ANTOLOGIA DI TESTI PER IL I INCONTRO DI FORMAZIONE DELLE GUIDE TURISTICHE SU COSTANTINO (13/11/2018)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 13 /11 /2018 - 14:29 pm | Permalink | Homepage
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1/ L’enorme interesse. Quale idea se ne ha abitualmente, non fra le guide – vi chiedo scusa- ma a volte in ambienti giornalistici e anche accademici

Il conflitto su Costantino. Ma è su di lui o sulla Chiesa? Giovanni Maria Vian, La donazione di Costantino, Il Mulino, Bologna, 2004

Da un’esaltazione esagerata originaria alla denigrazione esagerata ottocentesca

- Nella storia fino all’ottocento, Costantino è il “grande”: cessa la persecuzione ed anzi accoglie la nuova religione che conferirà identità e nuova fecondità all’impero

- La storiografia anticlericale si era impadronita della dimostrazione di Valla: nel 1861 Johann Friedrich Schröder aveva pubblicato un libello polemico sulla storia dei papi con lo pseudonimo «Lorenzo Valla II», nel 1877 John Addington Symonds aveva definito l'umanista un Davide opposto «al Golia della Chiesa» che per primo ne aveva assalito la «tradizione tirannica nel mondo moderno» e nel 1879 Alcide Bonneau - editore di testi rari ed erotici - tradusse in francese lo scritto di Valla, premettendogli uno studio aspramente polemico. In Italia fu l'anticlericalismo risorgimentale ad alimentare dopo la presa di Roma gli studi su Valla, da quello di Alessandro Paoli nel 1872 ai contributi biografici di Luciano Barozzi e di Girolamo Mancini, pubblicati entrambi nel 1891, sino alla traduzione di Giovanni Vincenti del 1895, seguita mezzo secolo più tardi da quella edita con prefazione di Gabriele Pepe, ultimo discendente di questo indirizzo storiografico militante. «Se l'Italia attuando il disegno del Valla avesse infranto allora il duplice giogo papale, quanti dolori non avrebbe evitato!», esclamava Barozzi, consolato però dagli eventi recenti: «Noi d'altra parte vedemmo gli ultimi avanzi di questa vecchia istituzione cader sotto i colpi dell'umano incivilimento. Ecco perché il vecchio umanista sorge ora dall'oblio in tutto il suo splendore». E anche Mancini si diceva convinto che il potere temporale «riuscì sempre a scindere la morale dalla fede, la civiltà dalla religione» e sicuro che «le aspirazioni del Valla divennero realtà dopo 430 anni, il 20 settembre 1870». E ancora nel 1952 Pepe ammoniva che l'opera dell'umanista «è un opuscolo che deve essere meditato da chi voglia capire il moto storico, il progresso dello spirito italiano fino a Machiavelli e al 20 settembre. Se ne curiamo la traduzione e la ristampa si è perché esso è di una impressionante attualità» (Vian).

Al centro delle analisi che lo riguardano non un’attenta analisi né del IV secolo, né dell’VIII nel quale la Donatio fu scritta, bensì il rapporto con la Chiesa e la questione del potere politico

a/ Vedremo nella seconda lezione la nascita della leggenda della Donazione (Affreschi dei Santi Quattro, il Ciclo del Battistero lateranense e delle Stanze di Raffaello)

Il falso che la Chiesa avrebbe prodotto e sfruttato

Non utilizzato in senso politico, bensì come espressione di una consapevolezza (Tessa Canella-Vian- Lonardo) 

b/ Se non sorse in questa maniera, come mai è sorto?

Cfr. Potere necessario/Liberazione nel 1870

c/ Ma Costantino è stato un grande? E come ne dobbiamo parlare? Cosa dobbiamo ricordare di lui?

d/ La “Chiesa costantiniana” è una Chiesa “per interesse”? Cfr. idea del Battesimo, delle conversioni, ecc. 

2/ Alcune indicazioni storiche

Diocleziano e Massimiano gli Augusti

Quando abdicarono vennero promossi augusti Costanzo Cloro e Galerio

Al posto di Costantino furono Cesari Severo e Massimino Daia (esistono monete con Costantino Cesare del 305, cioè nell’anno della proclamazione di Severo e Massimino Daia)

Forse Costantino era come un ostaggio presso Galerio, ma, una volta divenuto il padre Augusto, egli fu lasciato libero di raggiungerlo

Nel 306 Costanzo Cloro morì e l’esercito acclamò Augusto Costantino (vera e propria usurpazione perché si tornava al potere dinastico!)

Invece Galerio fece lui solo Cesare e Severo Augusto

La cosa si complicò perché a Roma venne fatto un ulteriore Augusto Massenzio, figlio di Massimiano e figlio e padre insieme eliminarono l’Augusto Severo

Massimiano, ex-augusto, cominciò a ritenersi il capo della tetrarchia e fece augusto Costantino, sovrapponendosi al figlio

Si videro Diocleziano, Massimiano e Galerio e decisero di far abdicare Massimiano, nominando nuovo Augusto per l’occidente Licinio

Costantino e Massenzio furono fatti filii Augustorum

Massimiano provò a sottomettere Costantino, ma Costantino lo fece uccidere o suicidare

C’erano così 5 imperatori: Galerio, Licinio, Massimino, Massenzio e Costantino dall’altro TRECCANI PRIMI DEL 900: Restavano dunque ora cinque imperatori più o meno legittimi: Galerio, Licinio e Massimino in Oriente, Massenzio e Costantino in Occidente

Morì Galerio dopo aver promulgato un primo editto di tolleranza per i cristiani nel 311

Allora lotta in oriente fra Licinio e Massimino

Alleanza fra l’orientale Licinio e l’occidentale Costantino

Nel 312 Costantino attaccò Massenzio (Arco di Costantino: Milano, Verona, Roma)

Da Roma a Milano per il matrimonio di Licinio con la propria sorellastra Costanza

Nel 313 Costantino e Licinio emanano l’editto di Milano

Licinio torna in patria e sconfigge Massimino

Restano così solo Costantino e Licinio (Oriente ed occidente)

314-324 lotta fra Costantino e Licinio con la definitiva sconfitta di Licinio (prima salvato dalla moglie Costanza e poi ucciso per ulteriore rivolta nel 325)

Nel 326 Costantino fa uccidere in circostanze misteriose la moglie Fausta imperatrice e il figlio Crispo

Si trasferì nel 326 a Costantinopoli

326-330 costruzione della nuova capitale e nuovo nome di Costantinopoli (già Diocleziano aveva scelto Nicomedia)

Istanbul

332 e 334 guerre vinte con i Goti e altre popolazioni: l’impero torna a respirare

337 si ammala mentre sta per partire in guerra contro i persiani a e muore a Nicomedia: sepolto nella basilica dei Santi Apostoli (isoapostolos), oggi Moschea Fatih Mehmet Camii

Sultanahmet camii o Sultan Ahmet camii (da leggere giàmii), meglio conosciuta come Moschea Blu, invece, dove era il Palazzo

Già nel nel 674-678 gli arabi assediano Costantinopoli; per la prima volta vengono sconfitti e si arresta la loro travolgente espansione; il personaggio simbolo della sconfitta è Eyüp-ül-Ensârî-Halit Bin Zeyd, compagno di Maometto; la moschea di Eyüp

Poi assedio degli anni 717-718

Una monarchia assoluta (sulla scia di Augusto, di Aureliano e Diocleziano)

Politica esosa dal punto di vista fiscale

Questo aggravamento d'imposte fu mal sopportato dai sudditi e ad esso si deve la definizione di C. contenuta nell'Epitome de Caes. (41, 46) "per dieci anni eccellente, nei dodici anni successivi predone, negli ultimi dieci chiamato pupillo per le eccessive prodigalità".

Due capitali!

3/ Alcune questioni di grande importanza

- un potere unificato: persiste l’idea di impero

- l’oriente più importante e chiave del futuro

- la duplicazione di Roma (sempre Roma è, ma è la seconda Roma!)

- la libertà del potere religioso dal potere politico che ne seguirà a livello storico: in una città abiterà il papa e in un'altra l’imperatore!

Lo spostamento della capitale a Costantinopoli, un evento di incalcolabile portata: da quella scelta, la futura libertà del papato

Un enorme elemento da ricordare, nel valutare il ruolo storico di Costantino, è la sua decisione di spostare la capitale dell’impero da Roma a Costantinopoli. Fu una scelta gravida di conseguenze storiche.

Abbiamo già visto come la tetrarchia prevedesse due città imperiali, una per l’Augusto d’occidente, Roma, ed una per l’Augusto d’oriente, che alternava la sua residenza fra Nicomedia e Nicea (le odierne İzmit ed İznik in Turchia) o anche Tessalonica ed Antiochia.

Costantino prese la decisione di edificare una nuova capitale cui dette il proprio nome: Costantinopoli. L’inaugurazione della nuova capitale avvenne l’11 maggio 330. Costantino volle che lì sorgesse un nuovo palazzo imperiale, che vi fosse un Senato, che tutta la popolazione ricevesse gratis dall’annona il grano, che vi sorgesse un circo per le corse con le stesse squadre del Circo Massimo di Roma, ecc. Insomma, la volle come una nuova Roma, dotata di tutti i privilegi della prima Roma.

Da quel momento in poi l’imperatore cessò di risiedere a Roma, per abitare sul Bosforo. I secoli successivi dettero ragione alla scelta di Costantino, che probabilmente aveva intuito che il futuro dell’impero si giocava in oriente e che i popoli barbari avrebbero prima o poi fatto irruzione all’interno dei confini dello stato, soprattutto in occidente.

Come è noto il nome odierno della città è İstanbul che viene dal greco “eis ten polin”, cioè “verso la città”, proprio perché Costantinopoli divenne la “città” per eccellenza. Ma Roma restò una città appartenente all’impero. È assolutamente falsa quella visione propagandata dalla scuola per la quale l’impero romano sarebbe finito con l’abdicazione di Romolo Augustolo. Quest’ultimo, infatti, era una figura assolutamente secondaria rispetto all’imperatore che governava l’impero dalla nuova capitale e Roma restò una città amministrata dall’imperatore fino al 752, come vedremo l’anno prossimo.

Pochi sanno che l’ultimo imperatore che venne ad abitare a Roma fu Costante II, nel 663. Egli entrò da legittimo signore nella città e si fermò nel palazzo imperiale del Palatino per quasi due settimane.

La donazione di Costantino è ovviamente un falso, perché Costantino non si sognò minimamente di affidare al pontefice una metà dell’impero, ma lo mantenne ben saldo nelle sue mani. Da un altro punto di vista, però, quella falsa donazione esprime in realtà in forma leggendaria un evento che si verificò realmente, pur non essendo nelle intenzioni dell’imperatore.

Proprio lo spostamento della capitale così lontano, a 50 giorni di navigazione da Roma, fece sì che, man mano che l’impero si indeboliva, l’autorità non solo religiosa ma anche civile dell’urbe venne sempre più a cadere sull’unica figura che aveva un’autorità da tutti riconosciuta in Roma, il pontefice. Lo vedremo meglio l’anno prossimo, ma qui ne cogliamo le radici.

Proprio questa lontananza dalla nuova capitale, permise, quindi alla chiesa di Roma di limitare, nei secoli, i tentativi degli imperatori di intromettersi nelle questioni teologiche. Non è esagerato affermare che la libertà del papato di guidare la chiesa nacque proprio da quell’allontanamento della capitale da Roma, che evitò alla chiesa romana di essere assoggettata dal cesaropapismo che, invece, si verificò in oriente.

Per “cesaropapismo” si intende quella forma di rapporto fra stato e chiesa dove il “cesare” si propone anche come “papa”, come principio ultimo di governo anche della chiesa. L’allora cardinal Ratzinger, in un altro suo intervento, ha ricordato un altro episodio delle mire cesaropapistiche antiche quando l’imperatore Costanzo, alcuni anni dopo Costantino, cercò di ergersi a guida teologica della chiesa e, dinanzi a lui, si levò Eusebio di Vercelli (è un terzo Eusebio, distinto sia da quello di Nicomedia che da quello di Cesarea):

«Agostino ha vissuto in un Impero giuridicamente cristiano, dove il cristianesimo era religione di Stato anche se la maggioranza dei cittadini ancora non erano cristiani. L'imperatore era cristiano e si considerava il protettore della Chiesa, anzi, la personificazione della Chiesa, che era per lui quasi identificata con l'Impero. E in uno Stato in cui il cristianesimo è religione ufficiale, intrecciandosi con i gradi più alti dello Stato, è grande il pericolo che anche il teologo e il vescovo perdano di vista la differenza tra le due cose e si arrivi a una politicizzazione della fede incompatibile sia con la sua libertà sia anche con la sua universalità. In realtà, nel periodo e nella generazione precedenti a sant'Agostino, Eusebio di Cesarea aveva creato una teologia politica in questo senso, nella quale l'Impero e la Chiesa quasi si identificano. L'Impero diventa il modo in cui Dio realizza il suo progetto per la storia. Il problema di quest'identificazione si è rivelato nella crisi ariana, che non è solo una crisi di insegnamento cristologico, di fede cristologica, ma è soprattutto una crisi del problema della giusta relazione tra Stato e Chiesa, tra politica e fede. Pensiamo soltanto all'episodio relativo al Sinodo di Milano del 355, quando Eusebio di Vercelli, una delle grandi figure che resistettero a questa identificazione, rifiutò di sottostare alla volontà dell'imperatore che voleva che egli firmasse un documento di fede ariana. A Eusebio, che considera questo documento non compatibile con le leggi della Chiesa, l'imperatore Costanzo risponde: "La legge della Chiesa sono io". La fede è divenuta, quindi, una funzione dell'Impero. Eusebio è, con pochi altri, una della grandi figure che, come ho detto, resistono a queste insinuazioni e difendono la libertà della Chiesa, la libertà della fede e anche la sua universalità» [13].

Insomma il processo che portò alla libertà della chiesa fu un processo lento, ma l’evento scatenante che portò nei secoli alla nascita dello Stato della chiesa, che fu poi per secoli il provvidenziale garante della libertà di fede dei pontefici, va visto proprio nella decisione di Costantino di spostare la capitale da Roma a Costantinopoli.

4/ La grande persecuzione di Diocleziano

Ai quarant’anni che seguirono la fine delle persecuzioni di Decio e Valeriano - anni che vengono chiamati dagli studiosi la “piccola pace della chiesa” – seguì l’ultima grande persecuzione del periodo romano, quella di Diocleziano.

Diocleziano era originario di Spalato. Ancora oggi il centro storico di Spalato (Split in croato) è costruito sui resti del suo palazzo imperiale e la cattedrale della città ricalca l’andamento dell’edificio che egli si era preparato a propria sepoltura.

** Excursus Spalato

Quando la fede cristiana si diffuse pacificamente nella regione, prima perseguitata a morte proprio dall’imperatore Diocleziano, poi divenendo culto consentito con Costantino, la città di Salona[2] vide l’edificazione di diverse chiese, fra le quali la cattedrale della città, le cui rovine sono oggi visibili. Veneratissimi vi furono i martiri che Diocleziano fece uccidere nel suo odio anti-cristiano e, fra di essi, Domnio (il nome latino Dominus è stato variamente tradotto anche con Doimo o Domnione, in croato Dujam o Duje), vescovo della città, il cui corpo venne sepolto nel cimitero di Manastirine (il nome del luogo indica la presenza di un antico monastero sorto nei pressi di Salona, dove il corpo del martire era venerato).

La città di Salona, con i suoi palazzi, le sue chiese e i suoi monasteri conobbe, però, la tragedia della totale distruzione all’arrivo degli slavi (e degli avari che li avevano assoldati) nella prima metà del VII secolo.

La distruzione della città ad opera degli invasori slavi era posta dagli storici ottocenteschi all’anno 614[3]. La data della distruzione di Salona è fondamentale per la cronologia della trasformazione della residenza imperiale in città perché furono gli abitanti superstiti di Salona a prendere la decisione di trasferirsi all’interno del palazzo costruito da Diocleziano  per potersi meglio difendere in caso di nuovo attacco slavo.

Sebbene un gruppo di studiosi continui a difendere quella datazione, la nuova ipotesi che pone invece il sacco di Salona intorno all’anno 639 ha ormai conquistato il consenso degli storici. Ne è convinto, in particolare, Marasović[4] che elenca una serie di argomentazioni estremamente convincenti sia letterarie che archeologiche. Un dato, in particolare, appare estremamente significativo ed è l’invio a Salona dell’abate Martino da parte del papa Giovanni IV nell’anno 641 per traslare le reliquie di Domnio - unitamente a quelle di altri martiri dalmati - da Salona a Roma. Giovanni IV, di origine dalmata, fece addirittura erigere una nuova cappella, l’attuale Cappella dei Santi Venanzio e Domnione, nel battistero Lateranense per la venerazione di tali reliquie[5].

Tutto lascia ritenere che il papa avesse inviato il suo rappresentante per salvare le reliquie del martire immediatamente dopo la distruzione della città.

L’arrivo delle popolazioni slave fu un evento veramente traumatico e ciò spiega a sufficienza perché la popolazione di Salona si decise ad abbandonare la città per rifugiarsi nel palazzo di Diocleziano più facilmente difendibile. Ostrogorsky racconta che, dopo che già verso la fine del VI secolo gruppi isolati di slavi si erano infiltrati nei Balcani, all’inizio del VII secolo «immense orde di Slavi e di Avari si riversarono su tutta la penisola balcanica fino alle sponde dell’Adriatico a occidente, e a quelle del mar Egeo a sud e a oriente. Dopo terribili devastazioni e saccheggi la maggior parte degli Avari tornò al di là del Danubio, mentre gli slavi si stabilirono sulla penisola e presero possesso del territorio. La dominazione bizantina sui Balcani crollò»[6]. Le orde giunsero alle porte di Costantinopoli e attaccarono la Tracia. Assediarono Tessalonica, ma non riuscirono prenderla.

Con la caduta di Salona, che era appunto il centro amministrativo romano-bizantino in Dalmazia, entravano in crisi anche la dominazione bizantina e il suo influsso culturale nella parte occidentale della penisola. Scrive ancora Ostrogorsky: «Oltre a Salona[7] e ad altre città dalmate, cadde in questo periodo nelle mani degli invasori anche la maggior parte delle più importanti città dell’interno della penisola balcanica, come Singiduno (Belgrado), Viminacio (Kostolac), Naisso (Niš), Serdica (Sofia). Le uniche roccaforti della potenza bizantina che resistevano nella penisola erano – oltre alla stessa Costantinopoli – da una parte, innanzitutto, Tessalonica, dall’altra poche città sulla costa adriatica, come Iader (Zadar, Zara), e Traú (Trogir) nel nord; Butua (Budva), Shkodra (Skadar) e Lisso (Lješ) nel sud»[8].

Col tempo iniziò un lento e difficile lavoro di cristianizzazione degli slavi. I cristiani, che già avevano convertito alla fede i romani, nonostante le persecuzioni, si trovarono ad iniziare un nuovo ed analogo percorso con gli invasori: fu grazie ai cristiani che, proprio a cominciare dalla Dalmazia, nacque la scrittura glagolitica, analogamente a quanto avvenne per il cirillico più a nord[9].

La costa, invece, rimase ancora sotto l’influsso di Costantinopoli e, conseguentemente di Ravenna che l’imperatore aveva costituito a capo dell’esarcato.

Tommaso Arcidiacono[10], l’autore medioevale della Historia salonitanorum pontificum atque spalatensium, detta anche più semplicemente Historia salonitana, racconta che gli abitanti di Salona, guidati da Severo Magno, che doveva essere il principale rappresentante dell’imperatore in Salona, si rivolsero a Costantinopoli, a quel tempo governata da due imperatori – sottolinea Tommaso Arcidiacono -,  per chiedere di poter occupare il Palazzo di Spalato e ricrearvi le strutture cittadine distrutte nel nuovo luogo: “Legationem miserunt ad imperatores constantinopolitanos et petens ut liceret eis in Spalato abitare”[11].

La trasformazione della residenza imperiale in città dovette allora avvenire alla metà del secolo, sebbene esistano alcuni reperti paleocristiani precedenti a questa data, segno che già un’evoluzione era lentamente iniziata[15]

Marasović ritiene – e noi con lui – che uno dei primi interventi fu la trasformazione del Tempio di Giove/Mausoleo di Diocleziano nella nuova cattedrale cittadina, in sostituzione della precedente salonitana ormai scomparsa. Della metà del VII secolo sarebbe, infatti, il portale meridionale della cattedrale, poiché tale datazione sembra la migliore per il confronto con altre opere coeve[16]. Il primo intervento sul Tempio sarebbe stato quello del portale meridionale scolpito come accesso della nuova cattedrale, secondo quanto riferisce Tommaso Arcidiacono: “Il vescovo subito avviò la lodevole opera di purificazione del tempio di Giove dagli idoli falsi, il quale, nell’edificio imperiale si distingueva per le mura più elevate, mettendo la porta e le sbarre all’interno”[17]

Anche la croce posta sopra la Porta Occidentale del Palazzo sarebbe databile agli stessi anni[18].

La ristrutturazione del tempio in chiesa cristiana deve essere posto in relazione alla notizia dell’invio da Ravenna di Giovanni detto appunto il Ravennate. Questo Giovanni di Ravenna venne incaricato, secondo Tommaso Arcidiacono, della traslazione della sede di Salona in Spalato e, quando si trattò di scegliere il nuovo vescovo, si trovò ad essere lui stesso il prescelto[19].

 Il quadro che emerge dal confronto fra i dati letterari riportati da Tommaso Arcidiacono e quelli archeologici è perfettamente aderente a quanto è noto per altri edifici del tempo, ma più ancora risponde ai dati storici relativi all’alto medioevo.

In Roma, i templi pagani restarono non toccati per secoli, nonostante la conversione della quasi totalità della popolazione al cristianesimo. Poiché essi erano ritenuti impuri non venne a nessuno l’idea di trasformarli in chiese finché vi fu memoria del loro utilizzo pagano. Solo dopo che il paganesimo non esisteva più da lungo tempo, i primi templi – che erano fin lì stati preservati a motivo del “pubblico decoro” come attestano numerose leggi imperiali[20] – vennero trasformati in chiese. In Roma il primo tempio a divenire una chiesa fu il Pantheon che venne consacrato nel 609, solo pochi decenni prima della trasformazione del tempio di Spalato[21].

A Roma, come nel caso di Spalato, la trasformazione non avvenne spontaneamente, perché i templi pagani erano di proprietà dell’imperatore e non della Chiesa. Fu l’imperatore a concedere al papa Bonifacio IV il permesso di intervenire sul Pantheon poiché esso era un edificio di proprietà della res publica imperiale. Il fatto è assolutamente rilevante anche perché rivela che l’imperatore era capo dello Stato a Roma e niente poteva essere modificato senza una sua esplicita autorizzazione.

Lo stesso si può dire dell’evoluzione di Spalato da palazzo in città, con la conseguente nuova dedicazione del tempio di Giove di Diocleziano.

Severo Magno, come si è visto, dovette rivolgersi a Costantinopoli, a nome del popolo di Salona, chiedendo di poter occupare il palazzo che era ancora di proprietà imperiale, mentre certamente Giovanni di Ravenna dovette richiedere un’analoga concessione per ottenere il Tempio e cambiarne la destinazione.

Non è da escludere che i due personaggi abbiano agito in sinergia. Certo è che la mancanza di una città fornita di mura nella quale riprendere l’ordinaria vita cittadina, e la contemporanea mancanza di una cattedrale dove riunirsi intorno al vescovo, dovettero spingere i “due imperatori” a concedere entrambi i permessi, per venire in soccorso della popolazione così duramente provata dall’invasione slava.

Diocleziano divenne Augusto d’oriente e Massimiano fu Augusto d’occidente. Massimiano ebbe in occidente Costanzo Cloro, padre di Costantino, come Cesare, mentre Diocleziano scelse Galerio come Cesare d’oriente. Galerio fu poi, fra i quattro, il persecutore più terribile dei cristiani (fra le sue opere più note superstiti è possibile ancora oggi visitare in Grecia il famoso arco trionfale di Tessalonica).

Diocleziano, dopo un primo momento in cui sembrò vicino al cristianesimo, scatenò, invece, una durissima persecuzione con quattro editti successivi.

Con il primo editto, del 303 - era stato preceduto da un editto anti-manicheo - decretò la confisca e la successiva distruzione dei luoghi di culto cristiani, stabilì che le Sacre Scritture fossero date alle fiamme e che tutti i cristiani fossero espulsi dai pubblici incarichi ed inibiti dal compiere atti giudiziari. La persecuzione iniziò proprio con la distruzione della chiesa che era visibile dal palazzo imperiale di Nicomedia.

Così scrive Lattanzio, descrivendo la decisione dell’imperatore di dare inizio alla persecuzione anti-cristiana proprio a partire dalla distruzione di questa chiesa (Lattanzio, Come muoiono i persecutori, XII, 1-5)

«Si cerca il giorno adatto e favorevole per porre in atto il piano: la scelta cade sulla festa dei Terminali, il 23 febbraio, giudicata la data più adatta per mettere fine alla nostra religione. È stato quello il primo giorno di morte, e il principio delle sciagure che capitarono a noi stessi e al mondo. Alle prime luci dell'alba [...] improvvisamente alla luce ancora incerta [del primo mattino] il prefetto si presenta alla chiesa con ufficiali, tribuni e funzionari delle finanze. Scardinano le porte e cercano la statua di un dio; trovate le Scritture, le bruciano; ognuno può prendere quello che vuole: si rapina, è il panico, tutto sottosopra. I principi [Diocleziano e Galerio] intanto osservavano quello che succedeva (la chiesa infatti appariva in alto rispetto al palazzo) e non facevano altro che discutere se era meglio darle fuoco. Prevalse il parere di Diocleziano, che temeva che un grande incendio potesse bruciare pure una parte della città, dato che tutt’intorno [alla chiesa] c'erano molte case grosse. Allora arrivarono i Pretoriani in formazione da combattimento; furono mandati in tutti i punti [dell'edificio], e con asce e altri arnesi di ferro rasero al suolo in poche ore quel tempio così rinomato».

Con i tre editti successivi la persecuzione si inasprì, finché si giunge alle misure estreme, ordinando l’uccisione dei cristiani. Si deve rilevare, però, che, a motivo dell’esistenza dei quattro tetrarchi gli editti vennero eseguiti in maniera differente.

È noto dalle fonti che in Gallia ed Inghilterra, dove il potere era esercitato da Costanzo Cloro, di fatto non ci alcuna persecuzione, mentre in oriente, dove governavano Diocleziano e Galerio, la persecuzione fu molto violenta. A Roma si ebbero degli episodi, ma non in forma così dura come in oriente.

Molti dei santi martiri di cui conosciamo i nomi vennero martirizzati proprio nel corso della persecuzione di Diocleziano. Famosi sono i martiri di Abitene. Sorpresi mentre celebravano l’eucarestia, ai soldati che chiedevano come mai stessero contravvenendo all’ordine dell’imperatore che comminava la morte a chi celebrava la liturgia, risposero: “Sine dominico non possumus” - cioè: “Non possiamo vivere senza celebrare la domenica. Possiamo poi ricordare i nomi di S. Sebastiano e S. Pancrazio a Roma, S. Gennaro a Napoli, S. Lucia in Sicilia, S. Vincenzo di Saragozza in Spagna, Santa Giustina a Padova, e poi ancora S. Agnese, S. Cordula, i Santi Nazareno e Celso, S. Saturnino, i Santi Marcellino e Pietro, S. Vittorino, Sant’Eufemia, i Santi Cosma e Damiano, i Santi Quattro Coronati e così via.

Merita una menzione particolare anche S. Massimiliano, un martire che fece obiezione di coscienza piena al servizio militare. Massimiliano non solo si rifiutò di adorare gli idoli, ma si rifiutò espressamente di prestare servizio militare, anche se gli fosse stata evitata la venerazione degli imperatori e degli dèi pagani.

Gli studiosi pensano che Massimiliano appartenesse ad un gruppo cristiano rigorista, perché a quel tempo molti cristiani già prestavano servizio nell’esercito romano, senza vedervi un’incompatibilità con la fede.

Succede la stessa cosa oggi, quando la chiesa apprezza un pacifismo assoluto, ma riconosce anche che non è un peccato, anzi è una necessità, che ci siano le forze armate, la polizia, l’esercito, ponendo però delle condizioni all’uso della loro forza armata. Se l’esercito o la polizia vengono usati per la difesa e non per l’offesa, non sono da rifiutare a priori, anzi se ne può apprezzare il loro servizio e si può collaborare con essi.

Massimiliano doveva appartenere ad una tendenza presente nel cristianesimo antico che affermava essere contrario al vangelo utilizzare le armi tout court, fosse stato pure solo in chiave difensiva, per salvare dalla morte dei bambini e la popolazione civile. Infatti, a Cartagine, dinanzi al proconsole che gli domandava di essere misurato con lo statimetro e gli chiedeva le generalità, egli rispose: «Perché vuoi sapere il mio nome? A me non è lecito prestare il servizio militare, dato che sono cristiano». Potete leggere i resoconti del suo interrogatorio nell’antologia che vi è stata distribuita. Massimiliano restò fermo nel suo proposito anche quando il proconsole gli disse: «Nella guardia d’onore dei nostri imperatori Diocleziano e Massimiano, Costanzo e Massimo (Galerio), vi sono soldati cristiani e fanno il soldato». Venne allora martirizzato con la decapitazione.

5/ Non una scissione netta fra una Chiesa dei martiri e una Chiesa dei cristiani per interesse

La persecuzione trovò molti cristiani pronti al martirio, ma anche molti che cedettero per paura ed apostatarono dalla fede, proprio come era avvenuto nelle persecuzioni precedenti. Come ai tempi di Decio e Valeriano, si verificò una divisione fra convinti e deboli. Molti cedettero dinanzi alla persecuzione, mentre molti resistettero. E nell’una e nell’altra schiera ci furono catechisti, preti, vescovi, donne, vergini, vedove, diaconi e così via.

La polemica contro i lapsi si acuì di nuovo e Donato ne divenne il capofila. Si fece eleggere “antivescovo” di Cartagine, in opposizione al vescovo cattolico che, come ai tempi di Cipriano, era favorevole alla riammissione dei lapsi, mentre Donato diceva che questa era contro il vangelo e, quindi, impossibile.

Da Donato prese nome l’eresia “donatista” che durerà per 150 anni, invocando una chiesa di “puri”, di “perfetti”, di persone non contaminatesi con peccati gravi dopo l’adesione a Cristo. La grande chiesa, invece, pur riconoscendo la gravità di peccati come l’apostasia, l’adulterio, l’omicidio, continuerà a sostenere l’esistenza della penitenza, della possibilità di essere riammessi alla comunione tramite il perdono. La chiesa, contro i donatisti, continuerà così ad affermare che ogni battezzato, anche se gravemente colpevole, continua ad essere figlio di Dio e deve essere amato, accompagnato, perché comprenda il peccato ed arrivi a chiedere il perdono.

- papa Francesco e una Chiesa di popolo

6/ Costantino fece una scelta azzardata sul cristianesimo, scommise su di esso, nella crisi del paganesimo morente

Gli studi moderni hanno dimostrato che la decisione con la quale Costantino dette la libertà ai cristiani non fu per niente, a quel tempo, una scelta ovvia.

Il cristianesimo, infatti, a differenza di quello che comunemente si pensa, non era ancora maggioranza in tutto l’impero. Probabilmente il cristianesimo era già maggioritario in Siria ed Egitto (così afferma il Mazzarino), probabilmente anche in Africa, ma non lo era certamente in occidente ed, in particolare, a Roma. Il senato, in particolare, era saldamente ancorato alle antiche tradizioni romane che erano chiaramente di stampo pagano.

Qualcuno arriva ad ipotizzare che i cristiani fossero, al tempo della svolta costantiniana, il 40% circa del totale della popolazione dell’impero. Questa enorme crescita numerica era avvenuto in maniera assolutamente pacifica, cioè solo per la testimonianza e la predicazione di altri cristiani. L’aumento numerico dei cristiani era stato costante, nonostante le persecuzioni.

Come ha affermato Benedetto XVI il diffondersi del messaggio cristiano si era basato solo sul Logos e sull’Agape che lo caratterizzava:

«La forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell'intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall'amore reciproco e dall'attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano. Così è avvenuto anche in seguito, in diversi contesti culturali e situazioni storiche. Questa rimane la strada maestra per l'evangelizzazione: il Signore ci guidi a vivere questa unità tra verità e amore nelle condizioni proprie del nostro tempo, per l'evangelizzazione dell'Italia e del mondo di oggi» [6].

Tanti cittadini dell’impero di allora erano stati attratti dalla serietà intellettuale della fede cristiana e dall’amore che la contraddistingueva. Nella mente e nel cuore di tanti, la fede aveva fatto breccia. La testimonianza dei martiri portato i suoi frutti ed una ulteriore crescita numerica doveva esserci stato nei circa quarant’anni di pace seguiti all’Editto di restituzione di Gallieno, anni nei quali, praticamente anche se non giuridicamente, come abbiamo già detto, la fede cristiana era stata “religio licita”.

Manlio Simonetti ha così sintetizzato il rischio che consapevolmente Costantino dovette assumersi, scommettendo il futuro dell’impero sui cristiani: «agli inizi del IV secolo i cristiani costituivano ancora una minoranza, già rilevante in Oriente ma molto meno in Occidente: soprattutto erano quasi completamente pagani gli strumenti essenziali del potere, esercito e burocrazia, nonché la grande maggioranza della classe politicamente e socialmente egemone. Sentimenti anticristiani erano ampiamente diffusi tra gli intellettuali e, più in generale, tra i molti ai quali non sfuggiva l'estraneità, non soltanto religiosa ma anche più latamente culturale, della comunità dei cristiani agli ideali dell'ellenismo e della romanità. Insomma, con la sua svolta Costantino non si limitò affatto a prendere atto di una situazione già definita a favore dei cristiani e a darvi sanzione ufficiale, ma giocò una carta incerta e pericolosa a vantaggio di chi era ancora il più debole: il fatto che essa sia risultata vincente non deve indurre a sottovalutare il rischio insito in quella mossa e perciò l'audace iniziativa di chi ne fu l'artefice» [7].

La benevolenza dell’imperatore verso i cristiani si manifestò nelle donazioni di edifici e di terreni e, soprattutto, nella costruzione delle prime grandi chiese. Costantino fece edificare le basiliche del Salvatore/S. Giovanni in Laterano, con il battistero in cui ci troviamo, e S. Pietro in Roma – il suo sforzo in questo senso è evidente anche a motivo degli enormi lavori che dovettero essere realizzati sul colle Vaticano, violando anche la legislazione che prevedeva la tutela dei cimiteri. Volle la costruzione di una grande basilica a Tiro, dell’Anastasis/S. Sepolcro in Terra santa, di un luogo di culto a Mamre e così via.

Gli imperatori suoi successori continueranno la costruzione di nuove basiliche cristiane e talvolta è difficile capire se taluni edifici siano da attribuire ai discendenti di Costantino o direttamente a lui stesso. Si deve ricordare certamente anche S. Croce in Gerusalemme che fu eretta allora come Cappella palatina nel Palazzo imperiale costantiniano, certamente anche su indicazioni della madre dell’imperatore Elena (recentemente è stato ritrovato un battistero nell’area, ritrovamento che ha rimesso in discussione tutta la materia).

L’imperatore non solo si adoperò per questo edifici, ma iniziò anche una politica fiscale favorevole ai cristiani, esentando da alcune tasse gli edifici ecclesiastici e stabilendo stipendi per il clero, privilegi prima concessi solo ai Templi ed ai sacerdoti pagani.

7/ La pax deorum e le incomprensioni di Costantino sul cristianesimo

Gli studiosi moderni collocano la politica favorevole ai cristiani, inaugurata da Costantino, nell’ottica della cosiddetta pax deorum che aveva sempre contraddistinto la politica imperiale. I diversi imperatori avevano sempre cercato di “ingraziarsi” gli dèi, non solo per venire incontro al favore popolare, ma anche per una convinzione caratteristica dell’uomo antico che fossero le divinità a distribuire favori e potere.

Già Galerio, quello dei quattro tetrarchi che come abbiamo appena visto fu il più feroce nella persecuzione contro i cristiani, quando nel 311 si ammalò, mutò i suoi decreti persecutori, chiedendo addirittura che i cristiani pregassero per lui, attribuendo all’offesa recata al Dio dei cristiani la causa della sua malattia. Così ci riferisce Lattanzio, citando il decreto emanato da Galerio nel 311, mentre era gravemente malato della malattia che lo condusse poi fino alla morte (l’editto è noto come Editto di tolleranza):

«Fra tutte le disposizioni che abbiamo sempre preso per il bene e nell'interesse dello Stato avevamo deciso in precedenza di riformare tutte le cose secondo le leggi antiche e il pubblico ordinamento dei romani, perché anche i cristiani che avevano abbandonato la religione dei loro antenati ritornassero sulla retta via. Infatti gli stessi cristiani a un certo momento erano diventati così ostinati e così folli che non seguivano più gli usi degli antichi - prima praticati probabilmente dai loro stessi avi - ma si facevano da soli a loro arbitrio e capriccio le leggi da osservare, attirando una quantità di popoli in varie parti. Alla fine, quando per nostra autorità fu ordinato loro di tornate agli usi degli antenati, molti furono sottomessi con le minacce, molti anche colpiti con la forza.
Ma siccome moltissimi perseverano nella loro scelta, e noi vediamo che costoro non tributano agli dèi il culto e la venerazione dovuta, né [d'altra parte] onorano il dio dei cristiani, in nome della nostra mitissima clemenza e della costante abitudine in ogni occasione di perdonare a tutti gli uomini, abbiamo ritenuto di dover mostrare pure con loro, senza esitazione, la nostra indulgenza. In tal modo potranno essere nuovamente cristiani e ricostituire le loro comunità, fatto salvo da parte loro il rispetto assoluto dell'ordine costituito.
Inoltre in una prossima circolare daremo ai magistrati
le istruzioni che dovranno osservare. Quindi, in ossequio a questa nostra indulgenza, [i cristiani] dovranno pregare il loro dio per la nostra salute, quella dello Stato e la loro propria, affinché lo Stato si conservi sicuro dappertutto ed essi possano vivere tranquilli nelle loro sedi» (da Lattanzio, Come muoiono i persecutori, XXXV,1-5).

Così, come ha affermato la storica Marta Sordi, «nell'incontro di Milano, che doveva risolvere i massimi problemi politici dell'impero, le decisioni da prendere per prime sono quelle che riguardano la divinitatis reverentia, affinché "qualsiasi divinità ci sia nella sede del cielo, possa essere placata e propizia a noi e a tutti coloro che sono posti sotto il nostro comando": alla base di questa impostazione c'è evidentemente la tradizione romana della pax deorum, l'alleanza con la divinità. [... Il riferimento alla pax deorum è evidente] nel linguaggio del cosiddetto editto di Milano del febbraio 313, impostato nella ricerca di un linguaggio comune, che potesse essere accolto da una religione monoteistica e da un paganesimo "monoteizzante", di natura filosofica e solare e potesse essere sottoscritto dal pagano Licinio e dal cristiano Costantino: quidquid est divinitatis in sede celesti, “qualunque sia la divinità nei cieli” (Lattanzio, De mort. 48)».

Costantino proseguì così l’atteggiamento che aveva contraddistinto i suoi predecessori di venerare le divinità protettrici del mondo, con l’importantissima variante di ritenere che la divinità più potente e suprema fosse il Dio di Gesù Cristo, fino a giungere negli ultimi anni della sua vita ad una esplicita adesione al cristianesimo

- La crisi ariana ed il Concilio di Nicea (325)

L’avvicinarsi dell’imperatore al cristianesimo e poi la sua piena adesione ad esso ebbero delle grandi conseguenze non solo perché permisero la nuova libertà dei cristiani, ma anche perché li obbligarono a nuovi vincoli – è un altro aspetto che viene abitualmente dimenticato nella presentazione di Costantino, che, come stiamo vedendo, è di solito molto imprecisa.

Questo appare immediatamente evidente se si considera il ruolo che l’imperatore volle subito giocare nella crisi ariana, così come, precedentemente, nella questione donatista.

La crisi ariana prende il nome da un prete di Alessandria d’Egitto (l’odierna al-Iskandariyya in Egitto sul delta del Nilo) che si chiamava Ario, nato intorno al 260. Intorno al 320, egli cominciò ad affermare che Cristo era una creatura e non era coeterno con Dio Padre. Egli interpretava l’espressione “figlio di Dio”, riferita a Gesù, nel senso che il Cristo era certamente la più grande delle creature, ma era pur sempre semplicemente una creatura; solo il Padre era perciò Dio. Probabilmente la teologia di Ario voleva salvaguardare l’unicità assoluta di Dio e, per raggiungere questo risultato, gli sembrava necessario sminuire il posto del Figlio di Dio che egli doveva vedere come una minaccia al monoteismo. Ario riprendeva la terminologia origeniana delle tre “ipostasi” (in latino “ipostasi” sarà poi tradotto con “persona”), ma affermava a differenza di Origene, che il Figlio, pur creato prima dei tempi e prima della creazione del mondo, era lo stesso creatura (ktisma e poiema). Il Figlio era, per Ario, l’unica creatura creata direttamente dal Padre, mentre tutto il resto era poi stato creato con la mediazione del Figlio; il Figlio era, comunque, “cronologicamente” posteriore al Padre.

Ario affermava: «Conosciamo un solo Dio, un solo ingenerato, un solo eterno, un solo senza principio, un solo vero, un solo che possiede l’immortalità, un solo sapiente, un solo buono, un solo potente» (Ario, Epistole 2,1.3;1,5; frag.2; cfr. M. Simonetti, La crisi ariana, p. 46).

Uno degli autori più importanti che gli si contrappose fu Atanasio, vescovo di Alessandria d’Egitto, la stessa città di Ario. Atanasio era il successore del vescovo Alessandro, sotto il quale Ario aveva cominciato a predicare la sua dottrina (Atanasio era giovane diacono al tempo dell’episcopato di Alessandro ed Alessandro si servì spesso della sua intelligenza teologica). Gli scritti di Atanasio permettono di comprendere appieno vedere perché la chiesa rifiutò la dottrina ariana. Nei suoi scritti Atanasio spiega che se Gesù non fosse stato coeterno con il Padre, neppure il Padre sarebbe stato Padre dall’eternità e solo successivamente sarebbe divenuto tale:

«Essi [gli ariani dopo Nicea] tengono lo stesso linguaggio temerario dei loro maestri e dicono: “Non da sempre vi è un Padre e non da sempre vi è un Figlio; infatti prima di essere generato, il Figlio non esisteva, ma è stato creato anch’egli dal nulla. Perciò Dio non da sempre è stato Padre del Figlio; ma quando il Figlio fu fatto e creato, allora anche Dio fu chiamato Padre suo. Il Logos infatti è creatura e opera, estraneo e diverso dal Padre secondo la sostanza (kat’ousían). Inoltre il Figlio non è il naturale e vero Logos del Padre, né la sua unica e vera Sapienza, ma è una creatura, ed essendo una delle opere, solo impropriamente è chiamato Logos e Sapienza. Anch’egli infatti è venuto all’esistenza, come tutte le altre cose, mediante il Logos che è in Dio. Perciò il Figlio non è Dio nel senso vero e proprio del termine” (da Atanasio, Il Credo di Nicea, 6, 1, p. 67 dell’edizione Città Nuova, Roma, 2001).

E risponde ai teologi ariani:

«Io però vorrei anzitutto chiedere a costoro che cos’è “figlio” in generale e che cosa significa questo nome, perché così possano capire quello che dicono. In effetti, la Sacra Scrittura ci indica un duplice significato di questo nome. Il primo lo si trova dove Mosè dice nella legge: Se voi ascolterete la voce del Signore Dio vostro e metterete in pratica tutti i precetti che io oggi ti comando, così da fare ciò che è bene e ottimo davanti al Signore Dio tuo, sarete figli del Signore Dio vostro. Parimenti nel Vangelo di Giovanni dice: A quanti lo hanno accolto, ha dato loro il potere di diventare figli di Dio. L’altro significato si ha quando diciamo che Isacco è figlio di Abramo, Giacobbe è figlio di Isacco e i capostipiti delle [dodici] tribù sono figli di Giacobbe.
Ora essi, per dire quelle favole sul Figlio di Dio, secondo quale delle due accezioni lo intendono? Sono convinto infatti che essi vanno a finire nello stesso errore degli eusebiani. Se dunque [il Logos] è [Figlio] secondo la prima accezione – cioè nel senso di coloro che attraverso il progresso morale ottengono la grazia del nome e ricevono il potere di diventare figli di Dio (ciò infatti dicevano anche quelli) – [il Figlio] non differirebbe in nulla da noi e non sarebbe più Unigenito, avendo anch’egli ottenuto l’appellativo di Figlio a partire dalla sua virtù. Ma, essi dicono, egli ha ricevuto in anticipo il nome [di Figlio] e la gloria relativa a questo nome subito al suo primo esistere, perché [Dio] nella sua prescienza sapeva che sarebbe stato tale, [cioè] virtuoso
» (da Atanasio, Il Credo di Nicea, 6, 2-5, p. 68 dell’edizione Città Nuova, Roma, 2001).

Atanasio mostra, cioè, che proprio perché Gesù è il Figlio eterno del Padre, noi possiamo comprendere che Dio è veramente Padre. In questa maniera difende la novità della fede cristiana, la verità della rivelazione neotestamentaria che afferma che nel Figlio Dio si è finalmente rivelato. Non c’era un altro Logos nel Padre, differente dal Logos che è il Figlio. Se ci fossero stati in Dio due diversi Logos, uno eterno e l’altro creato noi non avremmo incontrato il Logos di Dio nell’incarnazione. No, invece! Si è incarnato veramente il Dio vivo e vero.

Se Gesù fosse stato solo una creatura, Dio non si sarebbe ancora rivelato all’uomo e l’uomo non avrebbe potuto vedere il vero volto di Dio, perché Dio non avrebbe abitato in mezzo a noi. Tutto il Prologo di Giovanni non avrebbe alcun senso, ma non avrebbe alcun senso tutta la fede cristiana, che afferma che Dio si è infine rivelato e che nell’amore del Figlio ci ha amato personalmente.

Dinanzi alle affermazioni di Ario - che Dio non era sempre stato Padre, ma lo era diventato solo successivamente, quando aveva deciso di creare il figlio, e che il Figlio non era propriamente il Logos, ma veniva a sua volta dal vero Logos - molti cristiani capirono che le sue tesi non erano rispondenti né ai vangeli, né alla fede degli apostoli e della chiesa. Altri, invece, si schierarono dalla parte di Ario.

Ne seguì una grande discussione, che si allargò ben al di là di Alessandria d’Egitto. Costantino, preoccupato della divisione che serpeggiava nell’impero, decise di convocare un concilio nel 325 a Nicea (oggi İznik in Turchia) per dirimere la questione. I padri conciliari si espressero con una Professione di fede, il Credo niceno appunto, che affermava che il Figlio era omoousios, cioè “della stessa sostanza del Padre” (“ousia”, in greco, vuol dire “sostanza”), cioè coeterno con il Padre e Dio come il Padre stesso.

Gli ariani attaccarono questa professione di fede affermando che innovava rispetto alla Scrittura. Atanasio ci aiuta ancora una volta a capire quale fu la risposta della grande chiesa:

«Per contro, sono rimasto attonito per la sfrontatezza degli ariani: benché i loro ragionamenti si siano dimostrati fallaci e vani, ed essi siano stati condannati da tutti per totale insensatezza, nonostante ciò continuano a mormorare al modo dei giudei, dicendo: “Perché i [vescovi] riuniti a Nicea hanno usato le espressioni “dalla sostanza” (ek tês ousías) e “consostanziale” (homooúsios), non contenute nella Scrittura?”» (da Atanasio, Il Credo di Nicea, 1,1, p. 54 dell’edizione Città Nuova, Roma, 2001).

È facile vedere come le accuse di aver ellenizzato la fede con i Concili, così frequente oggi, è una tesi antichissima. Il Concilio di Nicea rigettò questa tesi, mostrando anzi che l’utilizzo di quella parola serviva a respingere la tesi, questa sì innovatrice, di Ario che Gesù non fosse il vero Logos originario di Dio. Quella parola omoousisos serviva a custodire la novità evangelica di Gesù Figlio di Dio. Gesù era Figlio di Dio non secondo quell’idea di figliolanza adottiva che era stata utilizzata dagli imperatori o dai faraoni – che avevano affermato di essere stati scelti come figli adottivi di Dio per il governo della terra – e nemmeno nel senso che ha l’espressione “siamo tutti figli di Dio” e nemmeno se si connota la figliolanza come espressione di una santità speciale che rende individui di un’altissima moralità particolarmente vari e vicini a Dio.

No. Gesù era l’unico Figlio del Padre, perché in Dio c’è l’amore del Padre e del Figlio e se non c’è l’uno non c’è neanche l’altro. La figliolanza del Figlio non ha paragoni che possano sussistere.

In un meraviglioso testo moderno, il grande scrittore inglese G. K. Chesterton, così presenta il vero nucleo della questione ariana (da L’uomo eterno, Rubbettino 2008, pp. 281-282):

«Se c’è una questione che gli illuminati e i progressisti hanno l’abitudine di deridere e di mettere in vista come un orribile esempio di aridità dogmatica e di stupido puntiglio settario, è questa questione atanasiana della co-eternità del Divin Figlio. D’altra parte, se c’è una cosa che gli stessi liberali sempre ci mettono innanzi come un tratto di puro e semplice Cristianesimo, immune da contese dottrinali, è la semplice frase: “Dio è Amore”. Eppure, le due affermazioni sono quasi identiche; per lo meno una è quasi un nonsenso senza l’altra. L’aridità del dogma è la sola via logica per arrivare ad affermare la bellezza del sentimento. Poiché, se c’è un essere senza principio, che esisteva prima di tutte le cose, che cosa poteva Egli amare quando non c’era nulla da amare? Se attraverso l’impensabile eternità Egli è solo, che significa dire: “Egli è amore”? La sola giustificazione di tale mistero è la mistica concezione che nella Sua stessa natura c’era qualche cosa di analogo all’autoespressione; qualche cosa che genera, e che contempla quel che ha generato. Senza tale idea, è illogico complicare la estrema essenza della divinità con un’idea come l’amore. Se i moderni realmente abbisognano di una semplice religione di amore, devono cercarla nel Credo atanasiano. La verità è che lo squillo del vero Cristianesimo, la sfida della carità e della semplicità di Betlemme e del Natale, mai suonò così decisamente e chiaramente come nella sfida di Atanasio al freddo compromesso degli ariani. Fu lui che realmente combatté per un Dio di amore contro un Dio incolore e lontano dominatore del cosmo; il Dio degli stoici e degli agnostici».

Più recentemente è stato Benedetto XVI a mostrare l’importanza della questione, nel suo libro Gesù di Nazaret che si chiude proprio con una riflessione sul Figlio “della stessa natura del Padre”, dopo averne già trattato precedentemente (J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, p. 405 e p. 368):

«È stato necessario chiarire compiutamente questo nuovo significato [dell’espressione “figlio”] mediante processi molteplici e difficili di differenziazione e di ricerca faticosa, per proteggerlo dalle interpretazioni mitico-politeistiche e politiche. Questo fu il motivo per il quale il Primo Concilio di Nicea (325 d.C.) impiegò l’aggettivo homooúsios (della stessa sostanza). Questo termine non ha ellenizzato la fede, non l’ha gravata di una filosofia estranea, bensì ha fissato proprio l’elemento incomparabilmente nuovo e diverso che era apparso nel parlare di Gesù con il Padre. Nel Credo di Nicea la Chiesa dice insieme con Pietro sempre di nuovo a Gesù: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16)».

E, nel corso del volume:

«L’espressione Figlio di Dio collegava Gesù con l’essere stesso di Dio. Il genere di questo legame ontologico, tuttavia, divenne oggetto di faticose discussioni da quel momento in cui la fede volle dimostrare anche la propria ragionevolezza e riconoscerla in modo chiaro. Egli è Figlio in senso traslato – nel senso di una vicinanza particolare a Dio – oppure questa espressione indica che in Dio stesso vi è un Padre e un Figlio? Che Egli è davvero «uguale a Dio», Dio vero da Dio vero? Il primo Concilio di Nicea (325) ha riassunto il risultato di questa ricerca faticosa nella parola homooúsios («della stessa sostanza») – l’unico termine filosofico entrato nel Credo. Questo termine filosofico serve tuttavia a proteggere l’affidabilità della parola biblica; vuole dirci: se i testimoni di Gesù ci mostrano che Egli è «il Figlio», non lo intendono in senso mitologico o politico – le due interpretazioni che si impongono a partire dal contesto dell’epoca. Questa affermazione va intesa letteralmente: sì, in Dio stesso vi è dall’eternità il dialogo tra Padre e Figlio che, nello Spirito Santo, sono davvero il medesimo e unico Dio».

I padri di Nicea sottoscrissero questo Credo (che sarà poi ampliato, come vedremo nei prossimi incontri, nel 381 e diventerà il Simbolo niceno-costantinopolitano, che recitiamo nella liturgia domenicale) [8]:

«Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili ed invisibili. Ed in un solo Signore, Gesù Cristo, figlio di Dio, generato, unigenito, dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre [in greco: consustanziale], mediante il quale sono state fatte tutte le cose, sia quelle che sono in cielo, che quelle che sono sulla terra. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo, si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto e risorse il terzo giorno, salì nei cieli, verrà per giudicare i vivi e i morti. Crediamo nello Spirito Santo».

Le affermazioni di Atanasio ci fanno percepire che la fede è un unico atto e che la fede cristiana è, in fondo, semplice. Dall’amore del Padre e del Figlio discende tutto ciò che crediamo. Si potrebbe dire, con un’espressione moderna, che la fede cristiana non è simile ad un tessuto patchwork dove vengono assemblate cose eterogenee fra di loro. A Nicea i padri professarono che poiché Dio era veramente Padre, allora veramente aveva generato nell’eternità il Figlio: se fosse stato sconfessato l’uno, anche l’altro non avrebbe potuto essere creduto [9].

È importante anche sottolineare che a Nicea i vescovi scelsero per il Simbolo di fede la prima persona plurale: “noi crediamo”. Questa espressione non nega l’“io credo”, non si contrappone al carattere personale della fede, ma vuole sottolineare che la fede ha un carattere ecclesiale, che ogni persona riceve il Credo dalla fede di tutta la Chiesa. È la Chiesa, infatti, che ci porge Cristo.

-Costantino non comprese il valore della teologia nel cristianesimo

La discussione sull’arianesimo fu infuocata e non terminò con il Concilio di Nicea, ma proseguì fino al Concilio di Costantinopoli del 381, per continuare poi, in forme diverse, fino al Concilio di Nicea II, come vedremo il prossimo anno.

È famoso un passo di Gregorio di Nissa che afferma:

«Tutti i luoghi della città sono pieni di costoro: i vicoli, le piazze, i fori, le strade: venditori di mantelli, cambiavalute, venditori di cibo. Se ti informi sul denaro, quello ti fa una dissertazione sul generato e sull’ingenerato; se chiedi il prezzo del pane, ti si risponde che il Padre è maggiore e il Figlio inferiore; se chiedi se è pronto il bagno, quello sentenzia che il Figlio deriva dal nulla. Non so come si debba chiamare questo male: frenesia, pazzia, o una forma di epidemia che travolge le menti» (da Gregorio di Nissa, De Deitate Filii et Spiritus sancti, in PG XLVI 557).

Gregorio, che è uno dei padri cappadoci, critica questo straparlare che si faceva ovunque delle questioni cristologiche, ma ci rivela al contempo come fossero accese anche a livello popolare le discussioni su Gesù.

In questo divampare di discussioni, proprio Costantino non riuscì a capire perché per i cristiani la teologia fosse così importante. È famosa una sua lettera scritta quando era appena scoppiata la disputa fra Ario ed Alessandro, predecessore di Atanasio, vescovo di Alessandria.

Costantino scrive:

«Dico queste cose non per costringervi ad essere completamente d’accordo su una questione fin troppo sciocca, quale che possa essere. Infatti voi potete conservare integra la dignità dell’assemblea e mantenere l’accordo fra tutti, anche se fra voi c’è disaccordo su questioni di minimo conto: infatti non vogliamo tutti le stesse cose né abbiamo una sola indole e una sola idea».
(da una Lettera di Costantino, in Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, LXXI, 6).

E, nella stessa lettera, ripete espressioni simili: «il pretesto da cui sono scaturiti [i conflitti] mi è apparso assai insignificante e niente affatto degno di una simile contesa» (LXVIII, 2) ed invita a valutare «se sia opportuno che una contesa verbale banale e di poca importanza spinga i fratelli a opporsi ai fratelli e che a causa di un’empia discordia si divida la preziosa unità del sinodo, per colpa nostra che litighiamo tra noi su questioni trascurabili e niente affatto necessarie» (LXXI, 3).

Nella lettera l’imperatore manifesta chiaramente il suo punto di vista: a lui interessa solo che ci sia pace nell’impero, perché una discordia lo indebolirebbe. Afferma di comprendere una divisione che potrebbe nascere dall’interpretazione delle “leggi” religiose, ma non una che ha a che fare con il dogma. Invita, pertanto, a tacere le discordie dogmatiche ed a tenerle per sé, senza turbare gli animi: «la vostra contesa non entra nei meriti dei principali precetti della Legge» (LXX) e ciascuno, dinanzi a queste questioni dogmatiche è invitato «a tenerle chiuse nella [...] mente e a non esternarle temerariamente nelle riunioni ufficiali, né ad affidarle sconsideratamente alle orecchie del popolo» (LXIX, 2).

Costantino ragiona come gli imperatori suoi predecessori: nel paganesimo non c’era questione di “verità”, di una adesione interiore che andava definita e precisata. Contava piuttosto l’ossequio esteriore, l’osservanza del culto e dei precetti. Anche nel corso della persecuzione dei cristiani l’atteggiamento era stato lo stesso. Non importava convincere i cristiani della “verità” del paganesimo, bastava che pubblicamente venerassero gli imperatori come dèi ed offrissero sacrifici agli dèi di Roma

Per questo Costantino tratta il cristianesimo come i suoi predecessori trattavano le altre religioni antiche: “Che ognuno compia gli atti di culto ed obbedisca alle leggi religiose e si tenga per sé le convinzioni personali sulla verità”. Costantino, insomma, non capisce che non è così nel cristianesimo: se, infatti, Gesù non è Figlio di Dio, tutto cambia! Se Gesù non ha rivelato Dio all’uomo, allora il cristianesimo non ha alcun senso.

Costantino scelse, insomma, il cristianesimo, ma non ne capì fino in fondo l’originalità e si comportò come se si trovasse ancora dinanzi a sacerdoti pagani, invitando i cristiani a soprassedere su questioni che non riguardassero il comportamento, la morale o le leggi.

Ha scritto in maniera splendida sulla questione il prof. Simonetti: «Se infatti Costantino, quando si autoelesse capo della chiesa, aveva pensato di assumersi un incarico privo di complicazioni, quale era la funzione di pontefice massimo, aveva fatto male i suoi calcoli, in quanto aveva sottovalutato una caratteristica forte, che specificava la chiesa cristiana nei confronti delle religioni pagane, vale a dire la grande litigiosità interna. A differenza di quelle religioni, quella cristiana aveva alle spalle una sua storia e continuava a viverla giorno per giorno, storia tormentata, a volte convulsa, perché fatta in gran parte di contrasti e polemiche, rivolte non solo all'esterno, nel confronto con pagani e giudei, ma anche, e addirittura soprattutto, all'interno, per motivazioni di carattere sia dottrinale sia anche disciplinare. Quanto a Costantino, e al figlio Costanzo che avrebbe seguito, in sostanza, la politica paterna, il fallimento sarebbe stato dovuto al rifiuto, da parte della maggior parte degli interessati, anche se non di tutti, di distinguere tra forma e sostanza, tra l'accettazione soltanto esteriore di una professione di fede e l'adesione intima a un'altra. Il patrimonio di dottrina, che specificava la religione cristiana di fronte a quella pagana, che ne era priva, e anche a quella giudaica, dove era di entità molto più ridotta e di significato molto meno vincolante, era sentito come componente essenziale del deposito di fede e perciò tale da imporre un'osservanza in cui sostanza e forma s'identificassero, perciò senza distinzione tra adesione esterna e interna. La rabies theologorum era perciò destinata ad avere la meglio sulla moderazione di una politica di compromesso» [10].

Anche oggi chi contesta il ruolo del dogma nella chiesa, non si rende conto che la questione della verità è decisiva nella fede cristiana. In fondo, non capisce affatto cosa sia il cristianesimo!

Merita sottolineare, fra l’altro - questo è molto interessante anche per la fede oggi – che Ario pretese di dedurre il fatto che Gesù era solo una creatura da un passo dell’Antico Testamento, segno che tutta la Scrittura era letta in chiave cristologica anche da lui! Nella stessa lettera che abbiamo citato, infatti, Costantino si riferisce ad «un passo contenuto nella Legge» (LXIX, 1), che è Pr 8,22-23, dove la sapienza dice: «il Signore mi creò». Poiché la Sapienza è il Figlio e poiché nell’Antico Testamento la Sapienza dice “Dio mi creò”, ecco che Ario ne deduce che la Sapienza è creata!

L’incomprensione di Costantino verso la teologia cristiana non terminò, comunque, con le prime fasi della controversia, ma anzi si aggravò con il tempo. Infatti l’imperatore, dopo aver portato a termine il Concilio di Nicea con la condannò della posizione ariana, fece poi di tutto perché gli ariani fossero reintegrati nella piena comunione della Chiesa, senza che rinunciassero alla loro fede.

Per lo stesso motivo, quando fu battezzato in punto di morte, come si è già detto, da Eusebio di Nicomedia, non si fece problemi nel ricevere il battesimo da un vescovo la cui fede non era perfettamente in linea con l’ortodossia nicena. Eusebio di Nicomedia (da non confondere con Eusebio di Cesarea), fu, infatti, nemico dichiarato delle posizioni teologiche di Atanasio.

8/ Le leggi costantiniane sulla religione al di là dell’editto di Milano con Licinio

Nel 315 una legge minacciava di gravi pene gli ebrei che avessero perseguitato i loro correligionarî che si fossero convertiti ad Dei cultum.

Altre prove di un'adesione sempre maggiore di C. al cristianesimo sono le due leggi del 319, l'una (Cod. Theod., XVI, 2, 2) nella quale ai sacerdoti cristiani qui divino cultui ministeria impendunt sono concesse speciali immunità, e l'altra (Cod. Theod., IX, 16, 1) nella quale viene proibita l'aruspicina privata. Ugualmente vengono proibiti i sacrifici privati in una legge del 320 (Cod. Theod., XVI, 10, 1) nella quale si ordinava che si interrogassero gli aruspici nel caso che il fulmine avesse colpito il palazzo imperiale o un altro edificio pubblico. Nel 321 C. permise di far testamento a favore delle chiese cattoliche (Cod. Theod., XVI, 2, 4); notevole la frase: Sanctissimo Catholicae Ecclesiae venerabili concilio. Nello stesso anno dichiarò la domenica giorno festivo a tutti gli effetti (Cod. Iust., III, 12, 2; Cod. Theod., II, 8, 1) e nel 323 (Cod. Theod., XVI, 2, 5) minacciò di gravi pene chi avesse obbligato i cristiani a celebrare cerimonie pagane.

La stessa evoluzione si nota nelle monete: fino dal 314 la zecca di Tarragona coniò monete recanti la croce: dal 317 al 320 la zecca di Siscia impresse il monogramma cristiano. Col 320 sparirono del tutto diciture alludenti a divinità pagane e si osservarono invece iscrizioni indifferenti (come Saeculi felicitas, Roma Aeterna, Vota publica). Nel secondo periodo, dunque, C. dimostrò verso il cristianesimo una benevolenza sempre più spiccata. Questa tendenza si andò sempre più accentuando nel terzo periodo, non soltanto per i sentimenti personali del sovrano, ma anche per ragioni politiche. Con la vittoria definitiva su Licinio, C. passava a governare paesi nei quali i cristiani erano ormai in maggioranza. Il suo primo atto in questo periodo fu l'editto agli Orientali del 324 riportato da Eusebio (Vita Const., II, 48,60).

Segue poco dopo (v.C. II 48-60) la lettera ai provinciali d’Oriente (15 Kraft); è indirizzata a un uditorio prevalentemente pagano ed è suddivisa in tre parti: introduzione, ricordo della persecuzione di Diocleziano e dei suoi successori a eccezione di Costanzo Cloro – qui compare l’invito a non serbare rancore contro i pagani –, preghiera.

Nell'editto C., dichiarandosi apertamente cristiano, esortava tutti i suoi sudditi a convertirsi al cristianesimo: quelli però che non volessero convertirsi erano tollerati e lasciati in pace. Quindi, negli ultimi tredici anni del regno di C., il paganesimo dalla condizione di religione ufficiale dello stato era ridotto a un culto semplicemente tollerato. Tollerato e non perseguitato, per quanto Eusebio parli a più riprese di leggi dell'imperatore che ordinavano la chiusura dei templi e la proibizione dei sacrifici (Vita Const., II, 45; IV, 23 e 25).

Lo dimostra l'iscrizione di Spello (Corp. Inscr. Lat., XI, 5265) che riporta un rescritto col quale C. tra il 326 e il 333 concesse agli abitanti di Hispellum di dedicare un tempio alla Gens Flavia nel loro paese e di trasportare da Volsinium la sede del culto imperiale (la limitazione contenuta nel rescritto imperiale ea observatione praescripta ne aedes nosiro nomini dicata cuiusquam contagiosae superstitionis fraudibus polluatur sembra riferirsi alle forme di culto non permesse dalla legge; cfr. Crivellucci, Della fede storica di Eusebio, Livorno 1888, pp. 17-19), e lo dimostra pure la legge pubblicata a Cartagine proprio alla vigilia della morte dell'imperatore (21 maggio 337; cod. Theod., XII, 5,2) con la quale si liberavano dalla carica di praepositus annonae e da altri inferiora munera i sacerdotales atque flamines atque etiam "duumvirales; tale legge doveva essere incisa su tavola di bronzo. Le distruzioni dei templi di Aphaca (Eus., Vita Const., III, 55) e di Eliopoli (Eus., Vita Const., III, 56; Socrat., Hist. Eccl., I, 18) in Siria furono dovute non a ragioni strettamente religiose ma a ragioni di pubblica moralità: disposizioni simili erano state prese da imperatori pagani. Infine Eutropio (Epit., X, 8,2) riferisce che C. dopo la sua morte meruit inter divos referri, mentre questo solenne titolo non gli sarebbe stato certo concesso dal Senato di Roma se avesse perseguitato apertamente il paganesimo.

L'influsso del cristianesimo risulta evidente in molte leggi di C.: così quella che punisce l'omicidio degli schiavi compiuto dai rispettivi padroni (Cod. Theod., IX, 12,1) e quella che proibisce di separare le famiglie di schiavi mediante cambiamenti di proprietà (Cod. Theod., II, 25 un.). Così il divieto, almeno in principio, dei giuochi gladiatorî (Cod. Theod., XV, 12,1), la punizione dell'adulterio e di ogni forma di concubinato (Cod. Iust., V, 26 un.): da notarsi che venne permessa la legittimazione dei figli nati dalla libera unione di celibi con donne non maritate (Cod. Iust., V, 27,5).