Il “metodo” ha un contenuto. Su Edgar Morin, la sua pretesa palingenetica, le “teste ben fatte” e le teste almeno mezze “piene”, di Andrea Lonardo
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Riprendiamo sul nostro sito alcune riflessione di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Educazione e scuola e Storia e filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (2/12/2018)
La pedagogia contemporanea si è tutta incentrata sulla prevalenza del metodo rispetto al contenuto. Il maestro per eccellenza di tale svolta è stato Edgar Morin che ha reso famosa un’espressione di Michel de Montaigne: è meglio «una testa ben fatta piuttosto che una testa ben piena»[1].
L’intenzione palingenetica – e già per questo solo fatto sospetta – di Morin è evidente fin dai titoli delle sue opere: Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione e così via[2].
L’attenzione al metodo si è configurata, a partire dalle sue riflessioni, non come un aspetto del complesso discorso educativo, bensì come “la” questione: una nuova metodologia pedagogica è stata ritenuta capace di rinnovare ogni impostazione educativa precedente.
Tutta la sapienza pedagogica del passato è stata, a partire da Morin, ritenuta non solo “superata”, ma “da superare” in quanto non adeguata alla realtà dell’uomo vivo e della sua cultura: educare correttamente sarebbe un portato recente e la nuova pedagogia delle "teste ben fatte" avrebbe finalmente rovesciato impostazioni secolari che mai si sarebbero occupate di ciò. La discussione sulla presunta mancanza di valore del Liceo classico italiano affonda le sue radici nella prospettiva di Morin – senza che ovviamente egli, che italiano non è, ne sia direttamente responsabile.
La sovraesposizione del “metodo” ha significato ovviamente un superamento dell’impostazione materialista che vedeva nei rapporti economici la vera questione.
Ne è derivata l’attuale visione che domina nei Ministeri dell’istruzione, della scuola, dell’università, dell’educazione, di tutta Europa tutta incentrata non sui contenuti, sui “classici”, sulle grandi questioni, sui grandi autori, sulle grandi questioni scientifiche, bensì sulle “competenze”, sulle acquisizioni di metodologie di apprendimento, sul rinnovamento dell’insegnamento tramite i nuovi media, sull’“imparare ad imparare”.
Anche una determinata visione di interculturalità basata sulla “mediazione” e che rifiuta sistematicamente di approfondire culture diverse, per evitare di scandagliarne a fondo gli aspetti problematici.
La questione che appare, però, a nostro avviso, decisiva è un’altra: con tale impostazione che apparentemente si interessa alla sola metodologia si afferma in realtà una precisa visione culturale ed una esplicita presa di posizione contenutistica.
Affermare che la cultura è questione di approccio e che è possibile avere una “testa ben fatta” senza un serio approfondimento di Shakespeare o di Dante, di Socrate o di Kant, di Darwin o di Einstein, di Freud o di Fornari, vuol dire dichiarare a priori, anche senza ammetterlo apertamente in pubblico, che la cultura non ha bisogno di punti di riferimento, di caposaldi, di maestri, di giganti.
Altrimenti sarebbe necessario affermare almeno che per avere una testa “ben fatta” bisognerebbe avere almeno una testa “piena a metà”.
La testa che si vuole progettare non è solo bene o male fatta, bensì rischia di essere piena di contenuti precisi: non esistono fondamenti che superano il tempo, non esistono “classici”, non esistono giudizi di valore.
Ricordo in proposito un dialogo con una mia alunna che intervenne durante una mia lezione quando dissi: «I contenuti sono più necessari dei metodi, perché sono essi a conquistare le menti e i cuori dei ragazzi».
Mi domandò: «Professore, ma la mia prof.ssa di Pedagogia dell’insegnamento sostiene che siano invece più importanti i metodi, perché solo essi sono stabili. Infatti ci ha spiegato che, man mano che i contenuti si trasformano col tempo e cambiano, solo le metodologie invece permangono nel tempo e permettono di rivolgersi ai contenuti nuovi, quando i precedenti vengono superati».
Le risposi: «Vede che la docente, mia collega, le ha insegnato un contenuto più che dei metodi? Le ha insegnato che i contenuti non sono permanenti e che ognuno di essi è destinato ad essere superato. Ebbene proprio questo è un contenuto, anche se è un contenuto sbagliato. Io potrei sostenere invece che sono i metodi ad essere sempre in trasformazione e a divenire in breve tempo antiquati. Dante o Einstein, invece, non tramontano».
Insomma: affermare una precedenza dei metodi sui contenuti è una precisa posizione filosofica dotata di un suo preciso contenuto.
L'affermazione di Montaigne viene allora interpretata da Morin in maniera radicalmente diversa dal senso inteso dal filosofo: «Meglio una testa ben fatta, cioè una testa piena di quel preciso contenuto che è la "complessità" che ritiene impossibile la permanenza nel tempo di ogni presunto "classico", fino al punto che si ritiene di poter essere uomini di cultura ignorandoli, e che ha paura di affermare una "differenza" di valore fra opere diverse, per paura di discriminare».
Una seconda questione, più strettamente pedagogica, deve altresì essere almeno enunciata e precisamente il fatto che da una tale impostazione consegue anche una trascuratezza della questione del “gusto”. Il “metodo” è di per sé arido e non genera “passione” e “gusto”. L’analisi strutturale di un testo, ad esempio, se applicata ad un brano poco significativo, produce noia. Invece un approccio esistenziale alla questione “Beatrice” in Dante genera gusto.
La trasmissione del sapere in ambito umanistico e scientifico si è ammalata di “filologismo” (anche la filologia è metodo e la sua sovraesposizione indica una precedenza del metodo sul contenuto che è dannosa per l’educazione).
Incentrandosi eccessivamente sulla filologia ci si dimentica di trattare – o si ritiene che
non sia politicamente corretto il farlo – del contenuto di un determinato autore, limitandosi ad osservazioni storiche, politiche, filologiche, senza rivolgersi al significato universale e permanente dei suoi testi, senza accedere cioè al significato che il suo messaggio ha per ogni uomo, indipendentemente dal contesto storico[3].
Il famoso proverbio “Se dai un pesce ad un uomo lo sfami per un giorno, se gli insegni a pescare lo sfami per tutta la vita” è sbagliato, perché se a qualcuno non piace il pesce egli, pur avendo imparato a pescare, non pescherà lo stesso. Se invece si trasmette ad un giovane il gusto per un autore o una poesia, se si fa assaggiare a qualcuno un “classico” che tocchi il cuore, ecco che quella persona si appassionerà a tal punto da apprendere poi i metodi necessari.
Le giovani generazioni sono piene di metodologie, ma non hanno più il “gusto” delle cose e manca loro la passione per la cultura. Viene prima il gusto e solo poi il metodo. Anche da un punto di vista pedagogico.
Sul rapporto fra gusto e metodo vedi anche il contributo video che esprime in un diverso linguaggio lo stesso concetto:
Note al testo
[1] Michel de Montaigne, Saggi, a cura di A. Tournon e traduzione di F. Garavini, Milano, Bompiani, 2014, p. 138.
[2] Cfr. Cfr. E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, traduzione di S. Lazzari, Milano, Raffaello Cortina, 2000 e E. Morin, Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione, a cura di M. Ceruti e traduzione di S. Lazzari, Milano, Raffaello Cortina, 2015.
[3] Cfr. su questo: Scienze e sapienza: l’Università come convito. Dialogare con gli antichi come vincere la noia, dimenticare ogni affanno e non essere più sbigottiti dalla morte, di Lina Bolzoni