Gustav Klimt: “Il mio regno non è di questo mondo”. Un oro che inganna e la ricerca di un “bacio” metafisico, perché quello umano è troppo deludente, di Andrea Lonardo
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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, cfr. la sezione Arte e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (21/10/2018)
1/ Klimt: il dramma del “bacio”
Fraintende completamente Klimt chi vede nei suoi quadri un’esaltazione dell’amore.
Nel Bacio la donna è inginocchiata ai piedi dell’uomo in un atteggiamento che è certamente lontano da qualsiasi bacio amoroso di una coppia di pari che celebri e anzi “festeggi” la dignità di entrambi.
Non è innanzitutto la biografia “affettiva” di Klimt a dichiarare mistificante una lettura che pretenda che gli ori ed i colori del maestro celebrino la bellezza dell’amore. Sono le sue stesse opere a sbarrare la porta a tale visione, ma già la vita amorosa del grande maestro indirizza in tale direzione, tanto essa esula da qualsiasi canone affettivo.
Klimt, infatti, ebbe almeno 6 figli da 3 diverse donne, senza riconoscere alcuno di essi[1]: ben tre di essi portarono lo stesso nome del padre, ma nessuno il suo cognome e due dei Gustav nacquero nello stesso anno, da due diverse donne.
Klimt ebbe però più figli dei sei che gli vengono attribuiti con certezza: Nebehay, uno dei più importanti biografi del pittore, ritiene che ne abbia avuto 14 naturali[2].
Tuttavia la donna che più amò non fu nessuna di quelle che gli donarono dei figli, bensì Emilie Flöge (1874-1952)[3].
Tietze - amico di Klimt e autore di un importante articolo biografico sull’artista pubblicato ad un anno dalla sua scomparsa[4] - scrisse della relazione affettiva con la Flöge: «C’era in lui come una lacerazione che gli impediva di abbandonarsi alla vita. Per molti anni fu legato da intima amicizia a una donna, ma non riuscì mai a decidersi a un sì definitivo. Si sente che la nevrosi erotica che anima i suoi disegni più vibranti nasce da un’esperienza dolorosa. Klimt non ha mai voluto assumersi la responsabilità di essere felice, e l’unico privilegio che concesse alla donna che amò per anni fu di consolarlo nel momento della morte»[5].
2/ Klimt non fu nemmeno un critico della società asburgica
D’altro canto sarebbe altrettanto errato vedere in Klimt un critico sociale della sua epoca o un oppositore della società del tempo, così come sarebbe estremamente semplicistico interpretare la sua pittura come un raffinato erotismo anti-borghese, a partire dalla vita sregolata che condusse. Nei pochi scritti esistenti del pittore non si fa mai cenno ad una qualche critica sociale volta a contestare una visione tradizionale degli affetti.
Inoltre, anche se Klimt visse in tempi nei quali furono forti le spinte sociali e socialiste, i suoi temi iconografici sono assolutamente alieni da tali prospettive.
Egli visse altresì gli anni della I guerra mondiale, ma del dibattito che essa generò negli animi non si trova traccia nelle sue opere, né egli fece sua la battaglia per la cessazione delle ostilità.
I temi sociali sono semplicemente assenti nella sua opera: egli si trovò a lottare solamente per la libertà di raffigurazione dell’artista.
3/ L’ambiguità dell’amore e del femminile come sentimento della morte in Klimt
Klimt è, invece, testimone di uno spaesamento più profondo rispetto al dibattito sociale. I suoi temi iconografici riguardano piuttosto l’interrogativo personale dell’individuo sulla sensatezza del vivere.
Tale domanda emerge proprio dinanzi al femminile nella questione posta sull’amore: esso ha fondamento e sensatezza?
È la precarietà dell’esistenza – e dell’amore stesso – ciò che emerge ripetutamente nei temi iconografici di Klimt. Klimt dipinge la sua visione dell’ambiguità dell’amore e lo indaga soprattutto attraverso quella che per lui è la “doppiezza” presente nella figura femminile, angelo ed essere mortifero – è significativo che il pittore non si sofferma mai su di una qualche contraddittorietà della figura maschile.
Questa è la cifra della pittura di Klimt: la donna e l’amore sono raffigurati in un contesto di insensatezza e nella prospettiva incombente della morte, dove l’arte - e non la relazione amorosa - rappresenta una pausa che “distrae” dal nulla. L’arte, non l’amore, ha senso in Klimt.
Gustav Klimt, Amore
Il tema del fluire della vita che si protende verso la fine è presente ripetutamente. In Amore del 1895, ad esempio, il bacio degli amanti è accompagnato dalla sequenza, nella parte alta del quadro, di tre volti femminili che rappresentano l’infanzia, la giovinezza e la vecchiaia, cioè lo scorrere del tempo e la consumazione della persona, richiamandosi ad una tradizione iconografica consolidata.
Gustav Klimt, Le tre età della donna
Anche in Le tre età della donna (1905) la raffigurazione di una donna con la sua bambina (infanzia ed età giovanile) è sovrastata dalla figura di una terza donna della quale colpisce non tanto la nudità, quanto piuttosto la vecchiaia: essa è avvizzita e ricorda l’ineluttabile destino delle altre due.
Gustav Klimt, La speranza I
Così in Speranza I (1903) non solo lo sguardo della donna in cinta appare turbato e tutt’altro che carico di gioia, ma, soprattutto, subito sopra il suo capo è dipinto un teschio, mentre altre figure tenebrose appaiono in alto a problematizzare la “speranza”[6]. Anche qui fallirebbe di gran lunga il bersaglio una critica che si soffermasse in prevalenza sulla nudità della donna, in chiave anti-borghese: ciò che colpisce del quadro, invece, è la presenza ossessiva della morte, “citata” nel momento della maternità.
Gustav Klimt, Giuditta I
L’ambiguità della vita e dell’amore è presente in maniera diversa nella rappresentazione dell’eroina biblica Giuditta – Giuditta I (1901) e Giuditta II (1909). Le due opere non hanno in Klimt alcun intento religioso e non intendono mostrare il coraggio della donna ebrea capace di vincere i nemici del popolo di Dio, superiori di forze, grazie alla sua intelligenza e bellezza e grazie alla provvidenza divina. Klimt, invece, dipingendo Giuditta mette in scena la donna come ammaliatrice e come figura capace di uccidere l’uomo. La testa mozzata di Oloferne attesta, nell’iconografia klimtiana, il pericolo della presenza femminile così come al pittore sembrava di vederlo.
4/ Le ultime opere di Klimt e l’inconsistenza dell’amore
Gustav Klimt, La vergine
Gustav Klimt, Morte e vita
Più esplicite ancora sono le ultime opere di Klimt, La Vergine (1913), Morte e vita (1911-1916) e l’incompiuta La sposa.
Ne La vergine, se non vi sono immagini esplicite di morte, i corpi di diverse donne sono però come composti come in un ammasso che non distingue la protagonista dell’opera dalle altre: questa volta le donne sono tutte giovani, senza presenza di anziane, ma, lo stesso, rappresentate come a relativizzare la dignità individuale di ognuna di esse.
Il groviglio di corpi ritorna in Morte e vita, dove l’insieme di corpi di uomini, donne, di figli e di anziane, è contrapposto all’unica figura della morte, coloratissima ma macabra, pronta a colpire, con il teschio che la contraddistingue ad indicare il termine dell’esistenza di tutte le vittime che le stanno dinanzi, come tenute in vita in vista di una mattanza.
5/ La sposa: Klimt e la novella di Schnitzler
Gustav Klimt, La sposa
Nell’incompiuta La sposa, invece, ad un groviglio di corpi femminili con donne giovani e anziane, a sinistra si contrappone a destra una figura di donna (dalla quale emergono ulteriori figure incompiute) con vesti colorate, ma attraverso le quali si intravede una nudità “volgare”, chiaramente intuibile e bene in vista.
La critica recente ipotizza che tale ultima opera di Klimt intendesse ispirarsi alla novella La sposa promessa di Schnitzler[7] - i due erano contemporanei e concittadini e vissero conoscendosi e frequentandosi.
Nella novella “La sposa promessa. Uno studio” Schnitzler racconta di un uomo che incontra una donna ad un ballo in maschera. Egli viene “subito colpito dal suo sguardo intelligente e tranquillo e dall'abito di un azzurro intenso che indossava. Non era mascherata e non cercava affatto di nascondere quel che era. Apparteneva alla categoria delle prostitute dichiarate”. Poiché il suo modo di parlare e di muoversi indicava una provenienza sociale certamente elevata, sentì il bisogno di chiederle cosa l'avesse indotta ad abbracciare quella vita. Mentre sul far del mattino, tutti e due un po' ebbri, si dirigono in carrozza al Prater, lei gli racconta la sua storia.
Di famiglia molto conosciuta e stimata, aveva ricevuto una severa educazione, “ma i sensi le si erano destati precocemente suscitando in lei violenti desideri” fin dall'adolescenza. Così aveva maturato un piano: trovare un marito e poi abbandonarsi agli “impulsi selvaggi della propria natura, gettandosi fra le braccia di chiunque le fosse piaciuto”. A 17 anni si fidanzò, ma finì per innamorarsi del futuro sposo, provando grande vergogna per i progetti che aveva concepito in passato. Voleva diventare una buona moglie, fedele e devota, e così, per alcuni mesi, fu più tranquilla. Con l'avvicinarsi delle nozze, però, “l’antica bramosia” si ridestò e più volte fu sul punto non di concedersi al fidanzato ma “di essere lei a prenderlo”. Sentiva che doveva comunque confessargli la verità, dirgli che non era nata per fare la brava moglie. Il suo amore per lui divenne un lontano ricordo e riemerse prepotente in lei la brama di altri uomini. Una sera, in casa dei genitori, gli confessò tutto. L’uomo, dapprima incredulo, cercò di farla ragionare ma poi, davanti alle rivelazioni sempre più esplicite della promessa sposa, ritirò la parola data. Mentre parlava, però, si sentiva sempre più affascinato dalla bellezza selvaggia della giovane e con forza tentò di convincerla che doveva darsi a lui. Lei, allora, lo respinse disgustata e quella notte stessa fuggì dalla casa paterna, concedendosi ad uno sconosciuto incontrato per strada.
Quando termina il suo racconto la donna ha il volto sereno che esprime “la quieta felicità di chi ha finalmente abbracciato il proprio destino e non si cura dell’opinione altrui” e si guarda intorno come se il suo interlocutore non esistesse. L’uomo, a quel punto, fra sé e sé fa alcune considerazioni: anche le donne che ci hanno amato, nel momento di maggiore intimità ci guardano come se non esistessimo, nonostante la “pomposità del nostro io” e noi, proprio nel momento dell’ebbrezza, diventiamo per loro insignificanti.
Schnitzler così conclude la novella: «Non sono forse le donne che ci hanno realmente amato ad averci fatto sperimentare centinaia di volte, rabbrividendo, muti per la disperazione, come nell’attimo dell’amplesso non esistessimo più per loro, nonostante tutta la pomposità del nostro io, e come la nostra insignificante personalità non fosse altro che l’espressione di una legge onnipotente che in un modo del tutto casuale aveva scelto proprio noi per manifestarsi? E quando lentamente risalgono dall’ebbrezza più sublime, non notiamo forse lo stupore inquietante con cui ci guardano, o meglio con cui ci scrutano, come nello sforzo di ricordare chi siamo? Infatti, proprio nel momento dell’ebbrezza, nonostante tutte le nostre migliori qualità, tutta la nostra intelligenza e la nostra avvenenza, tutte le virtù e tutti i vizi di cui ci siamo serviti per conquistarle, diventiamo indicibilmente insignificanti di fronte all’eterno principio che, per affermarsi, deve assumere la maschera di un individuo. Nell’attimo di incoscienza in cui la natura riesce a imporre la propria legge non v’è dunque bisogno che di un uomo e di una donna, e per quanto ci affanniamo a illuminare gli istanti precedenti e successivi con le fantasmagoriche luci della nostra individualità, esse si spengono inesorabilmente l’una dopo l’altra nella fosca notte dell’amplesso».
Tale visione del gesto sessuale, all’interno di una legge che lo svuota di ogni significato, ben si sposa con l’intera visione di Klimt. I due condivisero questa visione drammatica e non conciliata della vita.
In questa prospettiva non è nemmeno l’erotismo ad essere dominante, quanto il suo rapporto con la morte[8].
6/ La Filosofia, la Medicina e la Giurisprudenza: il rifiuto di una visione ottimisticamente scientifica e positivista della vita
Il fatto che la visione klimtiana dell’insensatezza dell’amore non vada intesa come una critica alle modalità borghesi della Vienna della crisi dell’impero asburgico, quanto piuttosto come una prospettiva esistenziale, appare nelle tre opere più “ideologiche” del maestro quando egli venne chiamato a rappresentare il sapere stesso dell’uomo.
A Klimt, infatti, vennero commissionate alcune opere – purtroppo oggi perdute, ma note grazie a stampe fotografiche[9] – per il soffitto dell’Aula Magna dell’Università di Vienna. Esse dovevano rappresentare le tre Facoltà della Filosofia (1899-1900), della Medicina (1897-1904) e della Giurisprudenza (1903-1904).
In questo caso Klimt si misurò ancor più esplicitamente con la necessità di dichiarare quale prospettiva egli intravedesse per l’uomo, chiamato com’era a mostrare le possibilità della ricerca intellettuale.
Ora, ben al di là delle polemiche estetiche che suscitarono, ciò che appare evidente è lo “scetticismo” di fondo delle tre tele che si contrappone non alla visione borghese del tempo, quanto ben più profondamente alla possibilità di concepire una visione armonica della vita.
Le tre opere negano quella visione tipica della filosofia positivistica e scientista, così forte all’epoca, che riteneva, attraverso sforzi progressivi, di poter sostanzialmente migliorare le condizioni dell’umanità intera, accedendo alla conoscenza della verità, alla guarigione dei corpi e alla costituzione di una società più giusta.
Klimt, invece, dipinge nella Filosofia come un groviglio di corpi umani disposti in una colonna che richiama il fluire storico. Le singole esistenze sono sì accennate, con la presenza chiara di bambini e di vecchi, con una diversità anche di sentimenti che spaziano dall’amore alla disperazione, ma, più radicalmente giustapposte in quanto cangianti le une nelle altre, in una necessità che tutte le supera.
In basso sta una figura non meglio identificabile, di donna tutta umana, che guarda allo spettatore.
Nella destra dell’opera, invece, isolata, si staglia un volto che rappresenta l’enigma del mondo incomprensibile, come una moderna sfinge: è essa a rappresentare la “filosofia”, della quale si nega la possibilità di comprendere e di intravedere un senso.
La “filosofia” è dipinta come insensibile al dramma umano che si sussegue corpo dopo corpo, generazione dopo generazione, amore dopo amore, morte dopo morte.
Anche nella Medicina una metà dell’opera è caratterizzata dalla massa dei corpi umani. Questa volta in mezzo ad essi appare una macabra figura a rappresentare la morte, che si cela in mezzo all’umanità e la domina. Solo due figure umane, una maschile e l’altra femminile, si staccano dalla colonna di corpi, ma senza essere in grado di “guarire” e di indicare un diverso destino.
La “Medicina” è rappresentata in basso da Igea che, però, volge le spalle all’umanità, incapace, come la “Filosofia” di compatire e di salvare.
Se le critiche si appuntarono in apparenza sui due nudi femminili presenti nell’opera, uno di una donna in cinta e l’altra della figura a sinistra, in realtà ciò che appare caratteristico dell’opera è lo sguardo disincantato con cui si guarda alla “Medicina” e alla sua precarietà dinanzi alla debolezza umana.
Nella Giurisprudenza, invece, a differenza della Filosofia e della Medicina l’umanità non è rappresentata da un susseguirsi di corpi che fluiscono, tutti drammaticamente impotenti dinanzi al destino, bensì da una sola figura, quella di un anziano.
Egli è in basso, nudo, come avvolto da un enorme “polipo” che lo stringe e, poco più oltre, è circondato dalle tre Furie. Sia che egli sia il colpevole, sia che sia l’ingiustamente trattato, certo è che l’opera denuncia ancora una volta l’incapacità del diritto a ripristinare uno stato sensato del vivere. La giustizia della “Giurisprudenza” fallisce, sia che punisca, sia che non riesca a rendere giustizia.
Le divinità delle tre Erinni stanno come lontane dagli uomini - come la Sfinge nella Filosofia e Igea nella Medicina -, come a guardare da lontano, senza intervenire, incuranti del dramma che si compie.
Come nella meditazione estetica sull’amore e sul femminile, la critica di Klimt si rivolge nelle opere sulle Facoltà universitarie non alla filosofia, alla medicina o alla giurisprudenza della Vienna della fine dell’impero asburgico, bensì all’incapacità dell’intero pensiero e dell’intera azione umana, umanistica e scientifica, di attingere una qualche possibilità di vincere il dolore e il non senso del vivere.
7/ Il Fregio di Beethoven e la fuga dal reale nell’arte
Video "klimt secessione" |
Dove nasce, allora, il fraintendimento per il quale parte del pubblico ritiene Klimt sia uno dei pittori che meglio esprima il “mistero” gioioso del femminile e l’amore stesso?
Nasce dal fatto che non si comprende che Klimt intese esaltare l’arte e non la donna: nasce dal fatto che il pittore intese far brillare il colore e non l’amore.
La fondazione della Secessione non intese promuovere una nuova visione della vita, bensì, da un lato, difendere la libertà artistica e, dall’altro, indicare l’arte come via da percorrere per sopravvivere nell’insensatezza.
Un’immagine precisa di tale visione è chiaramente espressa nel Fregio di Beethoven, opera che intende esaltare l’arte e non l’amore.
Il Fregio venne pensato per la XIV Esposizione della Secessione che si scelse di dedicare al musicista tedesco ed, in effetti, un lato della sala predisposta per il dipinto di Klimt era aperto per lasciar intravedere la statua di Beethoven realizzata da Max Klinger che era posta nella stanza centrale.
Modellino della sistemazione del Palazzo della
Secessione in occasione della XIV Esposizione
dedicata a Beethoven
Le tre sezioni dell’opera hanno un andamento narrativo e intendono prospettare uno sviluppo.
Il catalogo stesso della mostra forniva le indicazioni per una corretta interpretazione:
«Prima parete – L’anelito alla felicità - Le sofferenze della debole umanità – Le sue preghiere al forte cavaliere armato - Compassione e orgoglio come forze interiori che lo spingono a intraprendere la lotta per la felicità -.
Seconda parete – L’ostilità delle forze avverse - Il gigante Tifeo, contro il quale perfino gli dei hanno combattuto inutilmente, le sue figlie, le tre Gorgoni - Malattia, Follia e Morte – Lussuria, Impudicizia e Intemperanza – Dolore struggente - I desideri e gli aneliti dell’umanità volano via al di sopra.
Terza parete – L’anelito alla felicità si placa nella Poesia - Le arti ci guidano nel regno ideale dove soltanto possiamo trovare la pura gioia, la pura felicità, il puro amore. - Coro degli angeli del Paradiso: “Frede, schöner Gotterfunken”[10] [Gioia, meravigliosa scintilla divina]. “Diesen Kuss der ganzen Welt!” [Questo bacio a tutto il mondo]»[11].
La narrazione nasce a sinistra con la raffigurazione dell’Anelito alla felicità: alcune figure nude, immagine del dolore della condizione umana, si susseguono fino a giungere alla presenza di un Cavaliere a cui rivolgere suppliche, perché egli scenda in campo a loro difesa. Il Cavaliere ha immediatamente sopra di sé la Fierezza e la Compassione con le quali può intraprendere la sua battaglia per l’umanità.
Nella seconda parete della narrazione simbolica vengono presentate le forze avverse che il cavaliere - e con lui l’umanità – debbono affrontare. Domina questa parte del dipinto il Gigante Tifeo del quale si vede l’enorme testa e, in tutta la parte destra del dipinto, le sue ali blu e la coda serpentina. A sinistra del capo di Tifeo stanno le sue tre figlie, le Gorgoni, simboli della malattia, della pazzia e della morte. La difficoltà della situazione che l’umanità deve affrontare è accentuata dall’ulteriore presenza di figure, a destra della testa di Tifeo, che rappresentano Lussuria, Impudicizia e Intemperanza. Diversi volti orrendi e teschi emergono dal fondo del dipinto e, fra le spire serpentiformi di Tifeo, una figura isolata rappresenta il Dolore struggente della condizione umana.
Nell’ultima parete del dipinto le figure nude che anelano alla felicità raggiungono infine la Poesia che suona una cetra e, ancora più oltre, si dispongono ad ascoltare i cori degli Angeli che fanno corona al Bacio di due amanti nudi che rappresentano il Bacio dell’arte all’umanità intera, omaggio all’Inno alla gioia di Schiller, musicato nella Nona Sinfonia di Beethoven.
Dall’insieme dell’opera emerge così la stessa conflittualità del vivere e il dolore lancinante dell’umanità, oppressa da forze avverse “metafisiche”, cioè da un destino invincibile, e dai propri stessi vizi dai quali è impossibile liberarsi, che emergono nelle altre opere di Klimt.
Le forze positive che entrano in campo sono quelle dei cultori dell’arte: il Cavaliere che viene in soccorso è l’artista - non solo Beethoven -, così come è solo la Poesia che con la sua lira sembra vincere sul male. Ed il Bacio non è quello dell’amore umano, bensì quello della Musica e della Poesia che sollevano l’umanità dalla loro invincibile infelicità.
Klimt aveva scelto come motto per il Fregio una frase evangelica, citata in uno scritto di Richard Wagner in riferimento a Beethoven: « Il mio regno non è di questo mondo»[12].
Si vede chiaramente come l’opera assuma una connotazione “metafisica” ad indicare una visione della condizione dell’umanità tout court e non una critica ad una determinata visione sociale, come quella, ad esempio, dell’impero austriaco a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo[13].
Se Dante vedeva in Beatrice la sensatezza dell’esistenza e l’incontro con quella creatura di carne era per lui la possibilità di credere che l’intera vita fosse bella, garantita com’era dalla creazione e dalla provvidenza, per Klimt, invece, l’assurdità della vita trova consolazione solo nella poesia – così come nella pittura e nella musica – che possono far dimenticare all’uomo la concretezza dell’esistenza: non l’amore e l’incontro con la donna conducono a Dio, bensì è il Bacio dell’arte che sostituisce ogni bacio umano d’amore, in se stesso contraddittorio e non determinante. L’arte conduce al “regno di un altro mondo” e non ad una diversa visione di quello in cui l’uomo vive.
Come ha scritto Pontiggia, Klimt costruisce con le sue opere una “breve eternità”[14], meglio ancora un’eternità che cerca di sostituirsi al deludente reale, pur sapendosi effimera.
La prospettiva del Fregio ha, in qualche modo, una sua anticipazione ne La musica I e II (1895 e 1898), nella quale una donna suona la cetra, ma subito dietro di lei appare «un sipario di pietra, simbolo della barriera della morte»[15] con ai due capi un Sileno ed una Sfinge ad indicare l’impenetrabilità del “mistero” del vivere e della felicità.
Anche il Bacio, che è del 1907-1908, deve esse inserito in tale prospettiva come raffigurazione non dell’amore tout court, bensì di una tappa del perpetuo fluire dell’esperienza amorosa fermata in un momento nel quale una donna si inginocchia dinanzi ad un uomo come per domandare perdono delle sofferenze che gli ha inflitto o, comunque, in una “breve eternità” pronta a scomparire nel fluire temporale.
8/ Il crocifisso di Klimt: mai l’avversione alla fede, ma certo l’assenza di un senso redentivo possibile
Klimt disegnò anche una croce e precisamente quella della tomba di famiglia dei Klimt al Baumgartner Friedhof[16]. Ancora una volta è l’opera stessa di un uomo a parlare là dove tacciono le parole.
La dimensione religiosa non è certamente quella che caratterizza il pittore viennese. Egli, come si è visto, è piuttosto un “metafisico” al negativo. È cioè un autore che affronta i suoi temi preferiti – la donna e l’amore – ma non in se stessi, bensì alla luce – alla mancanza di luce – del tutto.
Dove si dice “amore”, “sesso”, “donna”, “bacio”, “maternità”, egli sente la necessità di dire al contempo “morte”, “nulla”, vuoto”, vecchiaia che tutto distrugge”, “fine”.
Klimt non domanda mai solo sul frammento, ma insieme, sempre, sulla sensatezza e la totalità, manifestando però una totale disillusione sugli esiti di tale interrogare.
Il pittore viennese non riesce e non vuole dimenticare l’orizzonte, anzi è proprio tale prospettiva ciò che mette in luce, ma tale ampio sguardo non illumina, non rischiara, non rasserena.
Solo l’arte, come si è visto, permette una momentanea fuga, una luce temporanea, per la quale l’artista riempie d’“oro” istanti di esistenza, per far risaltare ancor più nel contrasto con tale “colore” le tenebre che non solo li circondano, ma stanno per inghiottirli.
Eppure tale prospettiva “disperante” non diviene anti-cristiana, come ad esempio in Nietzsche. Klimt non sente il bisogno di demolire la fede e non gli appartiene una opposizione al cristianesimo.
La sua pittura è espressione di un malessere che non riesce ad indicare possibilità, non un’arte militante di opposizione.
Per questo non stupisce che egli abbia disegnato e realizzato anche un crocifisso. Klimt non attribuisce il non senso dell’amore e della donna a qualche visione della vita che egli intende combattere, illudendosi che la demolizione di questa o quella posizione religiosa possa migliorare la situazione esistenziale dell’uomo.
Le sue opere non contengono mai un’avversione esplicita alla fede. Per questo egli non si fece problema di disegnare un crocifisso.
Ma certamente il senso redentore di quella croce non appartiene alla sua prospettiva e, pertanto, egli dispera.
Note al testo
[1] Sono i sei citati nella voce Biography & Milestone/biografia di Klimt, redatta dalla Gustav Klimt Wien 1900 Foundation (https://www.klimt-foundation.com/en/klimt-info/biography; la Fondazione venne stata creata da Gustav Ucicka, figlio del pittore e di Marie Ucicka). Klimt ebbe un figlio da Marie Ucicka (1880–1928), Gustav (nato nel 1899, ricevette il cognome dalla madre diciannovenne).
Ebbe due figli da Maria "Mizzi" Zimmermann (1879–1975), nati il primo nel 1899 (nello stesso anno del figlio nato dalla diciannovenne Marie Ucicka e con lo stesso nome di Gustav, la Zimmermann aveva invece vent’anni) e il secondo nel 1902, con i nomi di Gustav e Otto (tutti e due hanno ricevuto il cognome della madre, Zimmermann).
Ebbe tre figli da Consuela Camilla “Ella” Huber (1896–1978), nati fra il 1912 e il 1915, Gustav, Charlotte e Wilhelm (tutti e tre hanno ricevuto il cognome della madre, Huber, il primo è nato quando la donna era sedicenne). Il primogenito di tutte e tre le donne ebbe il nome di Gustav, ma nessuno ebbe il suo cognome.
[2] C.M. Nebehay, Gustav Klimt. Dal disegno al quadro, Rizzoli, Milano, 1996, p. 272.
[3] Gustav la conobbe quando suo fratello Ernst sposò la sorella di Emilie, Helene, nel 1891: Emilie aveva allora quasi 18 anni. Ernst morì l’anno successivo al matrimonio, nel 1892. Da allora Gustav Klimt iniziò a frequentare sempre più casa Flöge. Emilie divenne creatrice di moda e molte delle donne ritratte da Klimt indossano vestiti disegnati da lei, così come lui disegnò vestiti per la donna. Parte della critica ritiene che la donna inginocchiata dinanzi all’amante nel Bacio possa essere lei, senza però che vi sia una dimostrazione cogente in merito.
[4] H. Tietze, Gustav Klimt Persönlichkeit nach Mitteilungen seiner Freunde, in “Die Bildende Kunst”, II, n. 1-2, 1919, pp. 9-10.
[5] Traduzione italiana da E. Pontiggia (a cura di), Gustav Klimt. Lettere e testimonianze, Milano, Abscondita, 2005, pp. 50-51.
[6] In Speranza II (1907-1908 sono invece delle figure femminili in basso, con capo chino e mani invocanti, a turbare i meravigliosi colori dell’abito della “madre”.
[7] Cfr. su questo S. Tretter, “Fantasies finished and unfinished”. Gustav Klimt’s allegory The Bride in the context of his late work and of Arthur Schnitzler’s novella Die Braut, in H.-P. Wipplinger-S. Tretter (a cura di), Gustav Klimt. Artist of the Century, Wien, Leopold Museum – Gustav Klimt Wien 1900 Foundation, 2018, pp. 167-177.
[8] Il che non vuol dire assolutamente che Klimt non abbia amato dipingere soggetti erotici, come indicano chiaramente sia la Danae (1907-1908) e ancor più i disegni erotici da lui preparati per l’edizione dei Dialoghi delle Cortigiane di Luciano (1907), oltre a tanti schizzi presenti nei suoi quaderni privati. Ciò che si intende piuttosto sottolineare è il disagio che tali opere attestano: l’erotismo di Klimt non ha una prospettiva di critica sociale e nemmeno è serenamente e consapevolmente accettato, bensì, nel suo percorso artistico, è intrinsecamente problematico.
[9] Le tre opere, criticate dai critici e dall’opinione pubblica, vennero infine riacquisite da Klimt che restituì il denaro dell’anticipo che gli era stato versato, stufo della mancata accettazione del suo lavoro. Nel 1945 bruciarono nell'incendio del castello di Immendorf, nell’Austria meridionale, dato alle fiamme dalle truppe tedesche in ritirata.
[10] Dall’Inno alla gioia di F. Schiller riutilizzato da Beethoven nella Nona Sinfonia: Klimt e gli altri artisti della Secessione la fecero eseguire per l’inaugurazione della XIV Esposizione, sotto la direzione di Gustav Mahler.
[11] Citazione in E. Di Stefano, Klimt. 1862-1918, Milano, Giunti, 2018, pp. 98-99 e, con diversa traduzione, in J. Dobai, L’enigma della grandezza di Gustav Klimt, in L’opera completa di Klimt. Classici dell’arte Rizzoli, Milano, Rizzoli, pp. 5-6.
[12] Così J. Dobai, L’enigma della grandezza di Gustav Klimt, in L’opera completa di Klimt. Classici dell’arte Rizzoli, Milano, Rizzoli, p. 5.
[13] Ha ragione E. Di Stefano, Klimt. 1862-1918, Milano, Giunti, 2018, p. 102 che contesta Dobai quando vede nel Fregio una «protesta contro la società vittoriana e la sua doppia morale», mentre esso tratta di tutt’altro.
[14] E. Pontiggia, L’oro di Klimt, in E. Pontiggia (a cura di), Gustav Klimt. Lettere e testimonianze, Milano, Abscondita, 2005, p. 76.
[15] E. Pontiggia, L’oro di Klimt, in E. Pontiggia (a cura di), Gustav Klimt. Lettere e testimonianze, Milano, Abscondita, 2005, p. 57.
[16] La croce di Klimt è oggi esposta presso il Leopold Museum di Vienna, nell’ultima sala dedicata al pittore.