Il «metodo bin Salman» sul dissenso. Il «riformista» del Regno procede tra purghe e arresti arbitrari. Persino il silenzio viene punito perché equiparato a una posizione critica, di Camille Eid
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Riprendiamo da Avvenire dell’11/10/2018 un articolo di Camille Eid. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni L'Islam odierno e La libertà religiosa e la persecuzione delle minoranze.
Il Centro culturale Gli scritti (21/10/2018)
Il principe Mohammed bin Salman
nella sua visita in Spagna (Ansa/EPA)
Sin dalla sua nomina – nel giugno 2017, scalzando un cugino – erede al trono, Mohammed bin Salman (MbS) ha cercato di accreditarsi in Occidente come il modernizzatore del Regno. Ha così conquistato le prime pagine dei giornali mondiali con i suoi annunci: permesso di guidare alle donne, loro ammissione negli stadi, creazione di un apposito “Ente per l’intrattenimento” incaricato di promuovere film e concerti musicali, limitazione del potere della polizia religiosa, senza parlare dei suoi piani economici miliardari (come “Saudi Vision 2030”) che mirano ad affrancare il Paese dalla dipendenza dal petrolio. Le riforme del principe hanno tuttavia schivato il registro (già pessimo, bisogna dire) delle libertà civili e politiche. La stampa rimane notoriamente imbavagliata, i diritti umani totalmente assenti, gli arresti arbitrari e la tortura pratiche quotidiane.
In carcere non solo sono rimasti noti attivisti, come il blogger Raif Badawi, ma si sono aggiunti «decine di scrittori, giornalisti e religiosi», come denunciano ripetutamente Human Rights Watch e diverse altre organizzazioni di difesa dei diritti umani. Nel novembre scorso, MbS si è alienato buona parte della famiglia reale e della borghesia saudita, facendo arrestare 381 illustri uomini d’affari, principi ed ex ministri nel quadro di una presunta “campagna anticorruzione” che aveva tutto l’aspetto di una purga contro conclamati e potenziali rivali. Dopo aver rinchiuso i magnati per tre mesi in lussuose camere a cinque stelle del Ritz Carlton di Riad, tutti (o quasi) hanno “volontariamente” ammesso le proprie colpe e restituito allo Stato beni per un valore complessivo di 100 miliardi di dollari. Il pugno di ferro ha raggiunto anche le donne.
Dello scorso maggio, ad esempio, l’arresto di quattro attiviste, tra cui Loujain al-Hathlul e Aziza al-Yussef, entrambe molto conosciute in Arabia Saudita per l’impegno nella lotta a favore dei diritti delle donne. L’accusa per loro è quella di avere avuto «contatti sospetti «con entità straniere (leggi il Qatar) e di avere incassato «soldi con l’obiettivo di destabilizzare il Regno». Persino il silenzio può costare caro perché equiparato dalle autorità al dissenso. Nella conversazione fuori-onda diffusa martedì dalla Bbc, lo stesso Jamal Khashoggi ha lamentato l’arresto di diverse persone «che non erano nemmeno dissidenti, ma volevano semplicemente avere una mente indipendente».
Poi ha fatto l’esempio di un suo amico che si era astenuto dall’elogiare, come altri giornalisti, il “nuovo corso” economico del principe. «Non parlava mai di queste cose – aveva detto Khashoggi al suo interlocutore tre giorni prima della sua scomparsa –. Forse ha solo espresso qualche critica durante una dinner party».