Sulla “rabbia” italiana, per non sbagliare obiettivo, di Giovanni Amico
- Tag usati: giovanni_amico, italia, politica
- Segnala questo articolo:
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Giovanni Amico. Per approfondimenti. cfr. la sezione Politica ed economia.
Il Centro culturale Gli scritti (23/12/2018)
N.B. de Gli scritti Pur non condividendo ogni passaggio di questa riflessione di Giovanni Amico, la presentiamo sul nostro sito perché apre scenari ben più profondi delle analisi banalizzanti che è facile leggere sui media e che attribuiscono sempre e solo ai politici le responsabilità della crisi del del Paese, dimenticando l'assenza di una prospettiva culturale chiara e comunemente condivisa alla quale ci si rifiuta di lavorare da decenni, privilegiando frammenti di interventi su questioni secondarie.
Alcune recenti indagini hanno evidenziato il senso di insofferenza che domina il Paese. Dinanzi a tale evidenza - che regna anche nel rapporto reciproco fra automobilisti in una via trafficata di una qualsivoglia città italiana – non è parso vero ad alcuni intellettuali di addossarne la colpa all’attuale coalizione di governo, quasi che la nuova maggioranza fosse la causa del fastidio diffuso nella penisola.
Ovviamente tale lettura assolutamente superficiale può emergere ancor più facilmente in quelle analisi che, fotografando lo stato del Paese anno dopo anno[1], possono dare la percezione ottica di un meccanismo apparentemente perfetto e comprensibile: nuovo Governo=rabbia dilagante.
Questa lettura miope dei dati sociologici nega la questione che, invece, ogni “intellettuale” serio dovrebbe approfondire: perché i decenni appena trascorsi – e le impostazioni culturali delle maggioranze che si sono via via succedute - hanno ingenerato la rabbia crescente che ha dato poi gli esiti elettorali che hanno cambiato la guida politica del Paese?
Saltare a piè pari tale questione, negando che si sia avuta un’accumulazione crescente di politiche e proposte culturali che hanno ingenerato pesantezza e fastidio, vuol dire misconoscere i sentimenti delle persone: giusti o sbagliati che siano, essi sono presenti negli animi. Aver bypassato le emozioni degli italiani, non averle ascoltate, non aver canalizzato in un diverso senso propositivo il sentire comune, ha portato all’inversione di tendenza politica che si registra anche in regioni notoriamente di diverso colore politico rispetto alle maggioranze attuali.
Ora, poiché la rabbia è un problema serio e dobbiamo assolutamente combatterla, è necessario invece ascoltare maggiormente il sentire comune, passaggio decisivo in ogni democrazia. Sarebbe gravemente errato e controproducente pensare che sia sufficiente attaccare gli italiani come immorali e populisti, accusando la maggioranza attuale di aver modificato in pochissimo tempo i sentimenti del Paese, fino a ieri ritenuti immuni dal pericolo di tale “rancore”.
L’attribuire alla politica la causa di ciò che avvertono gli italiani e non considerare invece la trascuratezza di ciò che da tempo gli italiani avvertono in maniera problematica come la causa di un diverso orientamento politico espresso poi nelle urne crea l’impasse epistemologica di molti “intellettuali” nostrani.
Una più umile attenzione, invece, alle domande inascoltate degli italiani renderebbe ogni discussine più reale e, soprattutto, meno perdente politicamente.
Permetterebbe, infatti, di cercare soluzioni diverse, rispetto a quelle degli ultimi decenni, ai bisogni che il Paese esprime, talvolta silenziosamente, talvolta con la propria rabbia.
Tutti anelano ad una diversa politica del lavoro e hanno ben chiaro che il Paese si è perso dietro questioni che sono state e continuano ad essere presentate come decisive e non lo sono: alcuni temi secondari hanno canalizzato il dibattito sull’essere progressisti o innovativi, trascurando ciò che è centrale. Senza occasioni crescenti di lavoro il Paese non potrà integrare nuovi migranti, senza l’alleggerimento dei legacci burocratici non sarà possibile a nuove forze economiche creare aziende e cooperative, imprese e negozi, turismo e scambi.
Una classe politica e giornalistica che non ha ancora ammesso i propri privilegi e che non ha avuto il coraggio di ridurre i propri stipendi, anche solo come segno di partecipazione all’evidente stato di malessere della popolazione tutta, è stato un’ulteriore motivo determinante dell’insorgere di un fastidio diffuso.
Allo stesso modo l’insistenza su di promesse di radiosi futuri economici ormai ad un passo, senza mai l’ammissione della gravità della situazione e della necessità di tagli alle spese e al budget anche del welfare, con la corrispettiva valorizzazione di ciò che permette la tenuta del Paese e precisamente del tessuto familiare, ha fatto sì che le parole pronunciate perdessero di ogni consistenza e valore, divenendo equivalenti le une alle altre e orientando la popolazione al “tanto peggio, tanto meglio” o, comunque, al desiderio di un cambiamento qualsiasi, purché uno svolta, anche solo apparente, ci fosse.
Tutti anelano ad un maggior rispetto delle regole, dal comportamento stradale alla piccola malavita. Chiedono maggiore sicurezza nei diversi quartieri. Chiedono che il mercato abusivo gestito dalle mafie che imperversa in ogni angolo delle città e dei luoghi di villeggiatura abbia un freno. Chiedono che il diritto torni ad essere una certezza. Chiedono che si cessi di chiamare diritto ogni pallino di gruppi e persone e si torni a parlare dei doveri che debbono essere portati in palma di mano e di uno Stato che deve farsi garante di una determinata visione della cura di ciò che è pubblico – a partire dalla pulizia e da un argine all’invadenza di venditori ambulanti in ogni angolo e semaforo -, poiché chi abita nel Paese sappia che esistono dei limiti che non possono essere valicati e degli impegni che debbono da tutti essere onorati.
Tutti chiedono un’accoglienza dei migranti meno preoccupata della prima accoglienza e più attenta ad una reale integrazione e ad un intervento preventivo volto a promuovere il potenziale dell’Africa in chiave non assistenzialista ed eurocentrico (o sino-centrico o arabo-centrico).
Tutti attendono una scuola più seria, una scuola che ritrovi passione sui contenuti e sulle grandi tematiche, rifuggendo dalla sterile attenzione alla metodologia e ai filologismi. E molti desiderano che la scuola non si uniformi a modelli scolastici anglosassoni, ma sappia valorizzare la tradizione italiana che, in campo educativo, è grande e ricca. E attendono una maggiore cura nel presentare la storia e l’identità nazionale a chiunque desidera venire ad abitare nel Paese. Molti percepiscono che le questioni del Presepe e del Crocifisso, sulle quali spesso si ironizza con supponenza da parte del sistema culturale fin qui dominate, non sono questioni ecclesiali o peggio ancora ecclesiastiche: il Paese laico, invece, ha sempre più desiderio che si proponga una vera inculturazione, per cui ogni diversa cultura non si ponga semplicemente accanto a quella del Paese stesso, bensì ne venga a conoscenza e sia invitata ad apprezzarla.
Tutti anelano ad una maggiore attenzione alla famiglia, ad un carico fiscale che venga alleggerito nei confronti di coloro che scelgono di mettere al mondo bambini (“fatto” che è una priorità per il futuro del Paese). E desiderano che qualcuno si preoccupi del dilagare delle droghe leggere e della precocizzazione della sessualità.
Il deprezzamento culturale delle famiglie - ancor più grave della mancanza di una fiscalità adeguata a chi ha il coraggio di mettere al mondo bambini - è stato miope, non perché abbia generato rabbia, ma, al contrario, perché ha svilito quel serbatoio di riserve anti-rabbia che sono gli affetti familiari che allenano a resistere ai sentimenti di fastidio e sono la vera risorsa senza il quale il welfare non potrebbe sussistere: in Italia il disagio è notoriamente gestito e sostenuto dalle famiglie che si fanno carico dei componenti in difficoltà. Lavorare sempre e solo sulla singola persona o su rapporti non solidi come quelli familiari, offrendo sostegno culturale a qualsiasi ideologia e mai alla famiglia stessa, ha fatto sì che crescesse esponenzialmente la rabbia dei singoli, non più parte di quelle "repubbliche" ammortizzatrici del disagio e della rabbia che sono le famiglie. Le prospettive cullturali anti-familiari sono una delle cause meno studiate e, invece, più importanti del sentimento di fastidio e di insoddisfazione dell'elettore semplice che, non più parte di un nucleo familiare, lotta da solo contro tutto e contro tutti nella giungla del Paese.
Non accorgersi che esiste una tale domanda nel Paese vuol dire consegnare alle destre la nazione stessa. La rabbia si allevia – e la si rende inoffensiva politicamente - non attaccandola frontalmente, bensì proponendo soluzioni ai motivi che la generano. Ignorare tali motivi e continuare a proporre le politiche che hanno generato la rabbia vuol dire condannare l’Italia a permanere in essa.
Abbiamo bisogno di uno sguardo nuovo che rifugga dai populismi dei decenni precedenti e dai populismi più recenti.
Ovviamente quanto detto non significa che alcuni politici dell'attuale maggioranza non abbiano canalizzato la "rabbia" esistente nel Paese a loro vantaggio: ciò è ovviamente grave. Quanto detto non significa nemmeno che diversi oppositori e "intellettuali", che si dichiarano preoccupati dalla "rabbia", non stiano cercando di canalizzarla a loro volta contro l'attuale maggioranza di governo, nell'evidente intento di creare un ulteriore fronte della "rabbia": ciò è parimenti grave.
Quanto detto significa invece che servono proposte politiche e culturali serie sui temi sopra enunciati e sui motivi di "rabbia" degli italiani.
Note al testo
[1] Il riferimento non è tanto al 52° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2018 del CENSIS, pubblicato il 7/12/2018, quanto piuttosto alle sue interpretazioni sui media, per le quali valga solo come esempio un titolo fra i tanti analoghi scelti dai quotidiani per presentarlo: “Censis: Italiani popolo incattivito e rancoroso, il 63% è ostile verso gli immigrati, l’11% in più della media Ue”.