“Quando vale la pena fare qualcosa, vale la pena farla male”, di Annalisa Teggi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 18 /11 /2018 - 16:06 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito Aleteia un articolo di Annalisa Teggi pubblicato il 30/10/2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (18/11/2018)

Quando mi trovai a tradurre dall’inglese la frase che campeggia nel titolo, pensai a un errore di stampa. Era ovviamente una frase sbagliata, secondo me. E invece no: è l’ipotesi che noi valiamo più dei nostri meriti, la nostra incapacità è ciò che serve a Dio per tenere in piedi il progetto buono della Creazione. Chesterton mi ha abituato ai paradossi, ma questo li batteva tutti.

Un discreto 90%

Una volta verificato che non ci fosse alcun errore tipografico nella suddetta frase, ho dovuto confrontarmi con un contenuto umano che è deflagrato di fronte ai miei occhi come un abbraccio.

Sono stata educata a essere obbediente e ligia ai doveri, a lamentarmi poco e fare il più possibile, a rimboccarmi le maniche e dare il meglio di me. Possibile che questa prospettiva fosse sbagliata? No, non sbagliata, solo incompleta. Ad un mondo che idolatra trionfi e successo, Chesterton ha proposto una incoraggiante alternativa:

«Ciò che rende difficile all’uomo comune di essere universale è che l’uomo comune deve essere uno specializzato; non solo deve imparare un mestiere ben preciso, ma deve impararlo così bene da tenerselo stretto in una società parecchio spietata. […] l’uomo non deve semplicemente fare qualcosa, ma deve farla meglio di tutti. […] È abbastanza vero che ogni uomo deve avere un colpo di genio, perché ha solo un colpo in canna – e viene gettato nudo nella battaglia. In breve (come suggerisce il libro del Successo) egli deve dare ‘il suo meglio’, e quanta poca parte di lui è ‘il suo meglio’! Il suo ‘discreto’ è spesso molto meglio. Se è il primo violino, allora è costretto a suonare per sempre, dimenticandosi che è una gradevole e buona cornamusa, una bella e discreta stecca da biliardo, un fioretto, una penna a sfera, una partita a bridge, una pistola e un’immagine di Dio». (da Cosa c’è di sbagliato nel mondo?)

Subito, di fronte alla domanda: “quanta poca parte di te è il tuo meglio?“, si è spalancata una finestra nella mente. Nel mondo del lavoro la pressione meritocratica è opprimente, ma l’orizzonte della vita è molto più ampio e, ad esempio, nell’ambito familiare è evidente che, se servisse solo il meglio di me, un buon 90% della mia persona andrebbe perso. In casa, con gli amici, nella vita di tutti i giorni faccio cose di cui non sono capace, ed è necessario che mi metta all’opera e non che sia perfettamente pronta a farlo.

Un’amica ti telefona disperata alle 10 di sera quando fai persino fatica a tenere gli occhi aperti, ma lei è in una situazione grave e il tuo conforto può fare la differenza. Non hai ha disposizione enciclopedie di psicologia, neppure hai la lucidità sufficiente a mettere in piedi un ragionamento bello; eppure la aiuti, come puoi. “Come puoi” è tutto ciò di cui c’è bisogno; sei lì, non sfuggi dalla situazione. A volte capita pure che di venir ringraziati per consigli dati in momenti in cui ci sentivamo inadeguati. Perché? Forse perché non abbiamo anteposto l’apprensione dell’aspettativa alla voce del cuore.

In famiglia è la stessa cosa. Una mamma e un papà sono abituati a fare cose per cui non sono preparati; i figli richiederebbero un’eccellenza in campo affettivo, psicologico, medico, ma il più delle volte vengono ben educati da due normalissimi genitori che inciampano nelle forme e nei modi. Il nostro discreto, sufficiente, anche l’insufficiente danno prova del nostro impegno; non siamo al meglio di noi quando ci sono cose davvero importanti da fare. Le facciamo perché crediamo nel valore che hanno, anche se le nostre qualità non sono al top.

Non è una giustificazione ed essere sciatti o menefreghisti; è la virtù degli umili che non rifiutano di offrire anche il profilo peggiore se c’è un’impresa eroica da difendere.

Una torta bruciata, buon segno

In un altro testo, un poema per la precisione, Chesterton descrive la grande proposta che l’uomo cristiano vede dietro i propri fallimenti. Raccontando l’impresa epica di un re medievale di nome Alfred, GKC parla della nostra quotidianità. Ad Alfred capita una cosa davvero strana, poco prima della battaglia decisiva che lo vede al comando di un grande esercito contro l’invasione dei pagani Danesi: una vecchietta nel bosco gli chiede di guardare la torta che ha messo sul fuoco. Davvero un re può abbassarsi a un compito così umile? Non solo. Mentre guarda il dolce che cuoce, Alfred si distrae e lo brucia; la vecchia si arrabbia e gli butta in faccia la teglia rovente.

Una grande cicatrice gli ferisce il volto, e lui, il grande re, ride perché ha capito la lezione. Ha intuito che per essere davvero pronti alle imprese più importanti dobbiamo aver chiaro che non saranno le nostre capacità a risolverle per il meglio; ciò che occorre è la nostra presenza, non sempre e solo il nostro meglio. Occorre tutto di noi dentro le circostanze, anche la paura, il tremore e i passi inciampati.

«Era il gigantesco riso degli uomini cristiani,
che con fragore riempie migliaia di storie,
[…]
Storie di rovina e storie di inganno,
che non terminano sempre con lo scherno –
storie di re, di pagliacci e della loro felice miseria,
di come una vita finisca male e il mondo vada verso il bene.
“Ecco, questo è un annuncio veritiero,”
urlò Alfred, “in nome della spada che porto:
colui che è accusato di essere un servo cattivo
potrà diventare un buon re.

Colui che è stato servo
conosce tutto, meglio dei preti e dei re,
ma colui che è stato un servo cattivo,
conosce fino in fondo la terra.
L’orgoglio erige fragili palazzi al cielo,
come l’uomo che costruisce con la sabbia,
ma il piede sicuro dell’umiltà
conquista le terre più ostili». (da La ballata del cavallo bianco)

Sono molte le circostanze quotidiane in cui il fallimento può diventare il nostro migliore amico, ecco come lo sguardo di Chesterton può aiutarci a viverle.