per la salita rocciosa come pazzi, come invasati: dov’erano quelle maledette postazioni tedesche? Dov’erano? Uno, due ragazzi caddero. Altri, pur indenni, si buttarono a terra terrorizzati, uno batteva letteralmente i denti per la paura. “Avanti, cosa fai lì? Su in piedi. Avanti. Avanti.” Gli allievi correvano sparando disordinatamente coi mitra, gridavano: “Savoia! Savoia!”; Manno correva tra i primi, protendendo le mani fasciate: “Italia” urlava con quanta voce aveva in corpo: “Italia! Italia!”.
Cadde improvvisamente in avanti, urtò col frontale dell’elmetto contro il suolo roccioso, quelli che gli erano più vicini udirono distintamente il cozzo del metallo, ma in quell’inferno non si fermarono.
Aveva perso coscienza. La riprese dopo poco: sentiva un gran male tra collo e clavicola, e anche al ventre, specie al bacino; la colonna vertebrale, incredibile, non gli faceva più da supporto, perciò, per quanto egli si provasse, non gli riusciva di rigirarsi. Andava perdendo rapidamente sangue, se lo sentiva per tutto il corpo. “Una raffica” realizzò “è stata una raffica. Dio! Dio!” Per lui era finita, non aveva più scampo… Che cosa orrenda, inammissibile! Ma dov’erano adesso i suoi? La buriana tremenda continuava, gli parve di sentirli gridare poco più avanti… Però a lui cosa importava ormai? Per lui era venuto il momento di morire, di morire! Qui, col viso contro la roccia, non gli restava altro, nient’altro sulla terra che morire! Come ne fu veramente conscio provò un indicibile senso di ribellione. No. No. No. Gli ci volle un grande sforzo per dominarsi, per sottrarsi a una tale rivolta inconsulta. Ansimava. Ciao vita, ciao Colomba, ciao a ogni cosa… No, no, no, non può accadere a me! Non a me! A me no! Sì invece, gli stava accadendo proprio questo. Tanti e tanti altri soldati erano morti, e adesso toccava a lui. Ma allora come avrebbe potuto assolvere il suo compito? Quale compito? Malgrado l’affanno del momento ebbe a un tratto un’illuminazione, anche se, sul principio, molto confusa: la Provvidenza forse l’aveva tenuto in serbo proprio per… per questo? L’aveva destinato a… collaborare all’inizio della risalita, al recupero dell’Italia dalla palude? Nooo… Eppure… Se era così, non gli rimaneva che suggellare la sua opera di trascinatore col sacrificio della giovane vita. Per grazia di Dio lo percepì improvvisamente in modo chiaro, perfetto. Ecco dunque il perché di quella barca pronta per lui in Africa, e poi l’invio in Albania, e… Ma allora già da tempo Dio stava predisponendo il recupero dell’Italia! Quanta pena si dava Dio per le cose degli uomini! “Grazie, Signore Iddio” mormorò Manno col suo ultimo fiato “grazie.”
Sentì, non con l’orecchio della carne ormai, ma coi sensi dello spirito, un principio di fruscio: gli tornarono in mente, come da molto lontano, le parole dell’allievo: “La bandiera!”. Spalancò gli occhi dello spirito per vederla: ma non era la bandiera che frusciava, erano le ali del suo angelo: lo vide in faccia per la prima volta e gli sorrise, mentre intorno a lui si produceva il grande capovolgimento.
Quel giorno non riuscì agli italiani di raggiungere gli obiettivi prestabiliti; alla sera essi vennero ritirati sulle posizioni di partenza: avevano avuto 47 morti e 102 feriti. Otto giorno dopo, il 16 dicembre, l’attacco fu ripetuto, e stavolta con successo. L’azione di Montelungo costituì oggettivamente l’inizio della ripresa dell’Italia, della sua risalita dalla palude: dopo l’esperienza di Montelungo infatti gli ‘alleati’ consentirono che il piccolo ‘raggruppamento motorizzato’ venisse ampliato fino alla forza di due divisioni, che presero il nome di ‘Corpo italiano di liberazione’. Alla fine della guerra le divisioni regolari italiane in linea contro i tedeschi sarebbero state sei.